Scritto da Nicolò Carboni
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Il ministro Padoan ha recentemente rilasciato un’intervista al Financial Times in cui, seppur in maniera abbastanza sfumata, esprime la necessità di arrivare quanto prima a una vera “unione politica” europea.
L’articolo del quotidiano londinese è stato ripreso da buona parte della stampa nazionale leggendolo come un ritorno dell’iniziativa europeista italiana mentre altri, come l’economist, hanno preferito rispondere in maniera più polemica.
Lungi dall’essere un pigro dibattito balenare, il problema dell’assetto istituzionale UE è il grande convitato di pietra di tutti i livelli di governance europea. Dal rapporto dei cinque presidenti ai vari documenti più o meno ufficiali che filtrano (o vengono fatti filtrare) dalle cancellerie, è evidente come la struttura basata sul Trattato di Lisbona non sia più attuale. La diarchia fra Consiglio Europeo e Commissione è andata in crisi nel momento stesso in cui, per la prima volta, al vertice dell’esecutivo comunitario è arrivato un personaggio se non carismatico, quantomeno furbo come Jean Claude Juncker. I capi di stato e di governo, abituati a una Commissione Europea passacarte hanno mal digerito il protagonismo del Berlaymont andando così a realizzare la facile profezia di Angela Merkel che, ricordiamolo, non voleva assolutamente l’ex premier lussemburghese a Bruxelles.
In questo quadro il Parlamento Europeo fatica a ritagliarsi un ruolo, muovendosi spesso in maniera poco ordinata: le entrate a gamba tesa di Martin Schulz prima e durante il referendum greco non hanno fatto altro che aumentare la percezione di un establishment europeo pronto a buttare Tsipras dalla rupe mentre i deputati faticano a reclamare i loro poteri di colegislatori.
In ogni caso, quando si parla di unione politica, sono necessari alcuni chiarimenti che cercherò di approfondire per punti.
1. La dimensione. L’Unione Europea vive da sempre una doppia tentazione, da un lato abbiamo chi, come i britannici, punta a un modello soft, con poche regole e ancor meno istituzioni. Dall’altro ci sono gli irrequieti, propugnatori dell’andare avanti con chi ci sta, creando un nucleo di paesi “federati” capaci di attirare nella loro orbita gli Stati più titubanti. La moneta unica è stata la più grande vittoria di questo secondo gruppo, mentre l’approccio europeo su immigrazione e diritti civili svela quanto i Paesi Membri siano gelosi delle loro competenze statuali.
Immaginare una più stretta unione politica a livello UE significa, prima di tutto, chiedersi come impostare l’intera costruzione, se avanzare a 28 o se lasciare, anche solo temporaneamente, qualcuno fuori;
2. La struttura. Accettata la stanchezza delle attuali istituzioni non significa rinnegare del tutto il loro ruolo. Al momento sembra riscuotere molto interesse la proposta di creare un “Parlamento dell’Eurozona” deputato a decidere le sorti monetarie, fiscali ed economiche dei 19. Questa nuova assemblea sarebbe composta da membri dei parlamenti nazionali e, dunque, si configurerebbe come un’organo di secondo livello. Unitamente all’europarlamentino si dovrebbe nominare un Commissario per l’Euro dotato, così come descritto da Wolfgang Schäuble, di poteri analoghi a quelli che possiede un dicastero delle finanze nazionale. Sopraggiungono subito alcuni problemi; il primo e più lampante sarebbe lo scontro di competenze fra questo eventuale Parlamento dell’Euro e il Parlamento Europeo. Durante la scorsa legislatura UE fu proposto di creare una sottocommissione all’interno della Commissione Economica per discutere esclusivamente dei problemi legati alla zona Euro. Dopo molti dibattiti il progetto si incagliò perché ne la presidenza del Parlamento, né i servizi giuridici erano in grado di esprimersi sulla legittimità di escludere i deputati europei provenienti da paesi non Euro dai lavori di questa sottocommissione. Inoltre i testi votati da questo nuovo organo sarebbero comunque dovuti passare dall’Aula e, dunque, finire sotto il giudizio dell’intera assemblea. Un eventuale Parlamento dell’euro supererebbe questi problemi ma ne apre altri se possibile ancora peggiori legati alla legittimità democratica delle decisioni prese e al ruolo dei deputati europei eletti nei paesi della zona euro. Ci troveremmo davanti a un pericoloso sdoppiamento di competenze foriero, come spesso accade, di incomprensioni e poca efficacia.
Il discorso è più o meno lo stesso riguardo l’eventuale supercommissario: questi si troverebbe addirittura in una posizione superiore a quella del Presidente della Commissione dato che, stando alla proposta Schäuble, avrebbe l’ultima parola sull’approvazione dei bilanci nei singoli paesi potendo proporre modifiche e integrazioni.
3. Il ruolo. L’Unione Europea, se si interpreta lo spirito dei trattati fondativi, nasce come unione politica nel senso più pieno del termine: la CECA, mettendo in comune Carbone e Acciaio, costringeva i paesi fondatori a condividere le due risorse più importanti del secondo dopoguerra, Schengen ha eliminato i controlli di frontiera e l’Euro ha svuotato di senso le banche centrali nazionali. Risorse, confini e moneta: esercito escluso si tratta delle competenze che definiscono gli Stati Nazione dai tempi del trattato di Westfalia. Vedere una futura unione politica contrapposta all’attuale Unione Europea dei tecnocrati è una superficialità figlia dell’attuale congiuntura. L’UE, se gli Stati Membri rispettassero lo spirito (a volte non rispettano nemmeno la lettera) dei Trattati, possiede già tutti gli strumenti necessari per rafforzare sia la governance interna – compresa quella dell’Euro – sia il suo ruolo come terzo polo fra Stati Uniti e Cina.
4. La legittimità. L’Unione Europea non nasce da grandi movimenti di popolo. I federalisti di Altiero Spinelli sono, da sempre, una minoranza per quanto organizzata e propositiva. L’Unione ha preso forma nelle stanze del Quai d’Orsay, non in Place de la Concorde o davanti alla Bastiglia. Prima o poi la leadership comunitaria dovrà fare i conti con i cittadini. Formalmente ogni singola istituzione è democraticamente eletta: i cittadini sono chiamati alle urne per il Parlamento, nella Commissione siedono delegati dei governi nazionali e tutto il Consiglio Europeo è composto da capi di stato e di governo arrivati al potere tramite democrazie sane e robuste (alcune più, altre meno). Tuttavia questo non basta più. I cittadini non percepiscono questa legittimità indiretta, con buona pace delle costose campagne di comunicazione lanciate dalle istituzioni europee. Pur condividendo nel profondo i valori che spinsero Schuman e gli altri padri fondatori a creare quella che oggi chiamiamo Unione Europea, i popoli faticano a comprenderla, non ne capiscono i bizantinismi e, soprattutto, non tollerano più le sue tante – troppe – inefficienze. Qualsiasi riforma dovrà passare da una grande consultazione popolare, anche nei paesi dove lo strumento referendario non è obbligatorio per legge. Lasciare che gli estremisti (da Tsipras alla Le Pen, passando per Grillo, Farage e Podemos) si appropriano dei temi legati alla legittimità democratica dell’unione è un errore che non possiamo più permetterci. Finora i danni, come nel caso del referendum greco, sono stati tutto sommato contenuti ma altri scivoloni, magari in paesi più grandi, potrebbero essere fatali.
L’Unione Europea, insomma, ha bisogno di una profonda riflessione, che guardi ai suoi limiti attuali ma che non freni l’ambizione alla mera gestione dell’esistente. Senza una prospettiva politica che guardi almeno ai prossimi cinquant’anni questa fantomatica “Unione Politica” rischia di diventare come l’Araba Fenice, che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessuno lo sa.
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