Ennio Flaiano una volta disse che in Italia la linea più breve fra due punti è l’arabesco. Chissà cosa avrebbe detto se fosse vissuto abbastanza per vedere l’Unione Europea del 2015.
In questi giorni la Commissione Europea ha pubblicato il “Rapporto dei cinque Presidenti”, un testo composto da circa venti paginette con cui Mario Draghi, Jeroen Dijsselbloem, Jean Claude Juncker, Donald Tusk e Martin Schulz delineano la loro visione per il futuro dell’Unione Europea. Calcolando che il Codice Leicester di Leonardo da Vinci indaga i rapporti fra l’Uomo, l’Universo e le costanti fisiche in meno di 17 fogli si capisce bene che i Presidenti hanno voluto essere sicuri di non dimenticare proprio niente.
I coraggiosi (compreso chi scrive) che si sono addentrati nel rapporto non vi hanno trovato nulla di troppo emozionante: i vari capitoli sono un perfetto compendio di neolingua eurocratica, ogni aggettivo, ogni preposizione, ogni frase che avrebbe potuto anche solo lasciar intendere un approccio capace di alzare lo sguardo dall’eterno presente in cui siamo immersi sono stati limati con una cura quasi sadica. I cinque leader propongono tre fasi, una iniziale che dovrà concludersi nel giugno 2015 in cui completare le riforme già avviate (unione bancaria e dei capitali) potenziando l’Eurogruppo e migliorando i meccanismi del semestre europeo, una intermedia (tra il 2015 e il 2025) in cui rendere più stringenti gli attuali meccanismi di convergenza macroeconomica e, infine, una riforma organica dei Trattati a partire dal 2025.
Ora, già la scansione temporale – un anno, dieci anni, il futuro della razza umana – fa intuire come il testo sia abbastanza irrealistico: molto probabilmente nel volgere di un quinquennio l’intera leadership europea sarà del tutto diversa e, com’è legittimo, avrà priorità politiche proprie, allo stesso tempo, scorrendo il rapporto e gli allegati non si evince uno straccio di proposta politica. Ancor peggio: manca quasi del tutto l’analisi. Mentre la Grecia affonda nel debito e la crisi continua a mordere anche le economie più solide il massimo che i cinque autori riescono a dire è che, magari, i bilanci nazionali – da soli – non possono sostenere l’intero peso delle correzioni necessarie. Troppa grazia.
La proposta più avanzata, nonché l’unica realmente “politica”, è la creazione di un Ministero del Tesoro dell’Eurozona tuttavia siamo nel reame dell’ipotetico, dato che il tutto è rimandato a data da destinarsi, senza alcuna road map precisa. Nel breve e medio periodo si leggono solo nuovi comitati dai nomi esotici (European Fiscal Board, European Systemic Risk Board, National Competitiveness Authority) che, almeno in teoria, dovrebbero sovraintendere a una sempre maggiore coordinazione delle politiche fiscali, economiche e di bilancio dei paesi membri dell’Unione. Guardando alla storia recente si capisce subito come tutte le esperienze di questo tipo siano accumunate da esiti fallimentari: i sistemi complessi possono funzionare solo quando sono chiari gli incarichi, i poteri e le responsabilità dei vari organi che li compongono. La proliferazione di commissioni, board, gruppi di lavoro ha il solo risultato di rendere il processo decisionale ancora più bizantino (come se non lo fosse già abbastanza), disperdendo in mille rivoli le competenze di ciascuno. I padri fondatori avevano intravisto il pericolo e, molto saggiamente, optarono per una struttura istituzionale snella, di impianto classico ma con alcune correzioni (il potere di iniziativa legislativa in capo all’esecutivo anziché al Parlamento, per esempio); negli ultimi anni questa eredita si è persa quasi del tutto e, oggi, anche la Commissione Europea fatica a coordinare le ormai labirintiche articolazioni dell’Unione. Il documento dei cinque presidenti anziché rispondere in maniera netta a questo enorme problema preferisce metterci il carico, andando a immaginare una serie di nuovi arzigogoli istituzionali privi della minima legittimità democratica e, ancora una volta, composti da funzionari senza alcuna indipendenza politica.
Sul fronte politico, inoltre, appare chiaro che questo documento suggella l’ennesimo patto di ferro tra Germania e Francia: posticipando a dopo il 2017 il rafforzamento delle istituzioni Parigi e Berlino sperano di non dover condurre due campagne elettorali incentrate sui temi europei. Peccato però che in Italia – sorprese permettendo – andremo al voto proprio nel 2018 con il rischio neppure troppo remoto, di dover condurre uno scontro politico nel mezzo del guado.
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