La storia come tragedia: Henry Kissinger e l’individuo di fronte alla storia
- 07 Giugno 2023

La storia come tragedia: Henry Kissinger e l’individuo di fronte alla storia

Scritto da Leonardo Palma

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Henry Alfred Kissinger è stato uno dei principali e più controversi statisti del XX secolo. Il suo ruolo di consigliere per la sicurezza nazionale e poi di segretario di Stato del presidente Richard Nixon e del presidente Gerald Ford ne fece uno dei principali architetti della politica estera degli Stati Uniti tra il 1969 e il 1977. Questo breve periodo trascorso nelle stanze del potere ha prodotto una letteratura così vasta che alcuni studiosi l’hanno ironicamente definita “kissingerologia”. Tuttavia, mentre diversi autori hanno studiato la sua diplomazia e i suoi contributi scientifici (per citarne alcuni: Blumenfeld 1974[1]; Windsor 1975[2]; Weber 1978[3]; Hersh 1983[4]; Isaacson 1992[5]; Dallek 2007[6]; Del Pero 2009[7]; Indyk 2021[8]), pochissimi hanno cercato di concentrarsi sulla sua filosofia della storia (Dickson 1978[9]; Noer 1995[10]; Russell 1996[11]; Hanhimaki 2004[12]; Gewen 2020[13]). Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, il dibattito accademico su Henry Kissinger era sembrato affievolirsi fin quasi a spegnersi. Ad una nuova giovinezza del suo mito avrebbero però contribuito una serie di crisi e di mutamenti del sistema internazionale nella seconda metà degli anni Dieci come l’ascesa della Cina di Xi Jinping, la crisi in Ucraina, le guerre del Medio Oriente all’indomani delle Rivolte arabe e la necessità di trovare una via di uscita dal ventennale impegno militare in Afghanistan.

Due libri su tutti hanno però contribuito a dare nuovo impulso al dibattito tra gli studiosi: Kissinger’s Shadow[14]di Greg Grandin e The Idealist[15], la monumentale biografia di Niall Ferguson, entrambi pubblicati nel 2015. Secondo Grandin l’eredità di Kissinger è stata così potente da influenzare l’ascesa dei neoconservatori e la conduzione della Guerra al terrorismo da parte dell’amministrazione Obama. Lo storico dell’Università di Yale è convinto che Kissinger sia andato oltre il realismo, proponendo una nuova versione dell’eccezionalismo americano, in grado di piegare la realtà al suo volere poiché per lo statista l’intuizione è più importante dei fatti concreti. Ferguson, al contrario, ha sfidato sia la visione tradizionale del “Kissinger-realista” sia quella revisionista di Grandin. Sebbene inizialmente avesse pensato di intitolare il libro The American Machiavelli, lo storico inglese lo avrebbe poi cambiato nell’apparentemente ironico The Idealist. Secondo la tesi di Ferguson, Henry Kissinger, perlomeno nella prima parte della sua vita, sarebbe stato una sorta di idealista kantiano fortemente influenzato dalla sua esperienza personale di ebreo tedesco rifugiato, dall’aver prestato servizio in Europa nella Seconda guerra mondiale e dall’influsso intellettuale esercitato dal suo mentore di Harvard, William Y. Elliott. Quest’ultimo, in opposizione al pragmatismo intellettuale in voga nella Harvard degli anni Cinquanta, proponeva ai suoi allievi un idealismo volgarizzato ma potente. E in effetti i primi exploit accademici di Kissinger furono un attacco frontale al realismo: egli parlò del disastro della Seconda guerra mondiale come del risultato di politiche realiste e degli appeaser come di cinici realisti; si scontrò con Hans J. Morgenthau rigettandone il determinismo economico poiché attraverso di esso «la vita emerge esclusivamente come un problema tecnico». Mentre la Guerra fredda entrava nella sua fase più acuta con lo scoppio della Guerra di Corea, la nascita della Repubblica Popolare Cinese e le insurrezioni comuniste in Grecia e Turchia, Kissinger era preoccupato dalla «moda stridente di tanti (…) apostoli dell’odio, che sono così consumati dalle loro passioni da assomigliare sempre più ai loro nemici». Citando Kant, egli riteneva che «l’intuizione interiore della libertà (…) rifiuterebbe il totalitarismo anche se questo fosse economicamente più efficiente». Di conseguenza, gli Stati Uniti avrebbero dovuto combattere la Guerra fredda esibendo i valori occidentali più con i fatti che non con le parole.

The Idealist fu un successo editoriale e riaprì il dibattito tra gli studiosi. Mario Del Pero, che nel 2006 aveva anticipato l’ipotesi di Grandin circa l’influenza di Kissinger sull’ascesa dei neoconservatori, ha criticato il libro per essere un’agiografia «pleonastica e ridondante». Pur concordando sul fatto che la rappresentazione comune di Kissinger come realista classico sia fondamentalmente sbagliata, egli ha attaccato altresì la tesi di Ferguson sostenendo che un Kissinger kantiano sarebbe altrettanto fuorviante di un Kissinger realista. Secondo Del Pero, Henry Kissinger è stato «la quintessenza dell’intellettuale statunitense della Guerra fredda degli anni Cinquanta»: non particolarmente dotato, originale o audace, incline alla piaggeria nei confronti del potente di turno, oracolare al punto da essere banalizzante. Uno studio attento delle sue carte negli anni in cui ebbe responsabilità di governo metterebbe inoltre in luce una certa pigrizia intellettuale nella comprensione dei problemi internazionali e regionali. Del Pero non è solo e diversi altri studiosi come David Greenberg, autore di Nixon’s Shadow (2004)[16], o Gary Bass, autore dell’acclamato The Blood Telegram (2013)[17], hanno stigmatizzano l’opera di Ferguson per essere eccessivamente favorevole allo statista se non propriamente sbagliata nella ricostruzione della visione kissingeriana del mondo. Al contrario, autori come Isaacson, Schwartz o Zelikow si sono detti entusiasti di questa nuova lettura di Henry Kissinger. Ferguson è uno storico notoriamente brillante e provocatorio ed è quindi possibile che il prossimo volume si intitoli The Realist.

Tuttavia, l’insieme delle opere su Kissinger, ad eccezione del libro di Barry Gewen uscito nel 2020, hanno sempre dedicato scarsa attenzione ad alcuni piani più profondi della visione del mondo dell’ex segretario di Stato per come emerge dalla sua vasta produzione storiografica. Anche Ferguson, ad esempio, liquida in poche pagine la scontro filosofico tra necessità e libertà che Kissinger volle affrontare e discutere nella sua tesi di laurea: The Meaning of History[18]. Sebbene quest’ultima sia chiaramente ascrivibile ad esibizionismo accademico e malcelata ostentazione intellettuale, nondimeno il problema che Kissinger sollevò nel 1950 è rimasto centrale nella sua visione piuttosto drammatica della storia e della diplomazia. Una visione in cui collidono e finiscono per scontrarsi il regno dell’intelletto con il regno del potere, o “ciò che è giusto” contro “ciò che è possibile”. Sarebbe dunque interessante capire non tanto se Kissinger sia stato o meno un bravo diplomatico, quanto piuttosto fino a che punto l’intellettuale e il politico siano stati in conflitto tra loro. Il problema storico-filosofico che fa da sfondo a tutta la sua produzione storiografica, cioè il ruolo dell’individuo di fronte alle forze della storia, rimane infatti ancora oggi un tema poco discusso.

Non c’è Machiavelli in Kissinger, ma non c’è nemmeno spazio per Dio. Per Kissinger, Dio è morto nella neve di Auschwitz. Il futuro segretario di Stato perse la fede in Germania quando era soldato con il controspionaggio dell’84^ divisione di fanteria durante la Seconda guerra mondiale, dopo aver assistito alla liberazione di un campo di concentramento nazista e aver scoperto che molti membri della sua famiglia erano stati uccisi. I suoi genitori, ebrei osservanti, ricevettero in quelle settimane una lettera nella quale egli ammetteva di non poter più credere in Dio e che mentre loro vedevano il mondo in bianco e nero, ormai lui vedeva solo diverse sfumature di grigio. Per Kissinger, la nozione di sinistra di “progresso nel tempo” è sbagliata, ma quella cristiana di “tempo (cioè storia) di salvezza” è altrettanto insostenibile. In The Meaning of History liquidò l’opera di Arnold J. Toynbee riducendo il pensiero dello storico inglese ad un fallimentare tentativo di offrire un metodo empirico a contenuti fondamentalmente teologici. Per Kissinger, al contrario, «la vita è sofferenza. La nascita comporta la morte. La transitorietà è il destino dell’esistenza […] La generazione di Buchenwald e dei campi di lavoro siberiani non [potrà] parlare con lo stesso ottimismo dei suoi padri» (Russell 1996). Un pensiero molto simile a quello sul viaggio del pellegrino verso la pace interiore così come formulato da Dante nel VII canto dell’Inferno. Lo studio della storia evoca in Kissinger il duplice sentimento dell’inevitabilità e del dubbio interiore ed è per questo che nella sua filosofia della storia si trova una concezione tragica della vita che riecheggia Omero, Tucidide, Polibio e la tragedia greca. «La storia è associata alla figura di Nemesi», ha scritto Ferguson, ed è nient’altro che il tentativo ricorrente ma infruttuoso di far emergere l’ordine dal caos. A questo punto, l’individuo, non l’istituzione, diventa fondamentale nella visione di Kissinger della storia: poiché quest’ultima è governata da leggi e schemi, rari individui possono imporre temporaneamente la propria concezione per distillare l’ordine dal caos, nella consapevolezza però di non poter rendere il proprio trionfo auto-sostenibile o duraturo. I più grandi atti di creazione sono infatti destinati a fallire: «Il successo di Klemens von Metternich rese inevitabile il crollo finale dello Stato che aveva combattuto così a lungo per preservare», scrive Kissinger nella sua tesi di dottorato del 1954 sul Congresso di Vienna, e questo perché «un antico impero […] non può essere riformato mentre sta lottando per la sopravvivenza».

Kissinger ritiene che la storia insegni per analogia, non per identità, ma è altrettanto convinto del fatto che le risposte che otteniamo dallo studio della storia non saranno mai migliori della domanda che ci siamo posti. Proprio rispetto al tema dell’analogia, Kissinger identificò un parallelo tra ciò che il Metternich e il Castlereagh cercarono di fare a Vienna nel 1815 e i primi anni della Guerra fredda. I due diplomatici, entrambi eroi tragici ognuno a modo suo, avevano perseguito non il miraggio della pace perpetua ma la ristrutturazione della stabilità internazionale dopo lo sfascio e il sangue delle guerre napoleoniche. Questo obiettivo non si tradusse però, come molti erroneamente credono, nell’espulsione del principio morale dal metodo politico perché un’assenza di principi etici avrebbe indebolito lo scopo del negoziato: «Quando su certi principi non si poté raggiungere un compromesso nemmeno in nome della pace, perlomeno divenne concepibile il raggiungimento di una stabilità basata su un equilibrio delle forze». Nel 1954, Kissinger scriveva di Vienna ma pensava alla Conferenza di Monaco del 1938 e alla Guerra di Corea nel contesto della Guerra fredda. Ciò che accomunava quelle esperienze era l’apparente assenza all’interno del sistema internazionale di una legittima divisione del potere e delle aspirazioni politiche delle potenze. Un ordine internazionale legittimo si basa, secondo Kissinger, su un processo costante di aggiustamento tra più attori che accettano un insieme di regole comuni che definiscono i limiti delle azioni consentite. Tuttavia, l’URSS del 1953 era una potenza rivoluzionaria come la Germania nazista del 1938 o la Francia del 1815. L’unico modo per evitare la catastrofe sarebbe stato quello di trasformare l’Unione Sovietica di Stalin in una potenza conservatrice dello status quo. Che cosa sono queste se non le premesse intellettuali della Distensione degli anni Settanta?

Per Kissinger, la storia informa la diplomazia. Ma che cos’è, dunque, la Storia? Se egli non accetta la concezione giudaico-cristiana della storia dell’alleanza e della salvezza, non riesce ad accettare compiutamente nemmeno l’idea greca di un cosmo razionalmente ordinato. La Storia per Kissinger è un abisso infinito, un processo senza fine, ed è per questo che i razionalisti del XVIII secolo come Metternich fallirono di fronte ad essa. Mentre Edmund Burke volle resistere alle conseguenze della Rivoluzione di Francia in nome delle forze storiche, Metternich lo fece in nome della ragione, dei fatti. Ma la scelta tra opzioni politiche diverse non risiede nei fatti, bensì nella loro interpretazione, dal momento che “scegliere” è un atto essenzialmente morale. Inoltre, se da un lato Kissinger ritiene che lo statista debba sempre confrontarsi con la realtà empirica nel contesto di una visione o della volontà di creare una nuova realtà, dall’altro è convinto che non sia possibile inventare un ordine dal nulla attraverso la razionalità, perché, come ha insegnato Burke, le Nazioni si costruiscono su realtà organiche e culturali. Nella costruzione di un ordine, il conflitto inevitabile riguarda la sostanza dei suoi principi unificanti, poiché tali principi possono essere radicalmente diversi tra l’Occidente e il resto del mondo. «Fin dal Rinascimento l’Occidente è stato profondamente impregnato della nozione che il mondo reale è esterno all’osservatore e che il successo della politica estera dipende dalla valutazione delle realtà e delle tendenze esistenti. La pace di Westfalia riposava su un giudizio sulla realtà», ha scritto nel 2014 in Ordine Mondiale[19].In altre civiltà, come quella cinese o quella islamica, la realtà può essere concepita come interna all’osservatore. Questo passaggio, a parere di chi scrive, mostra che Kissinger potrebbe aver pervertito la nozione kantiana di libertà come esperienza interiore fino a tradurla in una forma pratica di soggettivismo. La legge morale può essere assoluta, ma il fine e il significato, per Kissinger, dipendono in gran parte dal concetto che si ha della propria relazione con l’universo: ne deriva che la struttura metafisica della realtà, dove si può trovare la verità nel senso greco della ἀλήθεια e non in quello cristologico, è essenzialmente relativa. Ferguson sostiene che nella sua tesi di dottorato, A World Restored[20], Kissinger abbia esposto una metodologia storiografica idealista, un’ideologia conservatrice e una filosofia della storia caratterizzata da una sensibilità tragica.

Come nel pensiero di Roger Scruton, anche per Kissinger il conservatorismo è una questione di fatti, non di parole, di prassi e non di speculazione, affondando le sue radici nella paura e nel rigetto istintivo del caos, dell’anarchia e del disordine. «L’ordine senza la libertà, anche se sostenuto da un’esaltazione momentanea, alla fine crea il suo contrario; tuttavia, la libertà non può essere assicurata o sostenuta senza una struttura di ordine che mantenga la pace. Ordine e libertà, talvolta descritti come poli opposti nello spettro dell’esperienza, dovrebbero invece essere intesi come interdipendenti». La libertà, per Kissinger, non è pertanto una qualità definitoria ma un’esperienza interiore della vita come processo di gestione di alternative significative, poiché la libertà appartiene al mondo noumenico delle cose in sé. Ma nel “regno del potere”, che coincide con il mondo fenomenico percepito dalla natura, la scelta che si è chiamati a fare è limitata a diverse forme di male perché «non possiamo mantenere i nostri principi se non sopravviviamo». Qui sta la tragedia del potere e la tragedia della storia. Se il noumeno che produce le apparenze è percepito solo attraverso l’esperienza personale, allora l’uomo è sostanzialmente solo di fronte all’esistenza, come una foglia in un uragano. Kissinger riconosce la presenza di un conflitto tra il regno dell’intelletto e il regno del potere, dove la domanda a cui si deve tentare di rispondere diventa: può l’idealista abitare il mondo reale del potere e conservare i suoi ideali? «Scegliere tra diverse azioni convenienti quella meno malvagia è un giudizio morale». Queste preoccupazioni per le componenti distruttive e costruttive della volontà umana sono le pietre miliari intellettuali della visione tragica di Kissinger della storia e della politica. Nella sua tesi di dottorato egli aveva individuato due figure (non è chiaro se storiche o metafisiche) che rispondono a queste due componenti: il profeta (Alessandro, assimilato al conquistatore Napoleone) e lo statista (Metternich o Castlereagh). Essi si trovano su fronti opposti, «tra l’identificazione di concezione e possibilità e l’insistenza sulla contingenza della volontà individuale; tra lo sforzo di sfuggire al tempo e la necessità di sopravvivere ad esso». Anni dopo, nella storica e discussa intervista di Oriana Fallaci del 1972[21], Kissinger avrebbe definito i negoziati con Le Duc Tho per porre fine alla guerra del Vietnam come «il risultato più difficile e doloroso della mia vita». Ironia della sorte, l’uomo che aveva di fronte era un rivoluzionario marxista-leninista: Kissinger, lo “statista”, fu messo di fronte a Le Duc Tho, “il profeta”.

Secondo John Bew[22], uno studio dei discorsi e delle interviste di Henry Kissinger e di Richard Nixon dimostrerebbero come nessuno dei due avesse mai usato il termine “realismo” o “Realpolitik” per descrivere la propria metodologia o ideologia. Piuttosto, entrambi avrebbero più volte fatto cenno al contrasto tra “essere” e “dover essere” nella politica internazionale, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, e tutto questo senza mai abdicare all’idea di un eccezionalismo americano. In un certo senso, il loro approccio alla politica estera assomigliò più a quello di Theodore Roosevelt che non a quello di Woodrow Wilson. Tanto Nixon quanto Kissinger credevano che l’esperienza e la storia dell’America l’avessero condotta all’ingenua convinzione che la politica di potenza non fosse l’esito inevitabile delle relazioni internazionali ma solo un incidente di percorso. Al contrario, il presidente e il suo segretario di Stato guardarono al mondo come ad un insieme di sfide ambigue, un mondo che poteva essere gestito ma non poteva essere né dominato né respinto, un mondo colorato, come nella lettera ai genitori dalla Germania occupata, da diverse sfumature di grigio. I valori tradizionali, per quanto importanti, non potevano allora essere tradotti in un’agenda di risultati immediati e finali. Dare un giudizio sul Kissinger diplomatico e coinvolto nella politica attiva è un processo arduo e irto di deformazioni prospettiche. Uno dei principali problemi, ad esempio, rimane riuscire a separare le politiche e le idee di Richard Nixon da quelle di Henry Kissinger. Distinguere Kissinger da Nixon è alquanto complicato, poiché il primo agì spesso come un abilitatore delle idee del secondo che era già di suo un esperto di politica estera. L’apertura alla Cina e la diplomazia triangolare, per esempio, furono idee originali di Nixon a cui Kissinger guardò inizialmente con un certo scetticismo ma a cui si adeguò con entusiasmo quando ne intuì le potenzialità.

Kissinger non è un filosofo e neanche un teorico puro delle relazioni internazionali, la sua opera andrebbe studiata come un lavoro storico da cui filtra una filosofia della storia e una teoria della politica internazionale costruite nel tempo e influenzate dall’esperienza di diplomatico. La vita di Henry Kissinger è stata un estenuante tentativo di definire il ruolo dell’individuo di fronte allo strapotere della Storia ma, superato il secolo di vita, lo stesso Kissinger ha dovuto ammettere che il significato della storia, quello che aveva cominciato a cercare nei suoi anni universitari, «è una fatto da scoprire, non da spiegare».


[1] Ralph Blumenfeld, Henry Kissinger. The Private and Public Story, New American Library, New York 1974.

[2] P. Windsor, Henry Kissinger’s Scholarly Contribution, «British Journal of International Studies», 1:1, 1975, pp. 27-37

[3] W. T. Weber, Kissinger as Historian. A Historiographical Approach to Statesmanship, «World Affairs», 141:1, 1978, pp. 40-56.

[4] Seymour M. Hersh, The Price of Power. Kissinger in the Nixon White House, Summit Books, New York 1983.

[5] Walter Isaacson, Kissinger. A Biography, Simon & Schuster, New York 1992 / 2005.

[6] Robert Dallek, Nixon and Kissinger. Partners in Power, HarperCollins, New York 2007.

[7] Mario Del Pero, The Eccentric Realist. Henry Kissinger and the Shaping of American Foreign Policy, Cornell University Press, Ithaca 2009.

[8] Martin Indyk, Master of the Game. Henry Kissinger and the Art of Middle East Diplomacy, Knopf, New York 2021.

[9] Peter W. Dickson, Kissinger and the Meaning of History, Cambridge University Press, New York 1978.

[10] Thomas J. Noer, Henry Kissinger’s Philosophy of History, «Modern Age», Spring 1995, pp. 180-189.

[11] Greg Russell, Kissinger’s Philosophy of History and Kantian Ethics, «Diplomacy and Statecraft», 7:1, 1996, pp. 97-124.

[12] Jussi M. Hanhimaki, The Flawed Architect: Henry Kissinger and American Foreign Policy, Oxford University Press, Oxford 2004.

[13] Barry Gewen, The Inevitability of Tragedy. Henry Kissinger and His World, W.W. Norton & Co, New York 2020.

[14] Greg Grandin, Kissinger’s Shadow. The Long Reach of America’s Most Controversial Statesman, Metropolitan Books, New York 2015.

[15] Niall Ferguson, Kissinger. The Idealist 1923-1968, Penguin House Books, New York 2015.

[16] David Greenberg, Nixon’s Shadow. The History of an Image, W.W. Norton & Co, New York 2004.

[17] Gary J. Bass, The Blood Telegram. Nixon, Kissinger, and the Forgotten Genocide, Alfred A. Knopf, New York 2013.

[18] Henry Kissinger, The Meaning of History. Reflections on Spengler, Toynbee and Kant, undergraduate thesis, Department of Government, Harvard University, Harvard 1950.

[19] Henry Kissinger, World Order. Reflections on the Character of Nations and the Course of History, Penguin Book, Londra 2014.

[20] Henry Kissinger, A World Restored. Metternich, Castlereagh, and the Problems of Peace 1812-1822, Friedland Books, Londra 2017.

[21] Oriana Fallaci, Intervista con la Storia Vol. I, Rizzoli, Milano 1972 / 2010.

[22] John Bew, Realpolitik. A History, Oxford University Press, New York 2015.

Scritto da
Leonardo Palma

È dottorando in storia delle relazioni internazionali all’Università degli Studi di Roma Tre e teaching fellow in storia delle istituzioni politiche alla LUISS School of Government. Ha trascorso soggiorni di studio e ricerca in Inghilterra, al King’s College London e all’Università di Oxford, ed ha lavorato nell’ufficio Ricerca e Analisi di Leonardo Med-Or dove si è occupato di Nord Africa e Medio Oriente.

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