Scritto da Franco Mazzei
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Franco Mazzei è stato uno dei più importanti orientalisti italiani. Esperto di relazioni internazionali, ha insegnato all’Università “L’Orientale” di Napoli e alla LUISS “Guido Carli” di Roma. È stato consigliere presso l’Ambasciata d’Italia a Tokyo e collaboratore del Ministero degli Esteri. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: Relazioni internazionali (2016), Asia al centro (con Vittorio Volpi, 2014) e La rivincita della mano visibile. Il modello economico asiatico e l’Occidente (con Vittorio Volpi, 2010) tutti editi da Egea. In L’insospettabile convergenza. Perché Europa e Cina si stanno avvicinando più di quanto non sembri, ultimo saggio pubblicato dopo la sua recente scomparsa, Franco Mazzei affronta la storia e il modello geoculturale cinese in un confronto che prova a superare stereotipi e pregiudizi occidentali sul “Paese del Centro”, fornendo un’analisi preziosa per inquadrare anche le attuali tensioni tra Stati Uniti e Cina che pervadono il quadro geopolitico internazionale. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore, un estratto del testo.
L’ordine mondiale cinese fu soppiantato verso la metà del XIX secolo dal sistema vestfaliano, creato in Europa con la pace di Vestfalia del 1648 per por fine alle interminabili guerre di religione tra cattolici e protestanti e alle rivalità tra Parigi e Vienna. Questo sistema, fondato sull’esclusività degli Stati come attori geopolitici, considerati sovrani e indipendenti, e su un numero esiguo di potenze alla costante ricerca di un equilibrio di potere, era costituito solo da Stati-nazione europei. Esso fu poi imposto a tutto il mondo dall’Europa che nel frattempo era diventata il centro politico ed economico del pianeta.
Le potenze imperialistiche europee riuscirono a dominare il pianeta, creando un sistema-mondo, grazie al successo di tre grandi rivoluzioni. In primo luogo, la rivoluzione marittima, che con la scoperta del Nuovo Mondo favorì la transizione del potere dal Mediterraneo all’Atlantico, provocando la decadenza politica e commerciale delle grandi città italiane e contemporaneamente l’ascesa delle potenze europee che si affacciano sull’Atlantico. Alla rivoluzione marittima seguì quella scientifica o galileiana, grazie all’applicazione della matematica alle scienze applicate e alla combinazione di teoria e sperimentazione, con conseguente nascita della scienza moderna. Infine, fu la volta della Rivoluzione industriale con la diffusione a livello mondiale del capitalismo.
Con la fine dell’ordine mondiale cinese e l’imposizione del modello vestfaliano da parte delle potenze imperialistiche europee attraverso una politica estera particolarmente aggressiva, la Cina entrò nel secolo dell’umiliazione, della vergogna nazionale. Questo terribile periodo ebbe inizio, come sappiamo, con le famigerate Guerre dell’oppio, imposte dall’Inghilterra verso la metà del XIX secolo, e ha avuto termine con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese da parte di Mao Zedong il primo ottobre del 1949 in piazza Tien’anmen. Tanti furono i soprusi e le umiliazioni inflitte in quel periodo dalle potenze occidentali e segnatamente dal Giappone, da sempre considerato dai cinesi un Paese tributario dell’Impero del Centro. Ricordiamo in particolare l’orrendo “stupro di Nanchino” e altri brutali crimini di guerra perpetrati dall’esercito giapponese tra il 1937 e il 1938 (le cui ferite sono ancora aperte), che hanno segnato profondamente la memoria collettiva del popolo cinese divenendo un elemento essenziale del vivace dibattito identitario della Cina di oggi.
La transizione del potere è una delle principali costanti geopolitiche a livello mondiale. Nell’antichità il potere si spostò da Cartagine, potenza marittima, a Roma, potenza terrestre; a partire dal Cinquecento dal Mediterraneo all’Atlantico; successivamente, alla pax britannica subentrò la pax americana con la transizione del potere da Londra a Washington. Oggi la supremazia mondiale sembra muoversi da Occidente a Oriente, dall’Atlantico al Pacifico, da Washington a Pechino. A causa di questa nuova transizione del potere, il quadro geopolitico è profondamente cambiato. Noi occidentali abbiamo perduto il monopolio della potenza e della ricchezza e, anche se continuiamo a essere ricchi e potenti, non siamo più in grado di dominare il mondo.
Oggi il mondo, che è nello stesso tempo unito e frammentato, naviga senza bussola, essendo privo di una qualche governance che l’Europa invece aveva nell’Ottocento, esplicitata nel “concerto europeo”, e nel periodo della Guerra fredda, con il cosiddetto “condominio delle due superpotenze”, Stati Uniti e Unione Sovietica, portatrici di due grandi ideologie opposte ma entrambe figlie del pensiero politico europeo. Quel che vorremmo rilevare è che la mancanza di una cultura egemone, da una parte, e la crescente interdipendenza e connessione a livello mondiale, dall’altra (accelerata dallo straordinario sviluppo tecnologico), impongono a tutti gli attori geopolitici la necessità di conoscere gli altri. A questo riguardo, è utile sottolineare ancora una volta che la maggioranza dei fallimenti nel commercio internazionale e delle disastrose decisioni diplomatiche è causata da errori culturali, a loro volta conseguenza di preconcetti e bias cognitivi e, più in generale, della scarsa conoscenza che si ha dell’altro.
Purtroppo, la necessità che oggi gli attori geopolitici hanno di conoscersi reciprocamente, al fine di evitare i suddetti errori, comporta un problema nuovo per noi occidentali, che per secoli abbiamo esercitato l’egemonia culturale: l’attuale contingenza ci richiede di imparare a conoscere gli altri, di starli a sentire, ovviamente senza rinunciare alla nostra identità. Questo non è un problema del tutto nuovo per noi europei, giacché una situazione del genere si ebbe nei primi secoli del Basso Medioevo, il periodo della storia d’Europa e del Mediterraneo compreso tra l’anno 1000 circa e la scoperta dell’America, quando numerosi furono i prestiti culturali ottenuti dagli arabi. Un esempio che mostra in modo esemplare il divario che allora esisteva tra l’Europa (era il periodo della Res Publica Christiana) e il mondo arabo, è la strana e faticosa introduzione in Europa della nozione di “zero”, dall’arabo sifr, a sua volta derivato dal sanscrito sunya che significa “vuoto” in senso metafisico, vale a dire assenza di materia e nello stesso tempo origine di tutti i fenomeni. Il matematico pisano Leonardo Fibonacci (vissuto all’incirca tra il 1170 e il 1242), grazie ai contatti che egli aveva con matematici islamici (persiani e arabi), nel suo Liber abbaci pubblicato nel 1202, oltre a introdurre il sistema di numerazione posizionale arabo (in realtà indiano), tradusse il termine sifr con la parola latina zephirum, in veneziano “zevero”, “zefro” da cui l’italiano zero. In realtà, c’era già stato un precedente tentativo di introdurre in Italia la nozione di sifr, ma era miseramente fallito: in quell’occasione gli studiosi europei non riuscirono a comprendere il significato del termine arabo sifr, che tradussero in italiano con il termine generico di “cifra”. Va aggiunto che nemmeno il grande Fibonacci era del tutto informato degli ultimi sviluppi della matematica indiana. Ciò su cui dobbiamo meditare seriamente è che l’uso del nuovo calcolo, un’invenzione oggettivamente straordinaria che ha facilitato la nascita della scienza moderna, all’inizio fu ostacolato in Europa. Perché mai? Perché importato da un popolo “infedele”.
Oggi la situazione è più grave: dopo secoli di egemonia culturale, noi occidentali comprensibilmente facciamo fatica ad accettare la nuova realtà e in particolare a rinunciare ai tradizionali atteggiamenti di superiorità. A ciò si aggiunga che mentre i cinesi, gli indiani e gli africani ci conoscono molto bene, avendo subito a lungo la nostra violenza politica e la nostra prepotenza culturale, noi sappiamo ben poco di loro e per di più attraverso luoghi comuni e preconcetti, con gravi conseguenze geopolitiche. È motivo di profonda tristezza costatare che, a causa in primo luogo del loro etnocentrismo (che è duro a morire per tutti), i brillanti grandi intellettuali occidentali contemporanei conoscano della Cina – pur fatte le opportune proporzioni – poco, troppo poco rispetto per esempio a Voltaire, ai libertini, ai fisiocratici, a Rousseau, che peraltro era un accanito sinofobo, a Marx, che era un altro sinofobo e definiva la Cina del suo tempo «una mummia attentamente preservata in una tomba ermeticamente sigillata», rispetto allo stesso Adam Smith, che nel suo libro La ricchezza delle nazioni con cognizione di causa spiegava che la Cina già allora era «il più grande mercato del mondo».
In realtà, proprio come oggi anche nel Settecento gli intellettuali europei (specie francesi) erano preda della sindrome binaria (tertium non datur), per cui erano divisi tra sinofili, che proponevano la Cina come modello per la nuova Europa, e sinofobi, che vedevano negativamente la Cina, soprattutto per il suo regime politico dispotico. Tra i sinofili ricordiamo in primo luogo Voltaire, che considerava l’Impero del Centro “il Paese più saggio e civilizzato del mondo intero”, dove molto importanti erano la giustizia e la moralità e in cui il rispetto per il bene pubblico era il primo dei doveri. Di sfuggita ricordiamo che egli apprezzava anche il dispotismo illuminato russo, e riteneva che la Russia avesse un ruolo importante da svolgere nell’affermazione della ragione in Europa. In particolare, egli vedeva nello zar Pietro il Grande un despota illuminato, avendo questi trasformato la Russia in uno dei Paesi più avanzati dell’Europa, nonostante l’opposizione vigorosa delle forze conservatrici fra cui la Chiesa ortodossa e i boiardi. Ma anche su questo, i philosophes erano in profondo disaccordo.
Per secondo ricordiamo François Quesnay, padre della fisiocrazia e autore del saggio Despotisme de la Chine, in cui si sosteneva che il sistema politico cinese era l’incarnazione del “dispotismo illuminato” e rappresentava il modello che la Francia doveva seguire per far fronte alla difficile situazione politico-finanziaria di quel periodo. Qualche studioso sostiene che sarebbe stato proprio Quesnay, conosciuto a quel tempo come “il Confucio europeo”, a suggerire a Adam Smith l’espressione francese laissez faire, che era usata dai fisiocratici del XVIII secolo nella loro campagna per ottenere l’abolizione di ogni vincolo statale all’attività economica. Successivamente, questa espressione, connessa con la metafora della “mano invisibile” di Smith, è stata utilizzata come motto del liberismo economico. Tradizionalmente la sua creazione è attribuita al mercante Legendre in risposta a Colbert, e usata dai fisiocratici del XVIII secolo nella loro campagna contro il tradizionale centralismo regolamentatore di Colbert. Secondo questo nuovo filone di ricerca l’espressione sarebbe stata modellata sulla nozione-chiave del taoismo wu-wei 無爲, letteralmente “non agire”, che implica appunto un atteggiamento di abbandono alla natura: in concreto, lo Stato minimo taoista contrapposto allo Stato sociale interventista dei confuciani. Il wu-wei taoista sarebbe diventato nel pensiero di Smith «la mano invisibile […] e qualcuno, semiseriamente, s’è chiesto se anche il capitalismo non sia stato inventato dai Cinesi[1].
Tra i sinofobi, oltre a Jean-Jacques Rousseau[2], ricordiamo Montesquieu per il quale “dispotismo e Oriente” costituiscono una coppia semantico-ideologica, anche se alla sua acuta analisi non sfuggì la specificità del dispotismo cinese, data dalla rilevanza che in esso assume l’etica comunitarista. Da tener presente che anche allora era valido il già citato mantra del neo-gramsciano Robert Cox: la teoria è sempre di parte. In effetti, sia Montesquieu e Rousseau sia Voltaire e Quesnay prendevano ed enfatizzavano della Cina solo ciò che serviva per avvalorare le rispettive tesi. È quel che si fa continuamente ancora oggi, non riuscendo a superare la trappola binaria (che pur tanti benefici ha apportato all’umanità intera): “Cina sì/Cina no”. Il problema – ribadendo quanto già scritto nell’Introduzione – non è la discussione sugli aspetti negativi o positivi della Cina: come già diceva Tucidide, «la confutazione delle opinioni altrui è […] il fondamento della vita pubblica», della democrazia diremmo oggi. Il problema è la qualità veramente scadente del dibattito contemporaneo, se comparato con quello di trecento anni fa tra i philosophes. Comunque sia, forse non avremmo avuto l’Illuminismo come lo conosciamo senza la scoperta che gli intellettuali europei fecero, grazie alle relazioni inviate dalla Cina e alle traduzioni di testi confuciani da parte di missionari gesuiti (anch’essi, eziandio, in qualche modo partigiani), circa l’esistenza di un’altra civiltà sviluppata ed efficiente al di fuori del mondo biblico e del Mediterraneo. Insomma, la scoperta sconvolgente e nel contempo esaltante che la civiltà avesse un plurale.
[1] Sull’influenza della Cina sul pensiero europeo in quel periodo esiste orami una vasta letteratura (si veda Franco Mazzei e Vittorio Volpi, La rivincita della mano visibile. Il modello economico asiatico e l’Occidente, Milano, Università Bocconi Editore, 2010). L’economista italiano Amedeo Di Maio ha ripreso la questione relativa all’origine dell’espressione laissez-faire in La finanza pubblica nel mondo delle idee. Tra mano invisibile e Leviatano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014: «Per noi economisti prevale il convincimento sulla storia di Vincent de Gournay, intendente di Luigi XV che si faceva accompagnare dall’economista Turgot nel viaggio per la Francia per raccogliere informazioni e proposte su norme relative al commercio. Racconta Turgot che alla domanda di Gournay “Que faut-il faire pour vous aider?”, gli fu risposto dal commerciante Legendre, “Nous laissez faire”. Franco Mazzei […] è più affezionato all’ipotesi che il termine discenda dalla tradizione taoista cinese diffuso in Europa tramite il caposcuola dei fisiocratici Quesnay».
[2] Memorabile la spietata querelle a tutto campo tra Rousseau e Voltaire, due filosofi “nemici”, che la memoria postuma ha riconciliato: già onorati dalla Rivoluzione come padri della nuova Francia, oggi riposano uno accanto all’altro nella cripta del Pantheon.