Scritto da Alberto Mariotti
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Quella tra Repubblica di Turchia e stati europei è una storia di relazioni relativamente recenti, sebbene con origini profonde. Profonde poiché si sono sviluppate sulla scia di quel che fu l’Impero Ottomano, per secoli attore protagonista delle vicende internazionali del Vecchio Mondo e parte dello stesso “Concerto Europeo”; recenti perché il nuovo Stato turco si è costituito poco meno di un secolo fa – la Repubblica è stata proclamata il 23 ottobre 1923 – come reazione al declino e alla disfatta dell’Impero e all’imposizione al Sultano dei Trattati di Pace da parte delle potenze uscite vincitrici dal primo conflitto mondiale.
Se la costituzione del nuovo Stato turco è scaturita dagli esiti della Prima guerra mondiale, la fine della Seconda ha invece determinato l’appartenenza di Ankara al sistema di sicurezza occidentale nei decenni a venire. La Turchia, infatti, non solo è l’unico Stato “non occidentale” ad entrare nell’Alleanza Atlantica (1952), ma è anche uno dei primi paesi, assieme alla Grecia, destinatari di aiuti economici e militari da parte degli Stati Uniti in virtù dell’allora appena enunciata Dottrina Truman (1947).
Al di là dei progetti statunitensi e dell’allineamento di Ankara verso Washington, è giusto ricordare come la stessa nascita della Repubblica sia stata concepita dal suo padre fondatore – Mustafa Kemal “Ataturk” – come diretta emulazione di uno Stato moderno e modernizzato sul modello europeo.[1]
Per necessità di brevità, è possibile individuare in questa sede tre aspetti principali (ma certamente non esaustivi)[2] della politica turca nella seconda metà del XX secolo che in un modo o nell’altro hanno caratterizzato l’esistenza della Repubblica turca e il suo porsi in essere nei confronti dell’Occidente e dei vicini arabi: (a) il Kemalismo, di cui ci preme qui sottolineare il forte afflato nazional-secolare; (b) la ferrea appartenenza alla Nato; (c) una pressante presenza del potere militare[3], spesso al di sopra di quello civile, sia in politica interna che estera.
La presidenza Erdoğan nel nuovo millennio
Questi tre “pilastri” sembrano oggi non esistere più; o quantomeno non sembrano rappresentare per Recep Tayyip Erdoğan – leader del partito turco AKP al potere dal lontano 2002 – utili traiettorie sulle quali sviluppare il futuro assetto sociale e della politica estera dello Stato turco.
Per quanto il Kemalismo non sia ancora, ad oggi, apertamente contestato e contestabile[4] è impossibile non cogliere un marcato ritorno, specialmente negli ultimi anni, ad una retorica religiosa-islamica da parte del Presidente Erdoğan; retorica che rappresenta però solo il culmine di un risveglio islamico nella e della società che è andato sempre più allargandosi sin dagli anni Settanta/Ottanta.
Lo stesso Erdoğan ha poi cercato, già a partire dal primo mandato, di porre fine allo strapotere politico di quel “Deep-State” rappresentato dal complesso militare, provvedendo piuttosto al suo assoggettamento, rappresentato emblematicamente dal fallimento del golpe 2016 e dalle successive purghe tra le Forze Armate (e non solo).
Infine, da vari mesi è in atto un vero e proprio scontro politico-diplomatico tra Ankara e Washington che sembra metter quasi in discussione, seppur solo teoricamente, il futuro ruolo della Turchia all’interno della NATO. La volontà di Erdoğan di acquistare il sistema anti-missilistico S-400 dalla Russia non si è piegata nemmeno di fronte alle minacce statunitensi, poi concretizzatesi[5], di escludere il Paese anatolico dal programma F-35. La mossa di Erdoğan è, ancor più rilevante, in quanto culmine di un percorso avviato ormai due anni fa, quando il leader turco ha iniziato a guardare verso Mosca alla ricerca di un accordo, quello russo-turco-iraniano, per una sorta di risoluzione – o, più precisamente, una difesa dei rispettivi interessi nazionali – circa la complessa vicenda della guerra civile siriana.
Come è stato possibile un cambiamento di linea così drastico da parte di Ankara? D’altra parte Erdoğan, pur con un passato all’interno di uno dei primi partiti islamici[6] di successo, fin dalla campagna presidenziale ha piuttosto cercato di rappresentarsi e porsi come uno dei più entusiasti e audaci fautori di un avvicinamento del proprio Paese all’Unione Europea. Sulla base di questa volontà ha promosso una lunga serie di riforme, costituzionali, economiche, dell’ordinamento giuridico e sociale che da una parte avrebbero dovuto allineare e far rientrare Ankara nei cosiddetti Criteri di Copenaghen; dall’altra hanno fornito un forte slancio al Paese che si è ritrovato così alla ribalta della scena internazionale, guadagnandosi una posizione centrale tra i paesi emergenti, con tassi di crescita economica tra i più alti al mondo e con una ritrovata volontà di porsi come cardine degli interessi afro-euro-asiatici, in virtù della propria “profondità strategica”[7].
Il leader turco, va ammesso, ha dimostrato nei lunghi anni al potere grandi doti di statista e un certo realismo e pragmatismo. È stato in grado di cogliere a pieno gli smottamenti di lungo periodo determinati dalla fine del bipolarismo e le opportunità del contesto economico e geopolitico che il nuovo millennio andava offrendo al Paese.
Le origini dell’allontanamento
Se si vogliono scegliere due date rappresentative nelle quali cogliere l’inizio di un ripensamento politico del ruolo internazionale di Ankara è lecito individuarle negli anni 2011 e 2016.
Lo scoppio delle cosiddette primavere arabe da una parte, e il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 dall’altra, sono infatti determinanti per comprendere il susseguirsi di eventi che ha portato Erdoğan a un allontanamento dall’Occidente.
Se inizialmente le proteste che hanno sconvolto il Maghreb, e il Medio Oriente in generale, sono state colte da Ankara positivamente – spingendo Erdoğan a sostenerle e a porsi come modello di un islam democratico dinnanzi ai partner occidentali e ai manifestanti arabi – il fallimento di queste e l’incancrenirsi della situazione siriana ha posto il leader dell’AKP di fronte a sfide problematiche.
Ciò è emerso chiaramente nella già citata crisi siriana, nella quale Erdoğan è parso vedere inizialmente un’opportunità per indebolire Damasco, storico nemico della Turchia, salvo poi – dopo 5 lunghi anni di guerra civile, milioni di profughi in fuga attraverso i confini turchi e il pericolo della formazione di una regione autonoma o indipendente curda sul proprio confine – dover abbandonare le velleità di un “regime change”. Durante questi anni il susseguirsi degli eventi ha di fatto posto in collisione gli interessi di Ankara rispetto a quelli degli storici partner occidentali.
In primo luogo, il perpetrarsi del conflitto ha creato una permanente instabilità lungo i confini turchi, instabilità che ha generato un diffuso senso di insicurezza ad Ankara sia per i movimenti di profughi[8] sia per la già citata questione curda, resa ancora più amara dal costante sostegno che gli Stati Uniti hanno continuato a fornire alle forze curdo-siriane. Questo ha anche rafforzato l’unità attorno al leader turco delle componenti più nazionaliste del Paese.
In secondo luogo, ad imprimere la svolta decisiva, è stato il tentato e fallito colpo di stato per mano di frange delle Forze Armate, in particolare quelle dell’Aereonautica[9], nel luglio 2016. Erdoğan non ha affatto gradito il tardivo e quasi assente sostegno alla propria presidenza da parte dei leader europei e dagli Stati Uniti. Anzi, nei mesi successivi si è configurato un vero e proprio attrito diplomatico tra Ankara e Washington circa l’estradizione di Fetullah Gülen, accusato di essere mandante e mente del colpo di stato. Parallelamente i rapporti con i paesi europei sono andati invece deteriorandosi per il pugno duro usato dal leader come risposta al tentato golpe: una forte repressione su ampi settori della società turca, imprimendo una svolta autoritaria alla non ancora consolidata democrazia anatolica.
Più recentemente, infine, lo scontro si sta giocando sulla partita del gas mediterraneo-orientale[10], facendo riemergere questioni storiche mai risolte: quella (grave) Cipriota, e quella (in misura minore) Greca.
Il nuovo paradigma e le incertezze sul futuro della Turchia
Le relazioni tra Ankara e l’Occidente sembrano dunque negli ultimi anni essersi sviluppate secondo una crescente sfiducia reciproca, su specifici temi, spingendo le parti a sfidarsi più apertamente, pur sapendo bene come la lunga storia comune ha reso l’una interdipendente dall’altra, e che dunque una rottura totale non sarebbe stata possibile visti i legami economici e gli interessi strategici.
E tuttavia, l’accumularsi di questioni in contrapposizioni ha sempre più spinto Erdoğan a guardare altrove, alla ricerca di soluzioni concrete. Come sostiene Nick Danforth, «In a more chaotic and threatening world, Ankara is also increasingly putting its faith in hard power»[11]; da qui la crescente assertività, in politica estera e interna del regime turco degli ultimi anni.
Le operazioni “Scudo d’Eufrate” e “Ramo d’Ulivo” in Siria del Nord, volte a creare una regione cuscinetto al confine per allontanare lo spettro di un’unificazione tra le realtà curde di Turchia e Siria; le azioni provocatorie e contrarie al diritto internazionale nelle acque adiacenti alla Repubblica di Cipro del Nord – riconosciuta dalla sola Ankara ed in cui negli ultimi mesi vi sta ammassando mezzi militari – per non rimanere tagliato fuori dal futuro sfruttamento dei giacimenti di gas all’interno della ZEE cipriota; la perseveranza[12] nell’acquisto dei sistemi S-400 e nel renderli operativi entro ottobre prossimo; ma anche il sostegno con l’invio di mezzi armati al governo di Al-Serraj nonostante l’embargo delle Nazioni Unite[13]. Tutte queste sono azioni che vanno lette alla luce di questo cambio di paradigma all’interno del governo turco, sempre più dipendente e assottigliato sulla visione del Presidente. Una visione delle relazioni internazionali, quella erdoganiana, sempre più spiccatamente realista, dove lo spazio per il multilateralismo e il diritto internazionale, tanto invocato dall’Occidente e in particolare dall’Unione Europea, sembra ridursi sempre più in favore di un pragmatismo autoritario che tende a cercare di massimizzare il proprio interesse nazionale.
Va notato, in ogni caso, come questa tendenza sia comune a un certo numero di stati e, più che una specificità turca, sembrerebbe essere una tendenza generale data dall’insoddisfazione per una serie di meccanismi formali accusati di costituire lacci e lacciuoli per “la Ragion di Stato”, in tempi non facili. Quanto però questo nuovo paradigma si possa rivelare proficuo e prolifico è tutto da vedere.
In primis perché la Turchia non ha raggiunto affatto una solidità e un peso internazionale da caratterizzarla come vera potenza autonoma e indipendente. A dimostrazione di ciò la pesante crisi monetaria che ha colpito la lira turca a seguito delle sanzioni decise da Trump nell’estate del 2018. Una moneta debole che riflette (anche) [i]la poca credibilità di un sistema piegato ai voleri del Presidente, che non contento dell’accentramento dei poteri politici sulla propria figura, sta cercando di ridisegnare le basi economiche del Paese a suo favore. Ad esempio, licenziando il governatore della Banca Centrale, accusato di contrastare la crescita con una politica di alti tassi, o nominando come Ministro dell’Economia suo genero. In questa ottica, non stupisce più di tanto un crescente malcontento verso l’ultradecennale leader turco da parte di quei settori della società che in maggior misura sono integrati nell’economia internazionale.[14]
Quanto possa poi reggere un confronto aperto e in parallelo con Stati Uniti e Unione Europea, è tutto da vedere. Come già fatto presente, gli Stati Uniti hanno recentemente deciso di escludere[15] Ankara dalla fornitura degli F-35 facenti parte del Programma JSF, ma qualcuno ha anche lasciato trasparire dubbi sul futuro ruolo della Turchia all’interno dell’Alleanza. E sicuramente in certi ambienti a Washington non si farebbero problemi a punire lo storico partner se questo proseguisse il suo allineamento verso Mosca.
L’Unione Europea di contro è riuscita a far fronte comune sulle azioni turche nel Mediterraneo orientale e ha optato per una serie di sanzioni economiche[16]. Vista l’instabilità economica del Paese, è difficile immaginare che la Turchia possa perpetrare a lungo uno scontro frontale con la comunità atlantica, se non chiedendo ancor maggiori sostegni a Russia e Cina. Ma, sebbene Ankara abbia un certo margine di manovra – da una parte il “ricatto” sui flussi migratori da agitare innanzi all’UE, dall’altra la pur sempre centralità strategica del Paese nella NATO e per gli interessi statunitensi – abbiamo già sottolineato come questo “tirare la corda” abbia portato a una spirale di eventi che hanno provocato un effettivo allontanamento tra gli attori. Niente esclude che un giorno, nella valutazione costi-benefici tra le parti, la corda possa definitivamente spezzarsi.
[1] Convinto fautore di una modernizzazione di stampo occidentale a 360°, Mustafa Kemal ha ad esempio ampiamente attinto, tra le altre cose, al codice civile svizzero e a quello penale italiano, abolendo formalmente e definitivamente la shari’a.
[2] Le fonti a riguardo (in parte presentate in bibliografia) sono molteplici.
[3] Lo Stato turco, nonostante la formazione statuale più consolidata rispetto ai paesi arabi del Medio Oriente, ha avuto in comune con questi ultimi una tradizionale ingerenza del potere militare. Dal secondo dopoguerra l’esercito ha condotto tre colpi di stato riusciti, quelli del 1960, 1971 e 1980, indotto un governo alle dimissioni (1997) e organizzato due colpi di stato falliti (2007 e 2016).
[4] Al 2017 era ancora in vigore la Legge n° 2911 sui “Crimini contro la memoria di Ataturk”
[5] La nota ufficiale della Casa Bianca con la quale si è data la notizia dell’esclusione di Ankara dal programma ribadisce però «Come alleati della Nato, la nostra relazione è multistrato e non si concentra esclusivamente sull’F-35. La nostra relazione military-military è forte e continueremo a cooperare con la Turchia in modo approfondito, consapevoli dei vincoli dovuti alla presenza del sistema S-400 in Turchia». Mentre, nelle parole del Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg,«The role of Turkey is much broader than the F-35 or S-400».
[6]Si fa riferimento qui al Refah Partisi (Partito del Benessere), uno dei primi e maggiori partiti d’ispirazione islamica, arrivato anche al governo nel 1997, e con il quale Erdoğan è stato eletto a Istanbul nel 1994. Il Refah Partisi è stato poi sciolto nel 1998 dalla Corte Costituzionale Turca, a seguito del ‘Colpo di Stato post-moderno’ per mano delle Forze Armate.
[7] Il riferimento qui è alla “Dottrina Davutoglu”, espressa nell’opera Stratejik Derinlik. Turkiye’nin Uluslararasi Konumu dell’allora Professore di Relazioni Internazionali, poi Ministro degli Esteri e Capo del Governo Ahmet Davutoğlu. Sebbene scritta nel 2001, non è ancora stata tradotta in Inglese, tanto meno in italiano. Per la centralità di questo pensiero nel nuovo millennio, si consiglia la lettura di: AA.VV, La profondità strategica turca nel pensiero di Ahmet Davutoğlu, Vox Populi, 2011.
[8] Sebbene di questo Erdoğan sia riuscito a “far di necessità virtù”, strappando un accordo considerevolmente vantaggioso ad un’Unione Europea in costante “emergenza” migranti. Per il testo dell’accordo:
[9] http://www.limesonline.com/cartaceo/non-si-usa-laeronautica-per-fare-i-golpe-lo-sanno-anche-i-bambini?prv=true
[10] http://www.limesonline.com/cartaceo/la-partita-del-gas-nel-mediterraneo-orientale?prv=true
[11] https://foreignpolicy.com/2019/07/15/why-turkey-doesnt-trust-the-united-states
[12] Tra le altre cose il Ministro degli Esteri Çavuşoğlu è criticato da Erdoğan per la sua “mitezza” nel confrontarsi con gli alleati Nato sulla disputa S-400/F-35, e qualcuno pensa possa fare la fine del predecessore Davutoğlu, anch’esso licenziato per la poca tenacia/assertività.
[13]https://www.un.org/sc13832.doc.htm
[14] Guardando la suddivisione nei voti delle più recenti elezioni nazionali si può vedere una più o meno netta spaccatura tra “Centro” e “Periferia” della Turchia, con le maggiori città che hanno espresso il minor numero di voti in favore all’AKP. La perdita della città di Istanbul nel maggio/giugno scorso, nonostante la ripetizione delle elezioni voluta da Erdoğan, è un chiaro segnale ed esempio.
[15] Per una breve ma chiara spiegazione del perché:
https://www.aresdifesa.it/2019/06/12/perche-washington-non-vuole-avere-di-mezzo-ls-400
[16] https://www.bloomberg.com/2019-07-15/eu-adopts-punitive-measures-against-turkey-over-cyprus-drilling