Recensione a: Fausto Durante, Lavorare meno, vivere meglio. Appunti sulla riduzione dell’orario di lavoro per una società migliore e una diversa economia, Prefazione di Maurizio Landini, Futura Editrice, Roma 2022, pp. 104, 12 euro (scheda libro)
Scritto da Chiara Ciucci
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Una condizione preliminare, senza la quale tutti gli ulteriori tentativi di miglioramento ed emancipazione devono rivelarsi abortivi, è la limitazione della giornata lavorativa. È necessaria per ripristinare la salute e le energie fisiche della classe operaia, cioè il grande corpo di ogni nazione, nonché per garantire loro la possibilità di sviluppo intellettuale, rapporti sociali, azione sociale e politica.
Karl Marx, Istruzioni ai delegati per il Congresso dell’Associazione Internazionale dei lavoratori, 1886
Negli ultimi sessant’anni, il progresso tecnologico ha portato con sé effetti innegabilmente positivi nel mondo del lavoro: una comunicazione sempre più rapida, la possibilità di delegare alle macchine lavori manuali, la semplificazione della gestione dei processi produttivi e molto altro. La tecnologia e l’intelligenza artificiale hanno infatti ridisegnato il corso della produzione industriale e modificato l’industria stessa: nelle attività di fornitura, nella logistica, nel processo della catena di montaggio, nelle linee di assemblaggio dei prodotti. Un cambiamento strutturale che ha portato con sé un aumento importante della produttività, cosa che, potenzialmente, potrebbe portare con sé benefici per i diversi attori di questa dimensione: lavoratori, datori di lavoro, stakeholder. Gli effetti positivi derivanti dal progresso tecnologico però non si realizzano spontaneamente: c’è bisogno di contrattazione collettiva e di redistribuire la ricchezza e il reddito. Lo sottolinea nel suo ultimo libro Lavorare meno, vivere meglio il sindacalista Fausto Durante[1], coordinatore dell’Area Politiche europee e internazionali della CGIL. A testimonianza di questa considerazione, Durante ricorda come negli ultimi quarant’anni si sia assistito ad una crescita continua della produttività – anche se, di recente, con ritmi sempre meno sostenuti – ma che i salari dei lavoratori italiani da allora ristagnino, non sottoposti ad una crescita proporzionale a quella della produttività. A partire dagli anni Ottanta, infatti, si è verificata una separazione della curva della produttività dalla curva dei salari, dimensioni del lavoro che, fino ad allora, avevano mantenuto andamenti convergenti.
Da quel momento, per il sindacalista, l’economia nazionale ha smesso di occuparsi della distribuzione dei propri risultati con attenzione sociale, ovvero seguendo il principio di equità: le quote di ricchezza prodotta sono state tolte alla dimensione del lavoro e date esclusivamente a quella del capitale. Di questo spostamento – e della perdita di efficacia dell’azione sindacale e del movimento dei lavoratori – si sono occupati in molti: Thomas Piketty con Il capitale nel XXI secolo[2]; Ulrich Beck con Disuguaglianza senza confini[3]; Joseph E. Stiglitz con Popolo, potere, profitti[4]; Anthony B. Atkinson, Disuguaglianza – Che cosa si può fare?[5], in cui lo studioso descrive il capitalismo contemporaneo come un fenomeno «predatorio» in cui i livelli di disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni ricordano quelli del XIX secolo.
«Oggi», scrive Durante, «siamo di fronte al rischio che gli effetti potenzialmente positivi della nuova grande rivoluzione industriale, una rivoluzione in corso e che tutti noi stiamo vivendo, si determinino solo per uno dei soggetti protagonisti, cioè l’impresa». I lavoratori e l’insieme degli altri stakeholder rischiano, sostiene Durante, di rimanere esclusi dalla cerchia dei beneficiari del cambiamento: saranno sconfitti dalla nuova condizione socioeconomica se il modello attuale, quello dei bassi salari e dell’allungamento degli orari di lavoro, si affermerà definitivamente, se non sapranno (o meglio, sapremo) controllare questa trasformazione invece di subirla soltanto, lasciandone privilegiata solo l’impresa. Non fermare l’innovazione tecnologica, ma gestirne gli effetti sulle persone e sulle comunità: orientarne gli esiti per realizzare grandi obiettivi sociali. È in questo nodo – che vuole farsi snodo – del sistema economico attuale che torna la necessità di discutere della riduzione dell’orario di lavoro[6]. Un’esigenza che nasce dal bisogno di dare vita ad una conciliazione vita-lavoro più sana, e che implementi l’occupazione e la produttività dei lavoratori.
Le voci del dibattito
Per togliere dal dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro quell’aurea novecentesca e un po’ sovversiva che spesso viene evocata dai suoi contestatori, Durante riporta un aneddoto storico interessante: nel 1926, quando la settimana lavorativa era di sei giorni, Henry Ford propose di passare a 5 giorni lavorativi. La proposta di Ford non avvenne senza prima aver sperimentato questa riduzione nelle sue fabbriche, e dopo aver concluso come essa avesse avuto ricadute positive sulla produttività. «Adesso noi sappiamo dalla nostra esperienza di passaggio da sei giorni a cinque […] che possiamo ottenere una grande produzione di 6 giorni anche in 5», le parole di Ford. Ma non solo: «La settimana di 5 giorni non è il massimo possibile, né lo sono le 8 ore giornaliere». L’eco delle parole di Ford arriva in Italia a Giovanni Agnelli, nel 1932: «La riduzione dell’orario di lavoro come strumento per incrementare o per difendere l’occupazione […]. La formula va così modificata: produrre il massimo nel minimo tempo, ma ridurre le ore di lavoro a ciascun lavoratore e non il numero di lavoratori» (p. 30).
Un obiettivo sociale ed economico che non è riuscito a imporsi, con l’ascesa dell’ideologia neoliberista tra la fine degli anni Trenta e gli anni Cinquanta, e con essa dell’elogio della competitività. È interessante a questo proposito citare la ricostruzione storica che il sociologo Domenico De Masi offre in Felicità negata[7]. Lo studioso individua uno scontro tra due ideologie novecentesche[8], quella economica neoliberista portata avanti dalla Scuola di Vienna, e quella filosofico marxista, della Scuola di Francoforte. La felicità negata nella nostra società, per De Masi, è data proprio dalla vittoria della Scuola di Vienna (e dai suoi rappresentanti Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises, Milton Friedman ecc.) su quella di Francoforte. Uno scontro che si affianca ad un’altra battaglia interna alla sinistra (europea e nazionale), che dopo la Rivoluzione russa si è divisa tra riformisti e rivoluzionari: una dicotomia, forse, ancora oggi irrisolta.
Uno sguardo internazionale
La dimensione internazionale, scrive Durante a proposito della battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro, è un fatto necessario, specialmente in un contesto federale come quello europeo. Un caso citato nel libro è quello della riforma francese delle 35 ore lavorative settimanali, voluta all’inizio degli anni Duemila dal governo socialista di Lionel Jospin, che riduceva l’orario lavorativo dipendente di quattro ore in media, rispetto alle 39 ore settimanali in vigore precedentemente. Una misura introdotta nell’ottica e di una migliore conciliazione vita-lavoro, e anche di una «condivisione del lavoro»: chi teorizza la riduzione dell’orario lavorativo, infatti, lo propone riferendosi alla teoria del work-sharing (ripartizione del lavoro). In quest’ottica, ridurre il numero di ore lavorative settimanali – anche non variando il salario – consente di aumentare il numero di dipendenti che lavorano in un’impresa, che diversi studi hanno dichiarato «più produttivi» in quanto lavorano meno ore (Anthony Lepinteur, 2018[9], Marion Collewet e Jan Sauermann, 2017[10]).
Gli studi degli istituti europei, poi, evidenziano un’altra correlazione: le nazioni economicamente più ricche sono quelle in cui – in media – si lavora meno. Una recente analisi della Fondazione Openpolis ha reso visibile questa tendenza con uno studio realizzato sui dati Eurostat del 2020: sono quattro i paesi membri dell’Unione europea in cui, mediamente, si lavora più di 40 ore alla settimana: prima è la Grecia, con una media di 41,7 ore di lavoro settimanali (ma in alcune regioni greche si lavora più di 44 ore a settimana), seguita dalla Bulgaria (40,4 ore settimanali), dalla Polonia (40,3 ore settimanali) e dalla Repubblica Ceca (40,2 ore settimanali). Il numero di ore più basso, invece, si registra nei paesi dell’Europa settentrionale: nei Paesi Bassi, la media settimanale lavorativa è di 30,6 ore, in Danimarca di 33,6, in Germania di 35.
Lavorare meno: una necessità esistenziale
Oltre al non trascurabile aspetto della produttività, però, emerge un altro tema da trattare nel merito della riduzione dell’orario di lavoro: il tema esistenziale. La Costituzione italiana è «fondata sul lavoro». Ciò che l’individuo può realizzare, il suo potere d’acquisto e il prestigio di cui può avvalersi, dipendono dall’occupazione lavorativa che ha. Alcune osservazioni sulle motivazioni «esistenziali» per cui ha senso richiedere una riduzione dell’orario lavorativo settimanale si trovano nella riflessione filosofica di André Gorz[11], che evidenzia come la fioritura umana individuale sia indissolubilmente legata alla fioritura sociale, che si realizza nelle attività svolte dagli individui per la comunità fuori dal contesto del lavoro salariato. Gorz, marxista (non ortodosso), prima di teorizzare la necessità della fine del lavoro salariato, ha lungamente teorizzato un nuovo modello di lavoro nell’ottica di una diversa «civilizzazione» del mondo: partendo da una situazione di crisi del lavoro fordista e dell’automazione, il filosofo sottolinea la discontinuità come caratteristica del lavoro salariato nel mondo contemporaneo. Una discontinuità che comporta il venir meno di regole contrattuali e l’indebolimento dei progetti di assistenza che si basano sulla continuità della vita lavorativa. In questa discontinuità, Gorz vede la concretizzazione della possibilità di ridisegnare altri ambiti della vita umana: «una liberazione del tempo che ha senso solo se ne consegue un rientro di quest’attività: la ricostituzione di reti di mutuo aiuto, di cooperazione, di scambi non monetari».
Stando fermo nel solco del lavoro salariato, Durante chiede una rinnovata centralità del sindacato, le cui competenze principali riguardano l’orario lavorativo e i salari dei lavoratori, guardando all’obiettivo della «piena occupazione, che dovrebbe tornare al centro di ogni agenda politica, ed è strettamente legato all’orario di lavoro» (p. 77): all’insostenibilità dell’attuale modello economico, il sindacalista oppone quindi il tema della piena occupazione, perseguibile solo con svolte politiche radicali, tra cui quella dell’incentivare la riduzione dell’orario di lavoro per favorire l’innalzamento dei tassi di occupazione. Una battaglia, quella della riduzione dell’orario lavorativo, che non può non passare attraverso una battaglia culturale: come ricorda De Masi in Felicità negata, «sui nostri biglietti da visita, sotto il nome, c’è scritta la nostra professione. Noi ci identifichiamo con quello che facciamo». Un ripensamento del ruolo del lavoro salariato, in una società che è modulata interamente sul lavoro ma che ha sempre meno lavoro da offrire, passa anche, nella quotidianità, dalla messa in discussione di questo modello culturale. «È tempo di rilanciare la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro, è tempo che la sinistra ritorni ad occuparsi del lavoro e delle condizioni materiali di chi lavora, è tempo che il sindacato riprenda nelle sue mani una delle bandiere ideali degli albori del movimento operaio, cioè quella di lavorare meno per lavorare tutti e meglio».
[1] Fausto Durante, Lavorare meno, vivere meglio, Futura editrice, Roma 2022.
[2] Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2017.
[3] Ulrich Beck, Disuguaglianza senza confini, Laterza, Roma-Bari 2011.
[4] Joseph E. Stiglitz, Popolo, potere, profitti, Einaudi, Torino 2020.
[5] Anthony B. Atkinson, Disuguaglianza: che cosa si può fare?, Cortina, Milano 2015.
[6] Cfr. Giorgio Maran, Il tempo non è denaro. Perché la settimana di 4 giorni è urgente e necessaria, Altrimedia, Piacenza 2020.
[7] Domenico De Masi, La felicità negata, Einaudi, Torino 2022.
[8] Cfr. Marco D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano 2020.
[9] Anthony Lepinteur, The shorter workweek and worker wellbeing: Evidence from Portugal and France, AEA: Papers & Proceedings, «Labour Economics», Vol. 58 (2018).
[10] Marion Collewet e Jan Sauermann, Working hours and productivity, «Labour Economics», Vol. 47 (2017).
[11] André Gorz, Il lavoro debole. Oltre la società salariale, Edizioni Lavoro, Roma 1994.