“La società del Quinto Stato” di Maurizio Ferrera
- 21 Gennaio 2020

“La società del Quinto Stato” di Maurizio Ferrera

Recensione a: Maurizio Ferrera, La società del Quinto Stato, Editori Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 160, 16 euro (scheda libro)

Scritto da Massimo Aprea

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La scena con cui Maurizio Ferrera, tra i massimi esperti di welfare in Europa, apre il suo ultimo saggio, La società del Quinto Stato, è presa in prestito da una famosa raffigurazione del 1901 di Giuseppe Pellizza da Volpedo: due uomini e una donna con in braccio un bambino che guidano un corteo fatto di persone vestite in modo semplice, alcune scalze, molte impegnate in quelli che sembrano fitti dialoghi fatti di gesti eloquenti, come a descriversi a vicenda una situazione diventata insostenibile. È l’immagine del Quarto Stato che assume consapevolezza di classe, che marcia compatto chiedendo al potere di riconoscere e proteggere i propri bisogni. A partire dalla prima metà dell’Ottocento, infatti, le grandi innovazioni tecnologiche e l’ascesa del capitalismo industriale avevano posto fine alla società dell’Ancien Régime e generato una serie di bisogni sociali del tutto nuovi. La mobilitazione del Quarto Stato ha fatto in modo che la nuova società si costruisse anche intorno a questi bisogni: nacquero i sindacati, i partiti operai e il welfare State, un elemento fondamentale di conciliazione tra le dinamiche a volte spietate del mercato e i principi di giustizia sociale. Per dirla con Polanyi, la Grande Trasformazione si è articolata in due movimenti. Alla disruption, alla rottura degli schemi del passato, si è aggiunto un contro-movimento che ha mitigato gli eccessi del mercato nell’ottica di generare un equilibrio sociale che poggiasse su un ampio consenso.

Ma le tutele del welfare novecentesco sono ancora attuali per le società europee di oggi, così radicalmente trasformate dalla deindustrializzazione, dalla globalizzazione e dalla quarta rivoluzione tecnologica? Esiste una nuova classe – un nuovo stato – di esclusi? Quali devono essere i nuovi obiettivi del sistema di protezione sociale e in che direzione si deve riorientare per soddisfarli? Più in generale, che tipo di società vogliamo costruire per il futuro prossimo?

La società del Quinto Stato è una riflessione su queste domande fondamentali. Mentre i primi tre capitoli si occupano di analizzare i “problemi sul tappeto”, gli ultimi due sono dedicati all’identificazione di una strategia di risposta che sappia da un lato far proprie le migliori proposte che circolano nel dibattito politico e accademico e, dall’altro, proporre una visione di società di grande respiro da realizzarsi nel lungo periodo. Quest’ultima parte del libro è senza dubbio molto interessante e merita una riflessione profonda e intellettualmente libera. «Dietro la resistenza al cambiamento» – avverte infatti l’Autore in un passaggio in cui discute dell’introduzione di un reddito di base universale – «ci sono spesso robuste catene di interessi, ma vi è anche molta inerzia cognitiva e spesso colpevole assenza di critica e provocazione valutativa». Per costruire una società migliore a partire dal magma liquido e pieno di contraddizioni nel quale siamo immersi oggi in Europa, questa apertura di pensiero rappresenta un fattore importantissimo.

Si è accennato al fatto che le società europee di oggi sono molto diverse rispetto a quelle dei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale. È l’effetto di quella che Ferrera, riprendendo Polanyi, chiama la Grande Trasformazione 2.0, un movimento di disruption iniziato alla fine degli anni Settanta del secolo scorso e strutturato su tre diversi livelli, tutti inestricabilmente collegati fra loro. Il primo è la transizione post-industriale (cap. 1), ossia la trasformazione strutturale per cui il peso del settore dei servizi in termini occupazionali è diventato preponderante rispetto a quello dell’industria. Questa dinamica ha contribuito enormemente alla segmentazione del mercato del lavoro: l’ampia fascia di occupazioni a scarsa qualifica che caratterizza il settore dei servizi, infatti, è stata crescentemente coperta con contratti atipici – part-time, a tempo determinato, a progetto – la cui qualità è enormemente inferiore rispetto a quelli standard. La scarsa mobilità fra forme contrattuali nell’arco di vita, inoltre, insieme alla concentrazione del rischio di occupazione atipica in gruppi sociali chiaramente identificabili, ha creato delle vere e proprie trappole di svantaggio.

Il secondo livello è la crescita delle disuguaglianze dovuta alla combinazione di apertura internazionale e crescita dei “giganti” in via di sviluppo (cap. 2). L’esternalizzazione di interi settori produttivi e la competizione con i lavoratori degli altri paesi ha spiazzato una buona parte del vecchio Quarto Stato, che ha visto le sue condizioni di vita peggiorare notevolmente. Contemporaneamente le élite hanno tratto giovamento dalle maggiori opportunità di guadagno nel mercato internazionale e hanno visto la propria ricchezza crescere enormemente.

L’ultimo livello, infine, è costituito dalla quarta rivoluzione tecnologica, quella della digitalizzazione e dell’ubiquità dei dati (cap. 3). Luciano Floridi ha descritto nel suo recente La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo l’avvento dell’infosfera, intesa come lo spazio informazionale generato da tecnologie che comunicano con altre tecnologie, come un radicale punto di rottura nel rapporto dell’uomo con se stesso e con l’ambiente che lo circonda. La rivoluzione del digitale, infatti, ha radicalmente cambiato il modo di produrre, lavorare e consumare creando nuovi rischi e opportunità: si pensi da un lato alla sostituzione dei lavoratori che svolgono mansioni routinarie, all’insicurezza dei lavori della cosiddetta gig economy, alla possibilità di esercitare nuove forme pervasive di controllo sui lavoratori e dall’altro alla possibilità di superare le gabbie orarie del lavoro standard, di bilanciare meglio il tempo di lavoro (produzione) con quello familiare (riproduzione sociale), di poter scegliere la modalità del proprio contributo alla produzione adattandolo ai propri gusti.

Questi processi trasformativi hanno complicato enormemente la struttura sociale dei paesi europei: nel determinare le opportunità di vita degli individui ha perso centralità la contrapposizione di classe tra capitalisti e lavoratori, mentre è aumentata l’importanza di una serie di fattori “situazionali” come l’origine familiare, la connessione economica e sociale del territorio di provenienza, il settore di attività, il tipo di contratto lavorativo. La nuova struttura sociale si compone dunque di cinque strati: in alto un’élite di plutocrati ben inserita nei circuiti finanziari internazionali che ha visto la sua ricchezza crescere notevolmente, in senso sia assoluto che relativo, a prescindere dalla crisi economica; un secondo ceto alto-borghese benestante ma legato prevalentemente a interessi nazionali; nel mezzo una “massa media” formata dai nuovi occupati nei settori della conoscenza e dal vecchio ceto medio industriale, che si sta progressivamente restringendo in seguito alla riorganizzazione nazionale e internazionale del lavoro; infine, in fondo alla distribuzione, il Quinto Stato, l’universo frastagliato dei precari: un nucleo sociale estremamente disomogeneo per quanto riguarda livelli di istruzione, settori di occupazione, fattispecie contrattuali e luoghi di lavoro.

A questa riarticolazione della società ha fatto eco una modifica della struttura dei rischi e dei bisogni che ha reso il welfare novecentesco in parte obsoleto. Mentre i sistemi di protezione sociale continuano a fornire tutele rispetto ad una serie di bisogni essenziali – malattia, disoccupazione, vecchiaia, disabilità, infortuni – non sempre sono in grado di fornire risposte adeguate a quelli nuovi, in alcuni casi addirittura contribuendo ad inasprire delle situazioni di iniquità. Un esempio è quello della formazione. Se, come accade in alcuni paesi fra cui l’Italia, la formazione è garantita quasi unicamente sul posto di lavoro attraverso sgravi per le imprese che la effettuano, ecco che la forbice fra garantiti (occupati) e non garantiti (disoccupati) si amplia. Per questo motivo Ferrera insiste molto sul diritto alla formazione permanente come fattore di parificazione nella competizione posizionale per le occupazioni migliori, che sono strutturalmente scarse. Ma altri settori in cui la protezione sociale ha bisogno di un salto di qualità sono anche quello dell’educazione, dei servizi di conciliazione tra lavoro e tempo libero e dei servizi sociali. Che fare dunque?

È a questo punto che entra in gioco la strategia dell’investimento sociale, una strategia fondata sull’idea che l’azione pubblica debba investire sul capitale umano delle persone in modo tale da renderle “capaci” di perseguire il proprio benessere nel corso della vita. Il paradigma è quello della flexicurity, un modello che accompagna la maggiore flessibilità dei mercati occupazionali e la conseguente insicurezza lavorativa con una rete di protezione sociale che compensi gli effetti economici della disoccupazione e ne minimizzi la durata. La strategia dell’investimento sociale parte dall’assunto che per adattarsi alla nuova costellazione di rischi e bisogni, il sistema di protezione sociale debba affrancarsi dal formalismo della prestazione monetaria uguale per tutti e adattarsi il più possibile alle varie situazioni individuali che generano bisogni. L’apparente ossimoro da inverare è quello dell’universalismo differenziato: si deve abilitare il “funzionamento” di tutti gli individui in vari ambiti, ad esempio quello lavorativo o quello riproduttivo, ma ciò è possibile solo attraverso servizi variabili in base alle singole situazioni: luogo di nascita, ricchezza della famiglia di origine, stato occupazionale, ecc. Per farlo, Ferrera sostiene che una via percorribile si basa sull’incentivazione del settore privato. Al cittadino viene fornito un buono-spesa (voucher) che lo esenti da una parte del costo del servizio, consentendogli di “acquistarlo” da chi ritenga più adeguato. Questo tipo di politica, pur prestando il fianco a molteplici critiche e a rischi di profonde iniquità nella fruizione dei servizi, avrebbe anche delle ricadute occupazionali positive che ne compenserebbero parzialmente il costo. Un’altra proposta discussa nel testo è quella di introdurre un reddito di base universale, individuale e incondizionato nello spirito di Philippe Van Parijs.

Ecco dunque che un quadro d’insieme comincia a delinearsi: mentre la strategia dell’investimento sociale è fondamentale per rispondere ai fattori di rischio situazionali ed è in grado di forzare i limiti del welfare novecentesco, il reddito di base universale si configura come un’assicurazione contro gli eventi avversi che possono capitare nel corso della vita. In tale contesto dovrebbero restare pubblici il sistema educativo, quello sanitario e quello previdenziale. La società che emerge da questo racconto è estremamente fluida e flessibile: il passaggio da un’occupazione all’altra è frequente ma è sostenuto da una rete di sicurezza che fornisce la formazione necessaria al reinserimento e il reddito per mantenere lo standard di vita. È una società in cui il lavoro non è più ancorato a luoghi o a orari fissi e in cui ognuno può scegliere i “pacchetti” di reddito e tempo libero che preferisce. Una società che assegna un valore elevato alla risorsa tempo e che, di conseguenza, remunera anche le attività di riproduzione sociale. Una società mobile, in cui le disuguaglianze ingiuste – ad esempio quelle che derivano dalla provenienza familiare – sono compensate dalla mano pubblica e in cui tutti sono in grado di cogliere le varie opportunità che si presentano sul proprio cammino di vita. Secondo l’Autore, infine, questa società è possibile soltanto se le risposte alla crisi in atto saranno orchestrate a livello europeo: le vie da percorrere in questa direzione sono l’istituzione di una unione sociale europea e di una reale unione politica.

È bene chiarire che questa società oggi non esiste e che ci sono moltissimi ostacoli sulla via della sua realizzazione. Ad esempio, la flessibilizzazione dei mercati occupazionali nel contesto post-industriale potrebbe creare una competizione al ribasso su salari e diritti per accaparrarsi i molti “lavoretti” generati dalla crescente domanda di consumo personalizzato. Senza una radicale trasformazione della struttura produttiva (politica industriale) non c’è formazione professionale che tenga: i lavoratori spiazzati dal progresso tecnologico o dalla competizione internazionale ingrosseranno le fila di questa fascia occupazionale. Ancora, se non si riescono a pareggiare le posizioni ai nastri di partenza la competizione posizionale sarà sempre sbilanciata a favore di chi è più fortunato e produrrà crescenti disuguaglianze. Infine, le rigide regole di bilancio incorporate nei trattati europei non aiutano certo a intraprendere gli investimenti sociali e la spesa corrente necessaria ad adattare il sistema di welfare alle nuove esigenze. E così via. Oltre all’analisi lucida della trasformazione che sta interessando le società europee, il grande merito de La società del Quinto Stato è proprio quello di stimolare il lettore a riflettere e a chiedersi che tipo di società egli si immagina nel futuro, un compito particolarmente importante in questo momento storico.

Scritto da
Massimo Aprea

Ha conseguito nel 2018 la laurea in Economia politica presso l'Università La Sapienza di Roma. I suoi interessi riguardano le disuguaglianze e le politiche in grado di fronteggiarle efficacemente. Attualmente è dottorando in Economia politica presso l'università La Sapienza di Roma.

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