Recensione a: Enzo Traverso, La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona, Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 192, 19 euro (scheda libro)
Scritto da Alessandro Venieri
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«Allo storico non è dato varcare il limite invalicabile della coscienza degli uomini, che pur fanno la storia»[1]
Salvatore Calderone
In un ottimo saggio edito da il Mulino riguardante il rapporto tra l’imperatore Costantino e la fede cristiana, lo storico Salvatore Calderone delineava in maniera chiara quale fosse il confine non oltrepassabile dallo storico di professione: la coscienza degli uomini rimane una scatola nera di cui analizzare solo gli epifenomeni, le manifestazioni fattuali percepibili e di cui è rimasta traccia. Calderone ribadiva la propria adesione a un modello di indagine storica che aveva avuto seguito prevalente per tutto il XIX e XX secolo, con un’attenzione ai fatti e ai processi che vedeva lo storico impegnato in una duplice operazione. Da una parte una sospensione del giudizio riguardo le pieghe più intime della personalità dei personaggi storici, dall’altra un tentativo di limitare l’intervento della coscienza dello storico stesso, con le proprie preferenze e giudizi soggettivi.
Enzo Traverso, storico contemporaneista e autore di un gran numero di volumi aventi come oggetto i grandi stravolgimenti del Novecento – rivoluzioni, conflitti mondiali, genocidi e in particolar modo la Shoah[2] –, riflette nel suo ultimo saggio La tirannide dell’io, edito da Laterza, sull’abbandono di una storiografia definibile come oggettivista per una invece esplicitamente – e a volte programmaticamente – soggettivista. L’io, con la propria invadenza stilistica e metodologica, arriverebbe a esercitare una vera e propria “tirannide” sul modo in cui la storiografia viene prodotta al giorno d’oggi, in contrasto con un periodo precedente, in cui l’io come oggetto e soggetto di ricerca veniva al contrario messo tra parentesi, in una prassi deontologica che aveva preso piede nel corso della stagione positivistica ma che era rimasta viva anche dopo l’abbandono dei capisaldi di quella per tutto il XX secolo, quando altre correnti metodologiche divennero maggioritarie.
L’io impone la propria tirannide, secondo Traverso, attraverso due meccanismi principali. Da un lato, gli storici sempre più orientano le proprie opere rendendo esplicite le proprie scelte metodologiche, stilistiche e contenutistiche in base a criteri autobiografici. Essi rinunciano a porre un filtro tra i propri vissuti e la materia trattata, con il rischio ulteriore di lasciare che i giudizi derivanti da esperienze personali giochino un ruolo rilevante all’interno della ricerca. Il “contesto della giustificazione” e il “contesto della scoperta”, che pure sempre interagiscono, si vanno a sovrapporre in maniera esplicita, a scapito del giudizio imparziale che pure dovrebbe guidare l’analisi.
La seconda via attraverso cui l’io sta sempre di più colonizzando il discorso storico passa per l’attenzione e il rilievo forniti all’indagine biografica di determinati personaggi.
Tale attenzione è diversa da quella che veniva dedicata ai grandi personaggi storici, un filone storiografico che ha una lunga tradizione, radicata nella letteratura e storiografia post-alessandrina e che ad esempio trovò in Plutarco uno dei propri massimi esponenti. La storiografia biografica trapassò poi in epoca medievale nella copiosa produzione sulle storie dei santi e sui grandi uomini del passato, un filone che trovò fortuna nelle principali corti europee, come supporto alla nutrita produzione di specula principis, che ebbe rinnovato vigore a partire dal Quattrocento proprio in Italia. Traverso è ben attento qui a distinguere diversi approcci allo studio storico-biografico. Legittima è infatti l’indagine storica – microstorica, secondo la definizione adottata da uno studioso spesso citato nel testo, ovvero Carlo Ginzburg – che pone come proprio oggetto di studio le vite dei singoli per risalire dal particolare al generale[3]. Le vicende individuali, in questo caso, sono indagate negli aspetti che contribuiscono a chiarire, colmare lacune e offrire controprove rispetto a teorie generali, e dove dunque il dato biografico non è fine a se stesso.
Nonostante nell’opera l’autore dichiari una posizione neutrale riguardo questo spostamento di paradigma, il titolo dell’opera e svariati rilievi nel corso della stessa delineano una forte critica nei confronti dell’irruzione dell’io all’interno della ricerca e scrittura storiche. Uno dei maggiori pregi dell’opera di Traverso è offrire al lettore una adeguata introduzione, con una panoramica sui dibattiti correnti relativi alla metodologia storiografica. Il lettore viene equipaggiato, al contempo, con un abbondante corredo di esempi e riferimenti bibliografici, che vanno a comporre un’esauriente casistica, offrendo ampio supporto alla tesi dell’autore per cui la tendenza soggettivistica sia ormai quantitativamente, oltre che qualitativamente, rilevante. L’autore procede in maniera inizialmente ordinata, mettendo in evidenza come uno stile storiografico oggettivo, ovvero scritto in terza persona e privo dunque di accenni biografici come anche autobiografici, sia stata una prassi non controversa per gran parte del XX secolo. A tal proposito vengono citate figure illustri del passato che si sono espresse sul rapporto tra soggetto e analisi storiografica.
Per Siegfried Kracauer, ad esempio, l’arte dello storico «resta anonima, perché si manifesta innanzitutto nella capacità dello storico di autoannullarsi e autoesprimersi e nella rilevanza delle sue indagini diagnostiche»[4]. Al contempo François Simiand ricordava – riecheggiando il famoso adagio tedesco “einmal ist keinmal”, molto amato da Walter Benjamin – che ciò che è unico «manca di una causa e non è spiegabile scientificamente»[5]. Ovvero, la singola vicenda individuale, atomizzata, non può rientrare sic et simpliciter all’interno dello sguardo dello storico, il quale per trattare la propria materia scientificamente deve tenersi lontano dal fascino dell’aneddotica. Più complessa era poi la posizione di Fernand Braudel, per il quale la storia si configura come un processo «anonimamente umano», dove lo storico non deve osservare le singole vite ma l’insieme dei rapporti economici, sociali, demografici, culturali, che vanno a formare la struttura dello sviluppo storico[6]. Ancor più netta – e in un certo senso definitiva nelle proprie implicazioni – è la posizione di Louis Althusser, il quale arrivò a qualificare la storia come un «processo senza soggetto» nel proprio scritto La querelle de l’humanisme (1967)[7]. Tutte queste posizioni fanno da contorno a una storiografia novecentesca che rincorre l’ideale dell’oggettività, andando talvolta a esasperare un’astratta aspirazione di scientificità che verrà in seguito parzialmente sconfessata anche in quelle scienze dure che ne avevano costituito l’ispirazione.
Traverso individua un primo momento di rottura con queste tendenze in corrispondenza dei grandi eventi cataclismatici del Novecento, eventi che spesso hanno occupato gran parte della sua stessa produzione storiografica: i conflitti mondiali, i genocidi, i totalitarismi, le persecuzioni di stampo ideologico e infine la Shoah, che per la propria natura complessa, al crocevia di molteplici avvenimenti cruciali del XX secolo, assurge a termine di paragone per le altre tragedie novecentesche. Sia per il proprio contenuto di violenza e devastazione, che per l’esorbitante numero di “vittime” prodotte, i grandi eventi del Novecento predispongono il terreno per una stagione in cui la storiografia e la letteratura partecipano della stessa esigenza di testimoniare ciò che è stato. Soprattutto con la Shoah, sia le vittime che i carnefici vengono calati al centro della scena, in una sorta di rivalsa nei confronti di quei processi storici che avevano avuto come obiettivo la completa disumanizzazione – peraltro con i carnefici disumanizzantesi assieme alle proprie vittime –, e la produzione finale di un uomo “oggetto”[8]. Letteratura e storia tentano di restituire volti e vicende biografiche, sentimenti e sofferenza, nell’estrema sfida di riconciliare lo iato prodottosi tra la nozione di umanità e le vicende umane concrete. Ma quel tipo di storiografia ancora si poneva il tema della distinzione tra piano personale e piano professionale, una distinzione che venne meno, a detta dell’autore, tra anni Settanta e Ottanta, al tramonto della Guerra fredda e della scuola strutturalista. Come primo sintomo del cambiamento in atto, Traverso indica la pubblicazione nel 1979 di un articolo di Lawrence Stone sul “ritorno al racconto”[9], ma soprattutto l’opera collettanea del 1987 Essais d’ego-histoire, curata da Pierre Nora[10]. Ma mentre l’ego-storia si presentava soprattutto come un’occasione per riflettere sulla “gestione” del transfert cui sempre si sottopone lo storico, in particolare quando si tratta di eventi più prossimi all’attualità, la deriva narrativo-biografica si è spinta oltre e ha condotto alla pubblicazione di un sempre maggior numero di opere storiografiche soggettiviste (Traverso ne cita innumerevoli, tra cui l’opera di Pierre Birnbaum e quella di Mona Ozouf).
Interessante – e rilevante dal punto di vista di chi scrive – è l’attenzione dedicata da Traverso in due capitoli del libro – Modelli: la storia tra cinema e letteratura, e Storia e fiction – a una tendenza parallela che vede protagoniste la narrativa e le arti più in generale. Storici e romanzieri «sembrano ormai seguire procedimenti simili» (p. 108), non solo a causa di un revival del romanzo storico, che pure ha preso sempre più piede nel nostro come in altri Paesi – Traverso cita giustamente il caso editoriale M, di Antonio Scurati, ma si potrebbe anche menzionare I leoni di Sicilia di Stefania Auci –, ma anche per un genere di realismo nella nostra letteratura che assume spesso i tratti del biografismo o dell’autobiografismo. D’altro canto, i romanzi storici sempre più vengono analizzati e commentati da storici di professione attraverso quegli strumenti che sono propri della critica storica, in uno sconfinamento di professione che tradisce una crescente confusione metodologica e stilistica.
Meno cogente – e forse anche in parte priva di quella profondità di sguardo analitico presente nei capitoli precedenti – è la sezione finale, quella dedicata all’eziologia del fenomeno in oggetto. In maniera non del tutto lineare con quanto esposto nei capitoli precedenti, si rintraccia la causa ultima del soggettivismo storiografico nell’irruzione sulla scena del neoliberalismo: «le scritture soggettiviste della storia non difendono nessuna ideologia, ma possiedono una matrice sociale che forma e indirizza uno sguardo. Il mondo neoliberale è diventato il contesto in cui viviamo e il nostro osservatorio» (p. 160). Inoltre, la storiografia biografista soffre, secondo l’autore, della patologia del “presentismo” – il quale si caratterizza per «l’assenza di futuro. Il passato non annuncia più l’avvenire; non contiene più alcuna promessa di redenzione; passato e futuro restano incapsulati in un eterno presente» (p. 152) – e risulta incapace di ragionare secondo la categoria dei soggetti collettivi, in linea con alcuni tratti distintivi del fenomeno neoliberista.
Dal punto di vista di chi scrive, la posizione dell’autore andrebbe probabilmente arricchita con una prospettiva socioculturale, attenta a fenomeni che spesso precedono logicamente e anche cronologicamente gli sviluppi propriamente “neoliberisti” citati nel saggio. Questi sviluppi sicuramente giocano un ruolo fondamentale nella spiegazione del soggettivismo storiografico, ma si collocano in un quadro generale più complesso e ambiguo, di cui andrebbe dato conto soprattutto per agevolare una comprensione più approfondita da parte dei lettori meno specialistici. Una deriva “egocentrata” a livello sociologico è parte di un processo di più lunga durata, che certo ha visto una accelerazione in anni recenti a causa della sempre maggiore influenza che hanno i mezzi di comunicazione e informazione di massa nelle vite delle persone. Vanni Codeluppi ha coniato in proposito il rilevante termine di “vetrinizzazione sociale”, ovvero l’esigenza di sovraesporre sé stessi per avere un riscontro sociale, adottando tecniche di spettacolarizzazione proprie dei prodotti di consumo[11]. Parafrasando Thorstein Veblen, si tratta di un “consumo vistoso del sé”, possibile solamente in un contesto sociale – quello dei consumi e della comunicazione di massa – in cui lo sguardo del prossimo si fa onnipresente, pervasivo e ossessivo e in cui i rapporti sociali tendono ad appiattirsi sul versante immaginifico e simbolico.
Al contempo, focalizzando l’attenzione a livello nazionale, è indubbio che la strutturale debolezza dell’industria culturale italiana, approfonditasi negli ultimi decenni, abbia portato come conseguenza ad un realismo asfittico nella produzione letteraria, che spesso si appoggia a materiale biografico o autobiografico (a titolo d’esempio, negli ultimi 10 anni almeno 5 libri vincitori del Premio Strega avevano per oggetto vicende biografiche o autobiografiche). Il successo di questo realismo biografico ha avuto certamente un forte impatto sugli storici: la difficoltà del comparto storiografico propriamente detto ha fatto sì che opere biografiche venissero prodotte in gran numero, in particolare per motivazioni di mercato. Biografie e autobiografie aiutano ad attirare il grande pubblico per via della propria linearità, per la facile possibilità di identificazione con i protagonisti dell’opera e infine per l’opportunità di gettare uno sguardo spesso morboso nelle vite degli altri, specie su dettagli biografici che poca attinenza hanno con i processi storici propriamente detti. Ma questa curiosità voyeuristica non può non scontrarsi con la deontologia dello storico: come denunciato da Traverso, lo storico deve fare della conoscenza e pratica dei propri limiti una cifra del proprio impegno scientifico. Alla curiosità del lettore, che vorrebbe una trama lineare e completa, con personaggi descritti a tutto tondo, occorre opporre la congenita limitatezza dell’analisi storica, che può offrire una ricostruzione basata su fonti, fatti e tesi, ma mai spingersi fino a romanzamenti miranti a colmare le lacune, nella convinzione che «la tentazione letteraria dello storico è un’ammissione di debolezza» (p. 139). L’obiettivo della scienza storica rimane dunque, per Enzo Traverso, la ricerca della verità, nella convinzione che un’accurata ricostruzione di avvenimenti, processi e fenomeni storici possa condurre ad una visione più verisimile e completa possibile del corso degli eventi, in un ritorno pieno allo spirito dell’opera tucididea, volta a «scrutare e penetrare la verità delle vicende passate»[12].
[1] Salvatore Calderone, Costantino e il cattolicesimo, il Mulino, Bologna 2001, p. 90.
[2] Da citare, in particolare: Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Bruno Mondadori, Milano 2002; La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002 / 2010; A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007 / 2008.
[3] Carlo Ginzburg, La lettera uccide, Adelphi, Milano 2021. Si rimanda inoltre ad una puntata del Videopodcast di Pandora Rivista in cui, a partire da La lettera uccide, Ginzburg ripercorre temi e percorsi della sua ricerca storica e della sua riflessione sul metodo storiografico.
[4] Siegfried Kracauer, Prima delle cose ultime, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 63.
[5] François Simiand, Méthode historique et science sociale, in «Revue de synthèse historique», n. 6, 1903, pp. 1-22.
[6] Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1986 / 2010, p. 1337.
[7] Louis Althusser: «Aliénation, Sujet, Homme: trois concepts, trois “obstacles epistemologiques”. Trois concepts dont il faudra se débarrasser pour laisser la voie ouverte au seul concept positif prisonnier de ce dispositif impressionnant, le concept de procès (qui, délivré du sujet et de l’Homme, deviendra alors procès sans sujet)».
[8] Al riguardo, da considerare in particolare l’opera – peraltro di impianto biografico – di Gitta Sereny: In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1975 / 1994.
[9] Lawrence Stone, The Revival of Narrative. Reflections on a New Old History, in «Past and Present», n. 85, Nov. 1979, pp. 3-24.
[10] Pierre Nora (a cura di), Essais d’ego-histoire, Gallimard, Parigi 1987.
[11] Vanni Codeluppi, Vetrinizzazione. Individui e società in scena, Bollati Boringhieri, Torino 2021.
[12] Tucidide, La guerra del Peloponneso, (a cura di Ezio Savino), Garzanti, Milano 2003, I, 22.