“La Turchia di Erdoğan” di Valentina Rita Scotti
- 08 Giugno 2023

“La Turchia di Erdoğan” di Valentina Rita Scotti

Recensione a: Valentina Rita Scotti, La Turchia di Erdoğan, il Mulino, Bologna 2022, pp. 168, 14 euro (scheda libro)

Scritto da Vanni Rosini

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La riconferma di Recep Tayyip Erdoğan alla presidenza della Turchia per un terzo mandato, in seguito al primo ballottaggio della storia del Paese e dopo la riconfigurazione in senso presidenzialista sancita dal referendum dell’aprile 2017, invita a riflettere sull’inossidabilità e la profonda resistenza mostrate, da venti anni a questa parte, dalle strutture di potere costruite dal “Reis” turco. Il volume di Valentina Rita Scotti – docente di Diritto pubblico comparato alla European Law and Governance School di Atene, già docente presso la Law School dell’Università Koç di Istanbul – fornisce un’approfondita analisi critica mirante a fornire «una lettura del ventennio di governo di Erdoğan scevra da riferimenti a troppo abusati stereotipi» (p. 7), individuandone linee di continuità e di rottura in relazione al più ampio contesto della centenaria storia della Repubblica di Turchia.

Per fare ciò, l’autrice articola la trattazione in quattro capitoli che tracciano un’organica genesi cronologica della Turchia di Erdoğan, prendendo le mosse dal periodo ottomano, affrontato nel primo capitolo, dal quale vengono mutuate concezioni politiche ancora operanti in seno alla politica turca contemporanea. Rilevante, ai fini dell’analisi storica che l’autrice si propone di tracciare, è il lascito ottomano di una peculiare visione endogena dello Stato, come «entità separata dalla società e dagli individui, le cui libertà possono essere coartate per la preservazione dello stesso» (p. 15). Tale approccio ha inaugurato un’attitudine tendente a considerare la democrazia come elemento subserviente alla tutela dello Stato, configurando, in tal senso, il perenne primato di una “statocrazia organicistica”[1].

È davanti a questo radicato sfondo concettuale che si muove l’azione politica di Erdoğan e del suo partito. Il giovane politico di Kasımpaşa, povero quartiere operaio stambuliota, nato in una famiglia originaria di Rize, sul Mar Nero, cresce politicamente all’ombra della figura di Necmettin Erbakan, primo capo di governo islamista nella storia della Turchia tra il 1996 e il 1997, nell’ambito di quella rete di rapporti politici e sociali gravitante attorno alla confraternita sufi Naqshbandiyya di İskenderpaşa – fucina che ha plasmato alcune delle figure principali nel panorama politico turco a partire dagli anni Settanta[2]. Fin da subito, Erdoğan scala i vertici delle formazioni partitiche nelle quali milita, ricoprendo il ruolo di presidente della sede di Beyoğlu del Partito del Benessere (Refah Partisi) e venendo eletto a sindaco di Istanbul nel 1994. La sua rifulgente parabola politica subisce una pesante battuta d’arresto nel 1998, con la condanna per attentato al secolarismo, il bando dall’attività politica e la permanenza in carcere per quattro mesi.

Lo scioglimento, da parte della Corte costituzionale, del Partito del Benessere e del suo successore, il Partito della Virtù (Fazilet Partisi), funge da catalizzatore della svolta epocale operata da Erdoğan in seno al sistema politico turco. La fondazione del Partito di Giustizia e Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP) nel 2001 si ispira ad un inedito approccio rispetto all’utilizzo politico della religione che avvicina maggiormente il nuovo attore politico «ai conservatori di matrice europea che non ai precedenti partiti turchi di ispirazione religiosa» (p. 28). Erdoğan rinnega il “padre”, Erbakan, smarcandosi dall’etichetta di “politico islamista” e ricomponendo le proprie istanze politiche entro una cornice liberale e conservatrice-democratica. Per la prima volta nella storia del Paese, sulla scena politica si impone un «partito di ispirazione religiosa di governo» (p. 8) capace di rifarsi ad un ben definito immaginario politico, inserito nel solco della storia del Partito Democratico (Demokrat Parti) di Adnan Menderes, vincitore delle prime elezioni multipartitiche tenutesi nel Paese nel 1950, martire del colpo di Stato del 1960 e iniziatore di un processo di moderazione e riconfigurazione dell’eredità kemalista – e dei rapporti tra centro e periferie della società turca – di cui Erdoğan si fa ideale continuatore[3].

La robusta ossatura che ha permesso al partito di emergere e assestarsi nella società civile è ravvisabile nell’incessante opera di fidelizzazione di una leale schiera di magnati delle costruzioni e di imprese edili tramite la distribuzione statale di terre, crediti, contratti e favori legali, prodromica alla formazione di una dinamica élite economica e, contestualmente, di una sfera mediatica allineata e compiacente[4]. In parallelo, ad assicurare un consistente – e trasversale – bacino di consensi al nuovo partito si è dimostrata decisiva la volontà di sviluppo dell’idea di società musulmana plurale e liberale elaborata negli anni Ottanta dal presidente Turgut Özal, basata sulla ridefinizione dell’identità turca a partire dal rigetto dell’approccio assimilazionista di stampo kemalista e dall’apertura alle diverse realtà etniche e linguistiche del Paese. Questo approccio si concretizza, sotto i governi dell’AKP, nella forma di una politica di distensione con le comunità non musulmane – in relazione alla questione delle proprietà loro confiscate e mai restituite –, con gli aleviti e, in particolar modo, con i curdi, al centro di un processo di cauto riconoscimento culturale e di soluzione negoziata con le componenti paramilitari ancora attive contro il governo centrale. In tal senso, l’autrice rimarca opportunamente come queste misure antidiscriminatorie si inquadrino in una più generale volontà politica di «superamento dei limiti imposti dal secolarismo kemalista verso la presenza pubblica del fenomeno religioso» (p. 104), e si rivelino quindi funzionali all’agognato sovvertimento dell’egemonia culturale esercitata dall’apparato laico kemalista.

Nell’analisi delle vicende dell’AKP, che prosegue nei capitoli terzo e quarto, l’autrice ritiene essenziale operare una divisione tra una fase iniziale, corrispondente alla prima decade al potere in seguito alla vittoria alle elezioni del 2002, nella quale il partito «sembra voler confermare e rafforzare l’ambizione di completare il percorso di adesione nel processo di integrazione europea» (p. 8) all’insegna di pressanti richieste di trasparenza e lotta alla corruzione, e una seconda fase, segnata dalla svolta presidenzialista e dall’incremento della repressione verso il dissenso interno. L’autrice individua il momento di passaggio dalle politiche filoeuropeiste alla costruzione di un “autoritarismo competitivo” nel torno di anni compreso tra le proteste di Gezi Parkı del 2013, che sanciscono il disincanto dalla proposta politica erdoğaniana presso quella componente di liberali che, nello smantellamento del vecchio establishment kemalista, aveva ingenuamente ravvisato una matrice liberale e democratica[5], e il tentato colpo di Stato del luglio 2016 promosso da una frangia dell’esercito legata alla figura del predicatore Fethullah Gülen, evento culminante della lotta tra i due ex alleati per il controllo delle strutture e istituzioni legate a doppio filo allo “Stato profondo” (Derin Devlet)[6].

Proprio in relazione al rapporto con l’esercito e alla cadenzata successione di colpi di Stato nell’arco della storia della Turchia contemporanea, l’autrice affronta, nel secondo capitolo, le notevoli modificazioni impresse all’architettura istituzionale dello Stato turco durante gli anni di governo di Erdoğan. Esse sono risultate dalla graduale estromissione dei militari, storicamente investiti di un ruolo di tutela del secolarismo fatto valere per mezzo di interferenze e colpi di mano ai danni dei governi in carica, dai gangli vitali del potere. Ciò viene sapientemente realizzato sfruttando la decisa spinta filoeuropeista in auge nel Paese e l’implementazione delle politiche di adeguamento alle richieste europee, aumentando la componente di civili all’interno del Consiglio per la sicurezza nazionale, riducendo le garanzie costituzionali per l’esercito, come l’immunità, sottoponendoli alla giurisdizione di tribunali civili e non più militari, e disattivando la loro influenza sullo scacchiere internazionale tramite l’adozione di una linea di politica estera distensiva riassunta nella formula “zero problemi con i vicini”, enunciata dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu.

Il processo di snaturamento delle strutture istituzionali vede un punto di non ritorno nella ridefinizione in senso presidenzialista del sistema politico turco, approvata in seguito alla vittoria del “Sì” al referendum dell’aprile 2017, preludio di un massiccio potenziamento delle funzioni esercitate dal Presidente della Repubblica, che incorpora le prerogative precedentemente spettanti al Primo Ministro, acquisendo la possibilità di «legiferare per decreto al fine di dare attuazione al programma governativo in quegli ambiti in cui l’Assemblea non si è ancora espressa» (p. 68). Una situazione, quest’ultima, che ha sovente determinato l’apertura di conflitti di attribuzione tra la Presidenza e l’Assemblea, rendendo possibile, nei fatti, una «quasi totale attività sostitutiva del Presidente rispetto alla funzione legislativa del Parlamento» (p. 69). In questo elemento, l’autrice identifica uno dei principali vulnus delle riforme accentratrici del leader turco, che, alterando la separazione dei poteri in favore di una preminenza dell’esecutivo, realizza compiutamente una “presidenza imperiale” dal carattere “quasi monarchico”[7].

A conclusione della sua ricerca di linee di continuità e discontinuità che innervano la storia della Turchia, necessaria per spiegare origini e caratteri delle trasformazioni che hanno interessato le ultime due turbolenti decadi, l’autrice propone una brillante lettura che vede nell’erdoğanismo il «frutto di un costituzionalismo immaturo in cui sia il funzionamento delle istituzioni che le regole per la salvaguardia dei diritti sono costantemente ostaggio di una identità costituzionale incerta» (p. 9), che, paradossalmente, pure lo stesso AKP, nel 2011, aveva tentato di emendare, coinvolgendo la società civile e aprendo con essa un canale diretto di comunicazione e confronto nel quadro dell’istituzione della Commissione per la riconciliazione costituzionale presso la Grande assemblea nazionale. Tentativo, questo, naufragato a causa dell’incapacità delle forze politiche di elaborare soluzioni di compromesso. L’immaturità sistemica della democrazia turca, incapace di formulare un’identità costituzionale plurale e un patto sociale tra le varie anime del Paese[8], si configura, quindi, come prodotto del momento fondativo stesso della Repubblica di Turchia – proclamata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923 – nel quale è centrale la difesa del principio di integrità territoriale contro i timori esistenziali dell’accerchiamento e della disgregazione, a prescindere dalle forze politiche in carica. L’omogeneità della popolazione diviene, di conseguenza, un dato imprescindibile attorno al quale costruire la comunità nazionale, e «l’individualismo che è connaturato al costituzionalismo liberale assume un valore marginale nei processi costituenti […] in favore della nazione alla cui tutela tutto l’ordinamento si vota» (p. 147). Ci si appella ad una “concezione maggioritaria” del potere, in accordo con la quale i principi di separazione dei poteri e di indipendenza del potere giudiziario possono essere sacrificati sull’altare di un’«uniformità di vedute tra le istituzioni su materie di interesse generale» (p. 75). In tal senso, secondo l’autrice non è corretto parlare, in relazione al caso turco, di una regressione costituzionale, bensì di un «mancato consolidamento del costituzionalismo liberal-democratico» (p. 150), determinato dal sedimentarsi dell’azione di forze illiberali e autoritarie. La one-man rule di Erdogan, pertanto, non costituisce una novità assoluta per la vita istituzionale del Paese, ma va interpretata come «l’esasperazione di una cultura politica abituata alla presenza di figure forti e carismatiche» (p. 10), tese a succedersi e sostituirsi senza impostare un’azione politica genuinamente democratica, partecipativa e inclusiva.


[1] Carlo Pallard, L’intrinseco autoritarismo dello Stato turco, «Limes. Rivista italiana di geopolitica», VII (2020), pp. 223-232, p. 231.

[2] Federico Donelli, Sovranismo islamico. Erdoğan e il ritorno della Grande Turchia, prefazione di Alessandro Campi, Luiss University Press, Roma 2019, pp. 51-52.

[3] Per un approfondimento sui rapporti tra la figura di Erdoğan e l’eredità politica di Menderes si veda Nicholas Danforth, The Menderes Metaphor, «Turkish Policy Quarterly», IV (2015), pp. 99-105.

[4] Per un’attenta analisi della genesi dell’AKP, i suoi rapporti con il mondo dei magnati dell’edilizia ed i processi di radicamento nella società turca ad esso connessi si veda Yeşim Arat e Şevket Pamuk, Turkey Between Democracy and Authoritarianism, Cambridge University Press, Cambridge 2019.

[5] Marc Edward Hoffman, Election Day in Turkey is This Sunday and Erdoğan and the AKP Are on Shaky Ground, «New Lines Magazine», 12 maggio 2023.

[6] Per una puntuale disamina sul conflitto tra Erdoğan e Gülen e sul tentato colpo di stato si veda M. Hakan Yavuz e Rasim Koç, The Turkish Coup Attempt. The Gülen Movement vs The State, «Middle East Policy», IV (2016), pp. 136-148.

[7] Per un approfondimento sugli ultimi sviluppi della leadership erdoğaniana si veda Dimitar Bechev, Turkey Under Erdoğan. How a Country Turned from Democracy and the West, Yale University Press, New Haven 2022.

[8] Per una riflessione critica sulla natura del regime turco si veda Cengiz Aktar, Il malessere turco, Il canneto editore, Genova 2022.

Scritto da
Vanni Rosini

Studente magistrale in Storia all’Università di Firenze, dove ha approfondito la conoscenza della lingua turca. Appassionato di Medio Oriente, con particolare attenzione verso la Turchia, nel 2022 ha trascorso un periodo di studio presso la Bilgi Üniversitesi di Istanbul. Scrive anche per Limes Club Firenze.

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