Scritto da Andrea Germani
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«Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della RSI ordiva fucilazioni e spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come il capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e perciò costituzionale. A Milano….una bomba…aiuto»
Brescia, Piazza della Loggia, 28 maggio 1974, ore 10.12: il segretario generale dei metalmeccanici della CISL Franco Castrezzati è costretto a interrompere il discorso tenuto in occasione della mobilitazione indetta dal “Comitato unitario permanente antifascista”, in sincronia con lo sciopero di quattro ore proclamato dai sindacati CGIL-CISL-UIL. La manifestazione voleva essere una risposta decisa da parte della comunità bresciana agli attentati «di chiara marca fascista e le continue provocazioni che tentano di capovolgere le istituzioni democratiche del Paese»; saranno le stesse bombe denunciate dagli organizzatori e dalla cittadinanza a colpire durante il discorso di Castrezzati lasciando a terra nella Piazza otto cadaveri e decine di feriti, lavoratori, pensionati, studenti e bambini.
Piazza della Loggia si inserisce nel contesto della lunga stagione stragista, periodo della storia d’Italia caratterizzato da azioni eversive volte a minare l’ordine democratico dalle fondamenta e a preparare gli strati più ampi della popolazione e delle istituzioni ad una svolta autoritaria sul modello greco. Nella neonata Repubblica Italiana una scia di attentati dinamitardi insanguinò il Paese lungo tutto l’arco degli anni Settanta; gli storici concordano sul porre gli attentati di Piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969) e della Stazione di Bologna (2 agosto 1980) come estremi del periodo in cui fu operante la “strategia della tensione”, così come definita dalla stampa britannica. La strage di Brescia può altresì essere letta come l’ultima operazione stragista messa in atto nel periodo che va dal 1969 al 1974, quinquennio segnato da una miriade di azioni violente effettuate da gruppuscoli di estrema destra, spesso affiliati a “elementi deviati” dei servizi segreti e dell’esercito italiani e dell’Arma dei Carabinieri. Nel periodo in questione non mancarono i tentativi di golpe perpetrati da reduci della Repubblica Sociale Italiana – primo fra tutti il “Golpe Borghese” del 1970 – o solamente paventati – come il “Golpe Bianco”, scoperto nel 1974. L’obbiettivo delle violenze “insensate” che scossero la penisola era di provocare un diffuso senso di insicurezza, un clima di terrore che spingesse la popolazione ad auspicare il ritorno di “personalità forti”, uomini in grado di sedare le istanze distruttrici che stavano mietendo vittime innocenti. Il capro espiatorio scelto furono i movimenti dei lavoratori e degli studenti, vicini a posizioni di estrema sinistra, che dall’ultimo triennio degli anni Sessanta propagandavano una rivoluzione sul modello di quelle socialiste, rivoluzioni finalizzate a liberare la popolazione dalla schiavitù del lavoro salariato, dalle illusioni del libero mercato, dal conformismo voluto dalla Democrazia Cristiana e dalla repressione poliziesca. La gioventù italiana affrontava quotidianamente lotte all’interno delle Università per porre fine al confinamento dei saperi all’interno delle roccaforti accademiche, governate da una gerontocrazia elitaria e reazionaria. Gli eccessi provocati dalle occupazioni, dagli scioperi e dai violenti scontri con le forze dell’ordine – spesso fomentati dagli stessi agenti deputati a gestire l’ordine pubblico – fecero sprofondare l’Italia in una divisione dicotomica che contrappose nettamente i sostenitori dei movimenti di destra da quelli di sinistra. Il malcontento diffuso fra i membri della classe dirigente e dalla loro rete clientelare, così come tra i grandi imprenditori e tra la componente marcatamente cattolica e liberale, fu cavalcato dagli uomini dello Stato fortemente preoccupati dall’inarrestabile ascesa di consensi del Partito Comunista Italiano e della galassia delle associazioni della sinistra extra-parlamentare. La strage di Piazza Fontana fu subito attribuita agli anarchici, in particolar modo ai membri dei circoli “Ponte della Ghisolfa” di Milano e “22 marzo” di Roma; il primo è tristemente noto alle cronache per l’omicidio-suicidio – circostanza ancora non chiarita, volutamente – del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, il secondo per la presenza al suo interno di Mario Merlino, neo-fascista noto alle forze dell’ordine, infiltratosi nel gruppo grazie agli insegnamenti impartitigli dall’intellighenzia greca durante l’addestramento effettuato in terra ellenica negli anni del regime dei colonnelli (1967-1974). Per anni l’opinione pubblica italiana sostenne la colpevolezza degli anarchici, associando lo stragismo e la distruzione di una banca, simbolo internazionale del capitalismo, agli omicidi politici di cui si macchiarono gli anarchici; criminali deviati, come voleva Cesare Lombroso, capaci di uccidere un Re, come insegnò il loro compagno Gaetano Bresci.
Una concatenazione di eventi mutò gli umori nazionali sino a far terminare la prima fase della suddetta strategia con l’eccidio di Brescia: la presa di coscienza di ampie fasce del pubblico, anche grazie alle indagini dei magistrati che indicarono nella destra reazionaria mandanti ed esecutori, e all’agonia del regime franchista in Spagna, destinato a cadere nel giro di un anno, assieme al crollo delle dittature militari in Grecia e Portogallo. Le manovre degli uomini dello Stato e dei giovani neo-fascisti, da sempre avvolte in una nube di mistero e di inquietudine, sono da inquadrare all’interno di una più ampia operazione di “contenimento dell’avanzata comunista”; non a caso le zone più “calde” del conflitto furono il Veneto, culla di movimenti neo-fascisti e neo-nazisti, e il Friuli-Venezia-Giulia, dove furono scoperti veri e propri arsenali di armi nascosti sotto metri di terra, armi che avrebbero dovuto usare dei soldati addestrati a operazioni di contro-guerriglia nel caso in cui le truppe comuniste fossero penetrate dalla vicina Slovenia. Le operazioni anti-comuniste, perpetrate lungo tutto il secondo dopoguerra sino allo scioglimento dell’Unione Sovietica, hanno lunga storia in tutto il mondo “conteso” dai due blocchi russo e americano, particolarmente nella zona mediterranea e nel Centro e Sud-America, regioni martoriate da regimi militari fortemente repressivi. È nota la partecipazione dei servizi di intelligence americani in azioni di spionaggio, depistaggio, disinformazione e mistificazione, se non di ideazione e messa in atto di attentati, omicidi e colpi di Stato, nelle aree sopra menzionate. Il sospetto che un’inaspettata coalizione di militari e agenti dei servizi italiani e americani fece uso della manovalanza neo-fascista per raggiungere il fine preposto, la demonizzazione del comunismo, è legittimo se si considerano le indagini effettuate dai magistrati italiani e la lunga serie di depistaggi, imputabili agli stessi servizi, che li allontanò dalla verità in più occasioni.
La destra eversiva italiana nacque dalle ceneri della Repubblica Sociale. Una parte degli ambienti nostalgici scelse la via istituzionale aderendo al Movimento Sociale Italiano, fondato da Giorgio Almirante nel 1946, o alle sue ramificazioni giovanili o sindacali. Una parte minoritaria aderì ai vari gruppi formatisi a Milano, Roma e Padova; gruppi lontani, per ragioni di ordine ideologico, dal parlamentarismo dell’MSI quanto dalla forma di governo democratica rappresentativa. La parte più oscura dell’estrema destra si rifà ad associazioni quali Avanguardia Nazionale, fondata da Stefano Delle Chiaie nel 1960, e il Centro Studi Ordine Nuovo, fondato da Pino Rauti nel 1956, i cui esponenti principali confluirono nel Movimento Politico Ordine Nuovo, disciolto nel 1973 con decreto dell’allora Ministro dell’interno Paolo Emilio Taviani. I giovani neo-fascisti che gravitavano attorno all’area della destra extra-parlamentare si distinguevano dai nostalgici e dai repubblichini per le loro idee e per il loro modo di fare attivismo politico; legati a personaggi misteriosi, talvolta guide spirituali o ideologi di riferimento come fu Julius Evola, sognavano un’Europa forte, formata da tutti i popoli di presunta discendenza ariana, un’Europa dei guerrieri in grado di sconfiggere un fantomatico ordine economico mondiale guidato dagli ebrei e sostenuto dalle masse di simpatie anarchiche e socialiste, dai progressisti e dalla borghesia “plutocratica” di mussoliniana memoria. Essi disprezzavano la democrazia e il ruolo che aveva avuto nell’emancipare gli strati più umili della popolazione, le donne, i poveri, i disabili e gli omosessuali, credevano in un’aristocrazia fondata sulla virtù militare, sull’onore e sulla gesta belliche, aristocrazia antitetica alla antica nobiltà feudale di fede cristiana incatenata ai gangli del potere costituito. In un tripudio di esaltazione del sangue e della violenza, di odio e disprezzo per gli slavi, gli ebrei, i cattolici e i neri – esseri inferiori da sottomettere e soggiogare – esaltavano l’apartheid sudafricano e rhodesiano, simbolo della superiorità morale e biologica dei bianchi nord-europei, e dedicavano grande attenzione allo spiritualismo russo e alle arti marziali giapponesi. La generazione degli eversivi si rifaceva ai samurai nipponici, agli “eroi bianchi” dell’Africa meridionale, degli Stati Confederati d’America e dell’Oceania coloniale, agli antisemiti rumeni e ungheresi, ai militanti del Ku Klux Klan così come agli asceti e ai ministri del culto pagano della Scandinavia, prima che la regione venisse contaminata dal cristianesimo. Nello Stato ideale gli “uomini di serie B” – come amava sostenere Rauti – sarebbero stati i primi a perire, l’ordine avrebbe regnato sovrano grazie a un efficiente apparato militare autoritario e repressivo e a una rigida gerarchia, sul modello di quella militare. La strategia eversiva puntava tutto sull’utilizzo di forme di lotte violente, quali l’omicidio politico e la strage di innocenti, azioni che avrebbero dovuto mettere in ginocchio i più deboli spaventandoli e creando un clima di terrore atto a legittimare la presa di potere della nuova “aristocrazia guerriera”; la passione per le armi d’assalto si univa a quella per gli esplosivi, materiale propedeutico per la successiva rivoluzione anti-borghese e anti-comunista. Le bombe dovevano spianare il terreno ai promulgatori del nuovo ordine e dovevano fomentare le masse, stolte e incapaci di comprendere la portata di certe azioni, contro le istituzioni dello Stato borghese e contro le avanguardie comuniste che, a detta di molti esponenti della destra, stavano preparando una rivoluzione che avrebbe fatto entrare l’Italia nel Patto di Varsavia.
La strage di Brescia è solamente l’atto conclusivo di una serie di atti violenti e tentate stragi, tutte riconducibili alle frange neo-naziste lombarde e venete. Già da tempo i membri più in vista della destra eversiva bresciana – fra questi Silvio Ferrari, Nando Ferrari e Arturo Gussago, uniti da un forte legame con i milanesi Pierluigi Pagliai e Marco De Amici – erano noti alle forze dell’ordine e ai gruppi organizzati della sinistra parlamentare e extra-parlamentare; i violenti scontri fra giovani di destra e di sinistra, la diffusione di giornali – tra i più noti La Fenice e Anno Zero – e le numerose iniziative dei giovani neo-fascisti animavano la cittadina lombarda dalla fine degli anni Sessanta. Nel 1974 incominciarono a piovere bombe su tutta la provincia bresciana. Nella notte tra il 15 e il 16 febbraio una bomba devasta l’ingresso e parte dei locali del supermercato Coop di Viale Venezia, gestito da una cooperativa vicina al PCI. A rivendicare l’attentato saranno le Squadre d’Azione Mussolini (SAM), già note per operazioni anti-partigiane durante gli anni della Repubblica Sociale. Neanche una settimana dopo, il 22 febbraio, a Offlaga (BS) viene ritrovato un pacco contenente una bomba all’interno di un pullman di linea e il 27 febbraio, questa volta a Lumezzane, vengono lanciate due bombe incendiare contro la sede del sindacato dei metalmeccanici. Le SAM rivendicheranno quest’ultimo attentato. La serie di tentati massacri e azioni sospette che agitano la città di Brescia fanno rabbrividire: l’8 marzo vengono trovate alcune bombe a mano nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, il giorno successivo i due neo-fascisti Kim Borromeo e Giorgio Spedini vengono fermati da una pattuglia dei carabinieri nei pressi di Sonico (BS) mentre trasportavano nella loro auto decine di chili di tritolo, il 14 dello stesso mese alcuni ignoti lanciano un ordigno contro la sede della CISL di Leno (BS) e dodici giorni dopo simili bombe vengono abbandonate di fronte al monumento di Giuseppe Cesare Abba. L’8 aprile la Coop di Viale Venezia subisce un nuovo attentato, questa volta una scarica di mitra ha infranto la vetrina, successivamente, la sede della federazione socialista rischierà di venire distrutta dal lancio di una bomba a mano la notte del 22 aprile. Le operazioni più violente avranno luogo tutte nel mese di maggio: l’8 maggio una carneficina viene evitata da un fattorino che nota una borsa sospetta di fronte alla sede della sede bresciana della CISL, la borsa conteneva otto candelotti di dinamite e trecento grammi di tritolo, materiale sufficiente a uccidere decine di persone. Il giorno dopo salterà in aria, in circostanze misteriose, una macelleria del centro. Nella notte fra il 18 e il 19 maggio una morte accidentale desterà nuovi terribili sospetti; Silvio Ferrari, ambiguo personaggio noto negli ambienti dell’alta borghesia bresciana di simpatie destroidi, salterà in aria assieme al motorino del fratello. L’esplosione fu causata dall’esplosione di una bomba contenuta in un pacco che lui stesso stava portando, tenendolo stretto fra i piedi. Assieme al corpo dello studente la polizia troverà una pistola, delle pallottole e copie della rivista Anno Zero, simbolo della destra eversiva bresciana, distribuito da Ferrari negli anni del sodalizio con una delle più inquietanti figure del neo-nazismo padovano: Franco Freda. Editore e fondatore della casa editrice AR, nonché proprietario della libreria padovana Ezzelino – luogo di ritrovo degli eversivi veneti e lombardi – Freda è stato da sempre ritenuto uno dei responsabili dell’attentato di Piazza Fontana, crimine per cui verrà indagato e processato assieme all’amico Giovanni Ventura sino all’assoluzione definitiva nel 1987 (Freda e Ventura verranno riconosciuti colpevoli dalla Corte di Cassazione nel 2005, la sentenza non si commuterà in condanna data l’assoluzione con formula definitiva diciotto anni prima). La morte di Ferrari resta avvolta nel mistero, secondo le teoria più accreditate Ferrari morì per un errore di programmazione del timer della bomba che portava; è legittimo credere che Ferrari stesse preparando un massacro, atto che riusciranno a portare a termine alcuni suoi camerati solamente otto giorni dopo.
Le indagini si sono protratte per più di quarant’anni senza dare risultati soddisfacenti. Gli errori macroscopici – tuttora non si è stabilito se fossero intenzionali data la gravità di certi comportamenti sconsiderati tenuti dalle forze dell’ordine – nel rilevamento di importanti informazioni sono commessi sin da subito. Senza tenere in considerazione la cattiva gestione degli spazi e dell’ordine pubblico durante la manifestazione, si possono annoverare altri episodi che lasciano dei forti dubbi sulla bontà delle intenzioni degli investigatori e della questura. Non appena esplosa la bomba le persone, terrorizzate e scosse da quanto accaduto, vengono caricate dalla celere, primi rappresentanti istituzionali a recarsi sul posto; a ciò seguiranno interrogatori e perquisizioni a carico di attivisti di sinistra e degli stessi feriti che si riveleranno una perdita di tempo. Come se non bastasse, il vicequestore ordina ai vigili del fuoco di ripulire la piazza con un getto d’acqua, perdendo così i pochi indizi disponibili rimasti sul luogo della strage. Due giorni dopo la strage, a Piano di Rascino, presso Rieti, una pattuglia dei carabinieri viene avvisata della presenza di un insolito accampamento, avvicinandosi scorge all’interno delle tende delle figure a cui ordina di mostrare i documenti. Ne nasce una sparatoria in cui perderà la vita il neo-fascista Giancarlo Esposti, sopravvivono allo scontro altri due giovani di destra: Alessandro Danieletti e Alessandro D’Intino. Ciò che trovano all’interno delle tende spaventa gli stessi militari, si trattava di armi e di una grande quantità di esplosivo, quantità decisamente superiore a quella usata nei precedenti attentati di Milano e Brescia. D’Intino e Danieletti vengono subito interrogati da agenti dei servizi segreti – di uno di essi non è ancora stata scoperta l’identità – che li sottopongo a torture psicologiche e fisiche, il sospetto è che si voglia far ricadere sui tre la colpa dell’attentato di Brescia assieme ad altri fantomatici attentati mai progettati e mai eseguiti, di cui uno al Presidente della Repubblica. Questi sono solo alcuni degli aspetti più misteriosi della vicenda: la scomparsa e l’omicidio di importanti personaggi disposti a collaborare – primo fra tutti il malavitoso e ammiratore del nazionalsocialismo Ermanno Buzzi, ucciso in carcere nel 1981 da due camerati già noti per le loro frequentazioni con gli eversivi, Pierluigi Concutelli e Mario Tuti – unita alla scomparsa di importanti reperti prelevati dai corpi delle vittime dell’attentato lascia pensare a palesi tentativi di depistaggio operati da membri delle istituzioni. A seguito delle informazioni fornite da Luigi Papa, padre di due ragazzi arrestati per furto di opere d’arte, al generale dei carabinieri Francesco Delfino – successivamente condannato per truffa aggravata e indagato per presunti legami con gruppi neo-fascisti nel contesto delle indagini sulla strage di Brescia da lui dirette – si aprirà il primo processo che vede coinvolti i neo-fascisti bresciani e il “gruppo Buzzi”. Sono coinvolti nelle prime due istruttorie Ermanno Buzzi, Angelino Papa, Nando Ferrari, Cesare Ferri, Alessandro Stepanoff, Marco De Amici e Pierluigi Pagliai assieme ad altri malavitosi vicini a Buzzi e ad alcuni neo-fascisti lombardi. Tutti gli imputati verranno assolti in via definitiva fra il 1987 e il 1989 ad eccezione di De Amici, condannato per detenzione di esplosivo. Nel 2008 vengono rinviati a giudizio Pino Rauti – inquisito per responsabilità morale e politica della strage ma non per aver commesso il fatto – Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi e Maurizio Tramonte; le indagini sono basate sulle dichiarazioni di Carlo Digilio e dello stesso Maurizio Tramonte. Maifredi morirà nel 2009, i cinque imputati rimasti in vita sono assolti nel 2010, assoluzione confermata dalla Corte d’Assise d’Appello di Brescia nel 2012 che pur indica la responsabilità degli ormai defunti Carlo Digilio, Ermanno Buzzi e Marcello Soffiati. Pochi mesi dopo anche Rauti morirà. Nel 2014 la Corte di Cassazione conferma le assoluzioni di Zorzi, divenuto nel frattempo un imprenditore di successo in Giappone, e Delfino, che morirà pochi mesi dopo, ma non quelle di Maggi e di Tramonte. Viene così istruito un nuovo appello contro i due. Il processo in corso è tutto incentrato sulla presunta presenza di Tramonte in Piazza della Loggia il giorno della strage, presenza testimoniata dalla perizia effettuata da Luigi Capasso, docente di antropologia, su una fotografia dell’epoca. Maggi, ormai ottantenne e con forti problemi di deambulazione, è stato giudicato idoneo a sostenere il processo; il processo è in corso e con grande probabilità i veri mandanti e gli effettivi esecutori sono morti o lontani dalle aule del tribunale. Dopo quarantuno anni, la strage non ha ancora colpevoli.
Bibliografia
Mimmo Franzinelli, La sottile linea nera, Milano, Rizzoli, 2008.
Giancarlo Feliziani, Lo schiocco: storie dalla strage di Brescia, Arezzo, Limina, 2006.
Francesco Barilli, Matteo Fenoglio, Piazza della Loggia, volume 1 – Non è di maggio, Padova, BeccoGiallo, 2012.
Francesco Barilli, Matteo Fenoglio, Piazza della Loggia, volume 2 – In nome del popolo italiano, Padova, BeccoGiallo, 2014.