Scritto da Jacopo Perazzoli
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
La forza del neoliberismo ai tempi del COVID-19
Questi giorni forzatamente domestici ci permettono di tornare sulle letture più interessanti uscite tra la fine del 2019 e il primo scorcio del 2020. Tra queste, una è sicuramente il denso articolo, firmato da Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano, Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per tempi nuovi, uscito sul fascicolo 6/19 de «il Mulino».
A ben vedere, non si tratta soltanto di riempire giornate che altrimenti rischierebbero di diventare eccessivamente oziose. Alcuni degli snodi su cui Felice e Provenzano, rispettivamente storico dell’economia dell’Università di Pescara e Ministro per la coesione territoriale, si bloccano sono direttamente connessi allo stato attuale della sanità italiana, così sotto pressione per i ben noti fatti relativi alla diffusione del COVID-19.
Ciò che le istituzioni sanitarie nostrane stanno vivendo – riduzione di posti letto e di fondi, così come scarsità di medici e di personale, nonché di materiali da usare in questa fase emergenziale – credo si debba ricollegare all’evoluzione in senso neoliberista del liberalismo, tema su cui Felice e Provenzano spendono, a ragione, molte righe. Considerato che sul piano teorico «il pensiero neoliberale ha ridotto la complessità umana alla sua dimensione economica (…) nel nome del solo interesse individuale»[1], la sfera politica, evidentemente influenzata da quella riflessione, si è venuta progressivamente adattando, elevando l’«arricchimento personale» a «fine concreto della vita umana»[2].
Se questo è stato il panorama teorico e argomentativo, non sorprende la decisione, che ha segnato buona parte dei paesi occidentali, Stati Uniti inclusi, di un progressivo smantellamento dei sistemi di Welfare, ritenuti, appunto, uno strumento non necessario nella corsa al «consumismo» e all’«arricchimento personale».[3] In altre parole: volgere la prassi politica all’aumento dell’arricchimento del singolo ha fatto sì che si perdessero di vista le esigenze della collettività, leggi anche le disponibilità dei sistemi sanitari nazionali.
A livello di policies, quella prospettiva ha avuto degli effetti quanto mai evidenti anche sul piano dei programmi sociali. Per questa ragione, la riflessione di Felice e Provenzano si pone in un solco quanto mai significativo: per esempio, paiono perfettamente coerenti con le tesi che Massimo Salvadori illustrava all’inizio del ventunesimo secolo, quando spiegava che la «rivoluzione neo-conservatrice iniziata (…) da Margaret Thatcher in Gran Bretagna negli anni ‘70, e proseguita negli Stati Uniti negli anni ‘80 dal presidente Ronald Reagan» ha finito per influenzare anche la famiglia socialdemocratica[4].
La socialdemocrazia e il neoliberismo
Probabilmente, uno dei passaggi più interessanti e ricchi di significato, specialmente considerando che Felice e Provenzano sono parte della Direzione Nazionale del Partito Democratico, è quello dedicato alle responsabilità delle élite politiche europee liberali e progressiste nella vittoria del neoliberismo, vittoria che ha favorito il lento ma costante smantellamento delle conquiste politiche e sociali che le democrazie occidentali erano riuscite a raggiungere tra il 1945 e i primi anni Settanta. Non a caso, per descrivere quel lungo lasso di tempo, l’economista francese Jean Fourastié parlò dei «trenta gloriosi», nel corso dei quali si realizzò la «rivoluzione pacifica»[5].
Al netto di questa immagine, probabilmente edulcorata, secondo quanto sostenuto di recente da Massimo Amato e Lucio Gobbi[6], ciò che interessa far qui notare è un altro aspetto. Malgrado le fortissime dispute dottrinarie tra destra e sinistra, democristiani e comunisti, socialisti e conservatori, nessuno degli attori politici in campo in quel trentennio rinunciò alla visione che considerava lo Stato come lo strumento migliore per ridurre al massimo gli effetti più distruttivi del capitalismo. Come ha avuto modo di argomentare Tony Judt nelle pagine di Dopoguerra, era altresì innegabile l’influenza della visione socialdemocratica. Per Judt, benché fosse di provenienza ottocentesca quindi in qualche modo un prodotto del passato, quella visione riuscì «a usare le risorse dello Stato per eliminare le patologie sociali connesse alle forme capitalistiche di produzione e agli effetti non controllati di un’economia di mercato»[7].
Con lo Shock of the Global, per riprendere il titolo di un testo che è divenuto un classico della storiografia degli anni Settanta, quel meccanismo si inceppò[8]. Nell’analizzare le responsabilità dei progressisti, Felice e Provenzano hanno giustamente individuato che l’errore «più grave della sinistra riformista», al governo non solo a partire dagli anni Novanta ma anche dagli anni Ottanta (il Psi di Craxi, certo, ma anche i socialisti francesi con Mitterrand), fu quello di «acconsentire alla completa liberalizzazione dei mercati di capitali». Si è trattato, spiegano, di una «deregolamentazione» che «ha reso difficile anche solo concepire una politica fiscale progressiva, dato che i più ricchi possono agevolmente spostare residenza e capitali, lì dove si pagano meno tasse»[9]. Se questo problema ha contraddistinto anche le policies dei democratici statunitensi, i due autori hanno spiegato che, nel «Vecchio Continente, un altro errore è stato non volere innervare l’integrazione europea di una vera e propria agenda sociale»[10].
Socialdemocrazia post-neoliberista: spunti per un ulteriore salto in avanti
I punti evidenziati da Felice e Provenzano sono estremamente importanti, e lo sono ancora di più se si ricorda, come già accennato, che i due sono esponenti di primo piano del Partito Democratico. Malgrado la rilevanza degli aspetti individuati, la riflessione prodotta può essere ulteriormente sviluppata abbracciando due nuovi punti, l’uno legato all’altro.
Per comprendere il primo punto, è il caso di citare uno dei passi più celebri di Plauto: Factum infectum fieri nequit, ossia il fatto compiuto non può considerarsi non avvenuto. Dalla prospettiva della famiglia socialdemocratica, significa che la lunga stagione della terza via, messa a punto quale soluzione alla fine del sistema di Bretton Woods[11], ha lasciato segni profondissimi sulle proposte politico-programmatiche dei partiti.
È stato così per il Labour Party inglese, il partito in cui di fatto germogliò la prospettiva della terza via sulla base dell’influenza della riflessione di Anthony Giddens[12]. Certo, nella recente stagione di Jeremy Corbyn si è pur cercato di adottare una nuova impostazione[13], ma durante la crisi del 2007-2008, una fase spartiacque nell’evoluzione del capitalismo contemporaneo[14], la proposta di Gordon Brown, che aveva sostituito Blair alla guida del partito, faticò a discostarsi dal solco del New Labour. Nel corso della conferenza annuale di Manchester del 2008, Brown provò a tracciare una via d’uscita cercando di riportare il suo partito nell’alveo del laburismo classico, esaltando il concetto di equità e difendendo il Servizio Sanitario Nazionale. Ciò che mancava – e che era un aspetto che aveva caratterizzato il Labour nel “trentennio d’oro” dopo la Seconda guerra mondiale – erano i riferimenti sociali: Brown si rifaceva ad un’indefinita comunità nazionale, dimostrando così che il Labour, dopo aver reciso i legami che lo univano al mondo del lavoro, si richiamava a degli attori indistinti presenti nella società inglese, ai quali veniva «riconosciuto il valore di testimonials»[15].
Un discorso simile può essere fatto per la Spd. Da partner di minoranza della “grande coalizione” con la Cdu-Csu, i socialdemocratici, nel congresso di Berlino del 2008, approvarono delle risoluzioni programmatiche in controtendenza con la stagione della terza via. Per affrontare la «smisuratezza della sfera economica», che aveva «condotto alla crisi», l’interventismo pubblico doveva tornare ad avere un ruolo centrale anche grazie all’introduzione di «nuove regole». Muovendo dal proposito di ampliare le misure dall’evidente influenza neokeynesiana a livello sovranazionale, e dunque nelle istituzioni europee, nel G8 e nel Fondo monetario internazionale, tra i vari provvedimenti proposti spiccava l’ipotesi di «una regolazione internazionale delle agenzie di rating»[16], vero e proprio spauracchio, anche nell’immaginario collettivo, all’origine della crisi del 2007-2008[17]. Ma anche per la Spd vale il medesimo ragionamento già proposto per i laburisti inglesi: malgrado le prese di posizione pubbliche estremamente critiche nei confronti dell’economia globalizzata e dei suoi processi, non vi era alcun progetto finalizzato a modificare in profondità i meccanismi economici globali.
Insomma, nonostante le dichiarazioni programmatiche, in quella fase storica i socialdemocratici – ed ecco i lunghi effetti della terza via – ambivano soltanto a rendere «decente» il capitalismo[18]. A questo primo aspetto si lega così il secondo punto che, a mio avviso, può far progredire la riflessione impostata da Felice e Provenzano. Ciò che ha accomunato la socialdemocrazia nella stagione neoliberista è stata la rinuncia sostanziale alla realizzazione di una società diversa quale obiettivo massimo dell’azione politica quotidiana[19].
Se negli anni Novanta e nei primi anni Duemila le forze progressiste hanno lavorato soprattutto per procrastinare i lunghi effetti del benessere economico, esercizio che prevedeva comunque la tutela dello status quo, negli anni Cinquanta e Sessanta, quindi all’apice della capacità della socialdemocrazia di esprimere una propria visione (secondo la già menzionata tesi di Judt), i programmi della sinistra riformista non rinunciarono affatto a porre finalità di medio e lungo periodo: su tutti, il programma di Bad Godesberg, approvato dalla Spd nel 1959, mirava comunque a creare «un ordinamento economico e sociale» basato «sui valori del socialismo democratico»[20].
Che fare, quindi?
Estremamente condivisibili sul piano complessivo, le argomentazioni di Felice e Provenzano possono fare un ulteriore salto in avanti anche sul piano politico se acquisiscono una visione di lungo periodo volta a disegnare i contorni di una nuova prospettiva sociale: solo così, credo, sarà possibile dismettere i panni della forza politica d’establishment, quando l’establishment è divenuto ormai sinonimo di distanza dalle problematiche della quotidianità.
Il che non significa ragionare soltanto in termini di agenda di governo. Significa proseguire nell’esercizio, certamente complesso, volto ad individuare le giuste formule attraverso cui ridare spazio ad alcuni temi centrali del variegato mondo riformista, ossia la democrazia economica, il diritto del lavoro, la lotta alle disuguaglianze, al fine tutt’altro che secondario di plasmare un’immagine del mondo capace di raffigurare un duplice obiettivo: da un lato, essere alternativa – e competitiva in chiave elettorale – ai populismi; dall’altro, bloccare l’arretramento della situazione sociale.
Si badi bene: non solo programmi di governo, bensì programmi “dai tempi lunghi”, volti a tratteggiare le linee di una società alternativa e di un modello di sviluppo che metta in discussione il capitalismo odierno.
[1] E. Felice, G. Provenzano, Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per tempi nuovi, «il Mulino», n. 6, 2019, pp. 890-891.
[2] Ivi, p. 891.
[3] Ibidem.
[4] M. L. Salvadori, L’occasione socialista nell’era della globalizzazione, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 93-107.
[5] Cfr. J. Fourastié, Les trente glorieuses ou la révolution invisible 1945-1975, Fayard, Parigi, 1979
[6] Cfr. M. Amato, L. Gobbi, Fu vera gloria? Ripensando i Trenta Gloriosi, «Pandora Rivista», 16 marzo 2020.
[7] Cfr. T. Judt, Dopoguerra, Mondadori, Milano, 2007, p. 449.
[8] Cfr. N. Ferguson et al, The Shock of the Global: the 1970s in Perspective, Belknap Press, Cambridge (MA)-London, 2010.
[9] E. Felice, G. Provenzano, op. cit., p. 895.
[10] Ibidem.
[11] Cfr. M. Lazar, La crisi della socialdemocrazia non ha fine, «il Mulino», n. 6, 2015, p. 1045.
[12] Cfr. A. Giddens, The Third Way: the Renewal of Social Democracy, Polity Press, Cambridge, 1998.
[13] Cfr. https://labour.org.uk/manifesto/
[14] Cfr. C. Crouch, Il potere dei giganti: perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Laterza, Roma-Bari, 2014.
[15] G. Berta, Eclisse della socialdemocrazia, il Mulino, Bologna, 2009, p. 91.
[16] Außerordentlichen Bundesparteitag der SPD in Berlin. 18. Oktober 2008.
[17] Cfr., tra i molteplici articoli della stampa quotidiana citabili, O. Bonati, Troppo potere alle agenzie di rating, «La Repubblica», 9 maggio 2010.
[18] Cfr. S. Dullien, H. Herr, C. Kellermann, A Decent Capitalism for a Good Society, in H. Meyer, J. Rutherford (a cura di), The Future of European Social Democracy. Building the Good Society, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2012, pp. 57-73.
[19] Cfr. G. Bernardini, Ideologia e transizione. La socialdemocrazia europea alla prova della «stabilizzazione dissolutiva» del secondo dopoguerra, P. Pombeni, H.-G. Haupt (a cura di), La transizione come problema storiografico. Le fasi critiche dello sviluppo della modernità (1494-1973), il Mulino, Bologna, 2013, pp. 314-315.
[20] Grundsatzprogramm der Sozialdemokratischen Partei Deutschlands, beschlossen auf dem außerordentlichen Parteitag in Bad Godesberg 1959, in D. Dowe, K. Klotzbach (a cura di), Programmatische Dokumente der deutschen Sozialdemokratie, Dietz, Bonn, 2004, p. 327.