Scritto da Andrea Germani
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Dal 12 marzo all’11 giugno 1968 quattro major candidate del Partito Repubblicano – Richard Nixon (che vincerà la sfida contro Hubert Humphrey), Nelson Rockfeller, Ronald Reagan (che sarà presidente dal 1981 al 1989) e George Romney – si sfidarono alle primarie presidenziali in vista delle elezioni di novembre. Quattro uomini benestanti, di cultura anglosassone e protestante, ampiamente oltre i cinquanta anni in un’epoca in cui l’aspettativa di vita sfiorava i settanta.
Oggi a contendersi la carica per le elezioni del novembre 2024 contro (presumibilmente) il presidente in carica Joe Biden sono tredici rappresentanti repubblicani; ai tre dibattiti organizzati da Fox hanno preso parte i nomi più papabili: Doug Burgum, Chris Christie, Ron DeSantis, Nikki Haley, Mike Pence, Vivek Ramaswamy e Tim Scott. Il quarantenne italo-americano governatore della Florida DeSantis, e l’imprenditore trentenne, figlio di emigrati indiani, Ramaswamy sono le figure che stanno attirando maggiormente l’attenzione. Sembrano essere fra i pochi in grado di contendere la leadership all’ex presidente Donald Trump, forse l’unico attualmente capace di portare alle urne decine di milioni di elettori repubblicani.
La composizione etno-culturale di questa rosa di nomi salta subito all’occhio: oltre ai già menzionati DeSantis e Ramaswamy ci sono Haley, nata Nimarata Nikki Randhawa, donna in un partito ancora fortemente maschile, nata in South Carolina da genitori indiani sikh, in un partito con una base ancora molto bianca e cristiana. Haley è conterranea di Tim Scott: senatore afroamericano in quota repubblicana dal 2013, cresciuto in una famiglia povera da una madre single. Il partito politico che da più di mezzo secolo tiene unito il mondo della destra statunitense sembra adeguarsi al cambiamento sociodemografico del Paese.
Caso curioso per una formazione che negli anni delle battaglie per i diritti civili scelse di schierarsi dalla parte della middle-class del Sud e del Midwest (la Middle America) contro le oligarchie finanziarie, intellettuali e mediatiche delle metropoli. Fra i punti fermi del Grand Old Party sin da allora rientrano la tutela del sistema federale, parte integrante dell’identità americana – con la fede cristiana che fa il paio con la religione civile – e dell’american way of life, fondato su lavoro, famiglia nucleare e proprietà privata, oltre alla possibilità di difendere tutto ciò con le armi; beninteso, anche dal governo. God, Guns and Constitution.
L’America è cambiata e così il GOP. Cambiano le persone, si adegua lo storytelling, ma la linea politica resta la stessa da otto anni, quella trumpista: l’invasione in corso al confine messicano; l’aborto male assoluto; le accuse infamanti ai rivali democratici; il governo federale, nel suo sistema di tassazione e regolamentazione, come nemico del cittadino; la supremazia americana nel mondo; la difesa a oltranza del diritto di detenere armi da fuoco; le politiche pandemiche come inizio di una deriva tirannica; la sacrosanta lotta contro l’ideologia woke; da ultimo, Trump partigiano di una giusta causa, e con lui i “prigionieri politici” dell’assalto al Campidoglio.
L’arrivo sui palchi delle convention repubblicane di Trump nel 2015 ha sconvolto gli analisti conservatori. L’ultimo presidente repubblicano, George Bush jr., viene da una famiglia dell’upper class WASP del Texas con alle spalle due generazioni di imprenditori e politici di alto livello. Ha studiato a Yale, frequentato i country club e, come tanti born again, ha smesso di vivere sregolatamente quando ha scoperto la fede in Cristo. La sua cerchia era formata da politici e tecnici di grande spessore internazionale (Condoleezza Rice, Colin Powell, Donald Rumsfeld, Karl Rove, Dick Cheney, Paul Wolfowitz) nel tentativo di unire i valori cristiani del compassionate conservatism con il neoconservatism, filosofia politica animata da intellettuali ebrei americani (fra cui Richard Strauss, Irving Kristol, Norman Podhoretz, David Brooks, David Frum) che scelsero di combattere la battaglia culturale contro la New Left accademica degli anni Sessanta, e di schierarsi sempre dalla parte di Israele e dell’interventismo in politica estera: peace through strenght.
Trump ha deliberatamente stravolto questa linea tecnocratica rendendo il GOP una formazione populista, paranoica, razzista e con i grotteschi connotati dell’estrema destra cospirazionista. Ma quando comincia la deriva del più importante partito conservatore al mondo? Leggendo American Psychosis. A Historical Navigation of how the Republican Party went Crazy (pubblicato nel 2022 dal giornalista David Corn) pare di capire che il GOP sia sempre stato un partito populista, sin dal grande shift degli anni Sessanta, quando gli eredi dei possidenti terrieri del Sud abbandonarono i democrats per via di Kennedy e, ancor di più, di Johnson e della sua Great Society – diritti civili, welfare, medicare e medicaid, affirmative action, laicizzazione – rifugiandosi nella silent majority protetta da Nixon. Il blu divenne progressivamente il colore della classe operaia dei grandi laghi, degli afroamericani, delle donne, di insegnanti e funzionari pubblici oltre che dell’élite liberal, laica, istruita e cosmopolita; imprenditoria, farm dell’America rurale, classe media dei suburbs in fuga dalle grandi città, liberi professionisti e circoli di golf, tutti a maggioranza bianchi e protestanti, si tingevano di rosso.
A detta di Corn, uscito di scena Eisenhower la battaglia interna al GOP fu vinta dai razzisti paranoici della John Birch Society, i birchers, quando il moderato Rockfeller fu cacciato in malo modo dalla convention di San Francisco del 1964, da cui uscì vittorioso l’autore di Conscience of a Conservative, Barry Goldwater (si veda il capitolo Two Mobs con cui Corn apre il volume), che raccolse l’eredità ferocemente anticomunista di Joseph McCarthy. Goldwater ottenne la nomination alle presidenziali del 1964 grazie a uno slogan che parla da solo: «I would remind you that extremism in defense of liberty is no vice», e che «moderation in the pursuit of justice is no virtue».
La tornata successiva, 1968, fu vinta da Nixon con la promessa di law and order in un’America dilaniata da rivolte razziali, occupazioni studentesche, manifestazioni contro la guerra in Vietnam, scioperi e attacchi terroristici. Intento pur nobile, quello di ricucire la ferita nel cuore d’America, ma che fu eseguito con l’incarcerazione di milioni di afroamericani tramite la war on drugs, con una risoluzione autoritaria delle ribellioni studentesche, con la caccia senza quartiere a nemici politici (si veda il caso Watergate del 1972) e il rinfocolare di teorie cospirazioniste contro intellettuali e non allineati: «Never forget, the press is the enemy. The press is the enemy. The establishment is the enemy. Professors are the enemy. Write that on the blackboard 100 times and never forget it» (discorso del dicembre 1972 riportato nel volume di Corn). Il tutto dopo aver definito lo sfidante George McGovern, invero candidato democratico decisamente schierato a sinistra, a triple-A candidate: «acid, abortion and amnesty».
Non va meglio con Reagan che si appoggiò alla christian right di Jerry Falwell e Pat Robertson, movimento indefinito che dagli anni Settanta attacca omosessuali, femministe e donne che abortiscono. Non solo fondamentalisti religiosi, anche neofascisti di tutto il mondo, alleati informali nella battaglia globale contro il socialismo. «A few months before the [1984] election, Reagan sent a heartful message of support to the five hundred attendees of the seventeenth annual convention of the World Anti-Communist League held at the Sheraton Harbor Island Hotel in San Diego». «He saluted the league […] for “drawing attention to the gallant struggle now being wage by the true freedom fighters of our day”»: un’organizzazione «that had included neo-Nazis, death squad leaders, and antisemitic haters» (citato da Corn).
Niente di nuovo con Bush sr. e la sua pubblica umiliazione dell’avversario democratico Dukakis nel 1988, quando lo definì un presidente che avrebbe liberato i criminali, diffondendo in diretta nazionale l’immagine di Willie Horton, detenuto afroamericano che stuprò una donna dopo aver accoltellato la sua fidanzata durante un permesso premio, parte di un programma sostenuto da Dukakis quando era governatore del Massachusetts. Il figlio, Bush jr., si sarebbe concentrato sulla persecuzione di musulmani e traditori della patria in seguito agli attacchi dell’11/9, causa del Patriot Act del 2002 e della problematica guerra in Iraq degli anni Duemila.
I due giornalisti dell’Economist John Mickletwait e Adrian Wooldridge nel loro The Right Nation (Penguin 2004) ricostruiscono la storia del GOP senza focalizzarsi esclusivamente su eccessi e derive del partito, restituendone un profilo più complesso. Per quanto sembri un organismo monolitico, dominato da furori populisti, il partito oggi è formato da correnti molto diverse fra loro, che spaziano dai classici conservatives (Mitch McConnell, Kevin McCarthy, Ron DeSantis) – formatisi nella scuola di William Buckley jr. e della rivista National Review – dai suddetti neocon, e dai social conservative (Mike Pence, Rick Santorum) – vicini alla destra cristiana e la sua visione moralizzante dell’America – ai libertarians del Tea Party anti-Obama (Ron e Rand Paul) – conservatorismo fiscale e non-interventismo in economia – passando per i centristi moderates (Susan Collins e il defunto Colin Powell) e i rappresentanti non troppo dissimili dai democrats più moderati, i liberals (Phil Scott e l’ex governatore della California Arnold Schwarzenegger).
Fuori dalle anime canoniche le nuove correnti, corrispondenti sostanzialmente agli amici (Josh Hawley, Marjorie Taylor Greene, Ted Cruz) e ai nemici (Mitt Romney, Liz Cheney) dell’ex presidente Trump – come i nevertrumper e i membri del Lincoln Project – con il trumpismo divenuto corrente a sé, cosa già successa in passato con McCarthy, Reagan e Rockfeller. Sicuramente il partito sconta la potenza di fuoco della base trumpiana, ideologizzata e disposta all’azione, anestetizzata dalle bugie di un ex-presidente che riesce a rimanere a galla nonostante inchieste giornalistiche, indagini processuali e una sequela di gaffe, falsità ed errori da principiante. Senza contare la spirale di rabbia, dietrologia e xenofobia che Trump si è portato dietro per quattro anni di presidenza e oltre, degenerata nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, il più grave attacco alla democrazia sul suolo americano da molto tempo.
Mickletwait e Wooldridge fanno luce su un aspetto molto interessante del GOP: la risposta alla storica impenetrabilità di idee e militanti conservatori nei centri di emanazione culturale, tema quello della “egemonia liberal” nell’informazione, nella ricerca e nell’education ancora oggi molto in voga a destra. In occasione delle elezioni del 1996, che videro la riconferma di Bill Clinton, lo sfidante repubblicano Bob Dole chiedeva ai suoi sostenitori di «rise up against the media»; fino agli anni Novanta sembrava che la sinistra avesse vinto la sfida mediatica, con buona parte dell’establishment dell’immaginario (Hollywood), dell’informazione audio e video (CNN, MSNBC, NPR, PBS), dei quotidiani (New York Times, Washington Post, Los Angeles Times, Boston Globe) e dei magazine (Time, Atlantic, New Yorker, Wired, The Nation) schierati su posizioni progressiste, vicine al mondo democrat. Per non parlare di università e fondazioni.
Per quanto quotidiani come Wall Street Journal e New York Post, e magazine come Commentary e Weekly Standard, avessero già conquistato una discreta parte del mercato editoriale, alla destra mancava un organo di diffusione in grado di solleticare la pancia dell’elettorato più ruvido, poco disposto a leggere le sofisticate elucubrazioni degli op-ed. Dove non arrivò Internet riuscirono le radio private e, soprattutto, il gotha dell’informazione rumorosa della destra populista: Fox News. Al volgere del millennio il forgotten man andando al lavoro poteva ascoltare Rush Limbaugh – che raggiungeva 20 milioni di ascoltatori su 660 stazioni a metà anni Novanta – Glenn Beck e Sean Hannity, tutti assoldati da Roger Ailes, patron di Fox – televisione da lui creata nel 1996 con gli asset del media mogul Rupert Murdoch. Seguirono negli anni Ann Coulter, Dinesh D’Souza, Tucker Carlson, Larry Elder, Ben Shapiro, Candace Owens e altri host dei vari Breitbart, DailyWire e InfoWars. Contestualmente all’ingrandimento del media army il baricentro si spostò sempre più a destra, le notizie divennero sempre meno verificate e le teorie divulgate pericolose quanto folli. In merito si veda la carriera di Alex Jones.
La battaglia culturale fu combattuta anche su un piano squisitamente più intellettuale dagli “anti-college” della destra americana: i think tank. Dagli anni Sessanta in poi ne furono fondati numerosi, fra cui spiccano Heritage Foundation (1973) Cato Institute (1977) Mises Institute (1982) Heartland Institute (1984) Ayn Rand Institute (1985) e il complesso delle fondazioni della famiglia Koch. Oltre ai nuovi istituti, i più vecchi American Enterprise Institute e Hoover Institution ottennero una rinnovata attenzione, oltre a cospicui finanziamenti, durante il governo Reagan. Questi enti assoldarono ricercatori conservatori che faticavano a trovare posto nelle università per organizzare conferenze, lecture, seminari e produrre riviste e libri, perlopiù su argomenti di economia o politica internazionale. Molti di questi lavorano tuttora a ricerche sul libero mercato e sulle politiche fiscali, ma anche a temi di cultura e identità americana, oppure ad analisi geopolitiche che interessano molto da vicino gli Stati Uniti e i loro alleati. Oggi l’alleanza non dichiarata fra think tank, personalità e media organization di destra – quando non nelle sintesi dei tre, come la Prager University Foundation – produce un’impressione quantità di materiale di informazione; nelle varianti più estremiste, come il social network Parler e il già menzionato InfoWars, è più opportuno parlare di disinformazione o, come nel caso di Babylon Bee, di notizie false coscientemente divulgate a scopo satirico.
La causa di questa creazione ex-novo di centri di cultura equivalenti a quelli classici sorse con le rotture dei sixties. Afroamericani, donne, comunità LGBTQ+, operai, immigrati latinos e asiatici, tossicodipendenti, hippy, animalisti, pacifisti; pressoché chiunque, ad eccezione della middle e upper class bianca, richiedeva maggiori diritti e maggiore redistribuzione del benessere. Una cerchia di studiosi ebrei cresciuti perlopiù a New York, figli di emigrati dall’ex Impero Russo, vide minata la propria ascesa nel mondo intellettuale dall’avanzata delle teorie radicali che avrebbe svantaggiato chi, come loro, era riuscito ad uscire dalla povertà senza ribellioni o interventi del governo. «For [Nathan] Glazer and the neoconservatives, the American university stood for all that they valued about American society: beyond being a forum for free inquiry, it was a meritocratic melting pot where smart people, even working-class Jews, could thrive. An attack on the university was an attack on them» (Andrew Hartman, A War for the Soul of America, University of Chicago Press 2015).
Quella cerchia di studiosi provenienti dal mondo liberal, come molti universitari metropolitani, si rifiutava di aderire ai diktat della New Left, perché dalla libertà e dal sistema meritocratico proprio del sogno americano stava ricavando i vantaggi negati ai genitori. Quando capirono che a sinistra tutto ciò veniva messo in discussione scelsero di schierarsi a destra; da quella crepa all’interno dei nuclei di produzione dell’egemonia culturale, le università, si formarono le culture wars che hanno portato oggi, nel 2023, il governatore della Florida a emanare il discusso Stop-Woke Act.
Fra i tanti temi discussi, quello delle culture wars sta cominciando a dominare il dibattito americano, avendo il vantaggio di toccare trasversalmente tutti i temi divisivi delle società occidentali: la sessualità, la razza, il genere, la morale pubblica, la storia e l’identità di un popolo, l’istruzione dei bambini e i limiti di comunicazione e azione individuale. L’America è fortemente divisa su questi temi e molti hanno visto in Trump il bastione di difesa della visione tradizionalista sulle questioni culturali. Il suo arrivo avvenne dopo otto anni di presidenza Obama – con tutto il corredo di fobie scatenate da un presidente raramente impeccabile, ma percepito dai suoi più fanatici avversari come l’Anticristo – e con i college in subbuglio, i cui studenti più radicali si adoperano per impedire a certe persone di parlare o tenere lezione. Per di più, l’America diventa sempre meno bianca e eterosessuale, e sempre più secolare; tutte fonti di tensione a destra.
Tutto ciò ha fatto pensare a molti che economia, tasse, security e politica estera avrebbero rappresentato solamente una parte dei dibattiti politici degli anni a venire. La storia ha dimostrato che i dibattiti su temi culturali oggi sono fra i preferiti di politici e media pundit, banalmente perché permettono a chiunque di avere un’opinione e gli garantiscono di sentirsi parte di una più ampia comunità che fa e disfa alleanze a seconda del tema. Si veda il common ground che hanno trovato cristiani e musulmani sulle questioni di genere nelle scuole, o la curiosa alleanza fra vip di Hollywood e minoranze contro l’esercito di Trump nel 2016. James Davison Hunter nel suo pionieristico Culture Wars. The Struggle to Define America (BasicBooks, 1991) indicava cinque field of conflict: famiglia, istruzione, media e arti, legge, elettorato. Oggi dovremmo aggiungere sessualità, genere e razza, temi sicuramente più scottanti dei cinque delineati da Hunter trent’anni fa.
Forse, piuttosto che leggere nell’intera storia postbellica del GOP (o perlomeno post-Eisenhower) una terrificante storia di rabbia e populismo, come ha fatto Corn, è opportuno vedere nella radicalizzazione del Partito Repubblicano la spia di una sempre più crescente attenzione a temi conflittuali che ammettono chine scivolose, in un’epoca in cui è sempre più difficile gestire i media verificandone l’attendibilità delle notizie. Trump non va letto come niente più che un Goldwater postmoderno, bensì l’effetto di una lenta e lunga degenerazione della qualità del dibattito, in ottemperanza alla psicosi collettiva sui temi che animano le culture wars.
L’America è oggi fortemente polarizzata – anche se già nel 2004 Mickletwait e Wooldridge scrivevano «America is more polarized than it has been for decades» – e Trump e il trumpismo sono un prodotto co-costruito dall’intera America. Pur riconoscendo le maggiori responsabilità all’estrema destra che da decenni spinge perché il GOP diventi esattamente così com’è ora, è opportuno evidenziare che a pagarne le conseguenze sono, anche, quei milioni di elettori conservatori, laici e moderati, distanti anni luce dal trumpismo e da QAnon, che credono nel sogno americano e auspicano che tutti possano viverlo. Anche tutti quei nuovi elettori repubblicani – afroamericani, latinos, asiatici, LGBTQ+ e sempre più donne e operai – che vogliono vivere l’american dream e vedono negli woke, veri e presunti che siano, una minaccia. Alla stregua della minaccia che quei giovani intellettuali ebrei vedevano nella sinistra dei campus.