Lavorare negli istituti di cultura: l’indagine di AICI
- 27 Novembre 2023

Lavorare negli istituti di cultura: l’indagine di AICI

Scritto da Andreas Iacarella

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Nel 2021 l’Associazione delle istituzioni di cultura italiane (AICI), con la collaborazione della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, ha promosso un’indagine sul lavoro culturale negli istituti associati, i cui risultati sono stati presentati durante la VII Conferenza annuale AICI (Napoli, 9-11 novembre 2022). Si tratta della seconda edizione di questa importante ricerca, a cinque anni di distanza dalla prima, che va a sondare un terreno che sfugge spesso al ragionamento pubblico[1].

Il lavoro culturale soffre infatti, nel nostro Paese, di una marcata incomprensione all’interno del dibattito nazionale, cui solo in parte riescono a rimediare le diverse ricerche che in questo ambito vengono condotte: da Impresa cultura, il rapporto annuale Federculture, a Io sono cultura, curato da Fondazione Symbola e Unioncamere, fino alle rilevazioni più spiccatamente rivendicative, come l’indagine Lavorare nel settore culturale dell’Associazione “Mi riconosci”.

All’interno di questo panorama, l’universo degli istituti di cultura italiani sembra andare incontro a un’invisibilità ancora più pronunciata: non è tanto la conoscenza delle singole realtà che manca, quanto piuttosto la capacità da parte di un pubblico ampio di identificare la natura profonda di queste istituzioni e delle loro attività, di collocarle all’interno di un quadro certamente eterogeneo e diversificato, ma con determinate caratteristiche comuni. La stessa realtà di enti di diritto privato che agiscono per la creazione di utile pubblico, nella forma di ricerca, approfondimento, formazione e promozione culturale, appare in fondo di non immediata comprensione da parte di un’utenza differenziata.

Per tentare di dissolvere questa opacità nasce l’indagine condotta da AICI e Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, che ha l’ambizione di restituire una sintesi quanto più possibile problematica e ampia del lavoro che si svolge all’interno degli istituti culturali, andandone a sondare i diversi aspetti (dimensioni, profilo, professionalità, condizioni di lavoro ecc.). Come scrive Natascia Nuzzo nella nota introduttiva al report di presentazione, l’obiettivo era quello di proporre «un quadro conoscitivo di base su cui innestare ogni altra riflessione e che fosse utile sia agli attori interni sia agli attori esterni per prendere consapevolezza dell’importanza, delle caratteristiche, dei punti di forza e di debolezza del settore» (p. 8). Aspetto questo che segna la peculiarità di questa indagine rispetto alle altre già citate: un approccio fortemente descrittivo e aideologico, che rifiuta ogni inquadramento predeterminato della questione, traendo al contrario origine proprio dall’esigenza di offrire elementi utili alla proposizione di nuove domande, con l’intento di sviluppare una riflessione di lungo termine.

Per la raccolta dei dati è stato ideato un questionario online sufficientemente esteso e centrato, con domande per lo più a risposta chiusa, che è stato rivolto nel periodo tra maggio e luglio 2021 a tutti i 139 enti allora soci dell’AICI[2]. Il tasso di risposta è stato del 65% circa (90 questionari validamente compilati), con una buona rappresentatività del campione preso in esame. Allargando lo sguardo oltre gli aderenti all’associazione, se consideriamo che la Direzione generale educazione, ricerca e istituti culturali del Ministero italiano della cultura ha finanziato per il triennio 2021-2023 un totale di 210 istituti[3] possiamo avere un’idea di come l’indagine offra una panoramica soddisfacente anche in rapporto al contesto nazionale complessivo. Da un punto di vista geografico, la maggiore concentrazione dei rispondenti è individuabile nel centro-nord della Penisola (con picchi nelle province di Roma, Torino, Milano e Firenze), con appena sei questionari provenienti dalle regioni meridionali. Ultimo elemento di contesto: la ricerca si è collocata temporalmente nel periodo della pandemia da Covid-19, questo ha portato a includere nel questionario alcune prime domande riguardanti gli effetti della situazione d’emergenza, nella convinzione però che eventuali ricadute in termini economici e occupazionali saranno visibili solamente in un periodo più lungo.

Vediamo ora con più attenzione la natura degli enti mappati, sulla base dei dati raccolti: tra i servizi offerti gli istituti annoverano l’organizzazione di eventi, mostre o convegni (la quasi totalità dei rispondenti), la presenza di una biblioteca (più del 90%), di un’attività editoriale (87%) e di un archivio (86%). Oltre i tre quarti sono inoltre impegnati in attività di ricerca e formative. A livello di orientamento disciplinare circa il 70% operano nell’ambito della storia moderna e contemporanea, ma rivestono una buona importanza anche le scienze politiche, l’economia, la sociologia, le arti e la letteratura. I fondi che consentono la realizzazione di queste iniziative provengono per il 49,9% da contributi pubblici (ministeriali, regionali o locali); la restante parte ha provenienza differenziata, di cui una buona fetta è rappresentata dai finanziamenti privati per progetti specifici (11,8%), dalle liberalità (8,7%) e dalla vendita di beni e servizi (8,4%).

Il numero di risorse umane impiegate all’interno di questi enti mostra una grande variabilità, da un minimo di 1 a un massimo di 150 unità. La media è di 18,7 persone, ma il 30,7% degli istituti si attesta su una cifra compresa tra le 6 e le 10 unità. Il campione ha preso dunque in esame un totale di 1.670 collaboratori divisi in 90 istituti; di questi 1.070 sono retribuiti, 331 volontari e 235 stagisti, tirocinanti, operatori di servizio civile.

La tipologia di rapporto di lavoro è dunque estremamente differenziata: il 26,8% dei dipendenti sono inquadrati con contratto a tempo indeterminato, il 18,1% operano in regime di lavoro autonomo o occasionale, il 17% con contratti di collaborazione, appena l’1,8% ha un contratto a tempo determinato. A ciò si aggiungono un 19,7% di volontari a titolo gratuito e un 13,9% tra borse di studio, stage, tirocini e servizio civile. Solamente il 2,2% degli enti è totalmente privo di collaboratori retribuiti, mentre più alta (14,4%) la quota di istituti privi di lavoratori con contratto subordinato.

Questa panoramica offre già una rappresentazione molto significativa della natura mista del lavoro culturale. Per approfondire ulteriormente il tema, e porre i dati in una dimensione temporale, potrebbe essere utile indagare per il futuro anche i percorsi all’interno dell’ente, verificare cioè in quale percentuale di casi si riscontra un passaggio da una prima collaborazione, delimitata nel tempo (stage, servizio civile ecc.), a forme più stabili e durature. Allo stesso modo, utile per mappare la mobilità lavorativa potrebbe essere il dato relativo agli anni di permanenza dei diversi lavoratori (dipendenti e non) all’interno dello stesso istituto.

Una caratteristica distintiva di questa indagine, rispetto ad altre dello stesso genere, è il focus posto sulla tipologia contrattuale adottata: il 41,4% degli enti applica in via esclusiva o prevalente il contratto del commercio; il 19,5% quello del terziario e dei servizi; solamente il 12,6% quello Federculture. Questo dato è particolarmente significativo, se consideriamo che il contratto Federculture è l’unico contratto collettivo nazionale pensato specificamente per i lavoratori del settore culturale. In una prospettiva di ulteriore problematizzazione del tema, sarebbe certamente interessante indagare le ragioni di queste scelte.

Per quanto riguarda le professionalità a disposizione, l’indagine registra una presenza significativa di ricercatori o studiosi, circa un quinto, inquadrati in quota maggiore come collaboratori retribuiti o borsisti, stagisti ecc. Rilevante anche la presenza di figure portatrici di competenze specifiche come bibliotecari e archivisti, in massima parte dipendenti o comunque collaboratori con retribuzione; così come di impiegati amministrativi, contabili, di segreteria (il profilo per il quale si riscontra la percentuale più consistente di dipendenti) e di ruoli di governo, tra i quali si osserva una predominanza di volontari. Tra le attività meno rappresentate quantitativamente: project manager, grafici e informatici. Al di là della distribuzione numerica, quanto colpisce è però la varietà di professionalità richieste, che segnala una complessità gestionale legata alla vastità di attività svolte: da quelle formative e di ricerca, a quelle comunicative e di organizzazione di eventi, alla conservazione e trattamento del patrimonio culturale, fino agli aspetti contabili, amministrativi, legali e progettuali.

Per quanto riguarda il titolo di studio, la stragrande maggioranza dei lavoratori, quasi i tre quarti, ha un titolo di laurea o post-laurea; il 62,9% ha una formazione di tipo umanistico. Il personale vede inoltre una distribuzione molto equilibrata per genere come anche per età (con un picco tra i 46 e i 59 anni, ma una presenza significativa per tutte le fasce dai 25 ai 66 anni).

Altro aspetto di particolare interesse dell’indagine è l’attenzione posta sulle opportunità di crescita professionale all’interno dell’ente: queste sono indicate come buone o nella media da circa i tre quarti dei rispondenti. Da notare come le possibilità di crescita percepite siano maggiori negli istituti più piccoli, rispetto a quelli più grandi. A fronte di ciò, quasi la metà dei compilatori indica che degli attuali dipendenti solo una quota compresa tra lo 0 e il 20% ricopre un ruolo più elevato rispetto a quello per il quale era stato assunto.

L’87% degli enti ricorre a collaborazioni esterne per attività che non riesce a svolgere con il personale interno. Queste riguardano in massima parte i settori più “tradizionali” del lavoro culturale (schedatura archivistica, catalogazione ecc.), ma si osserva una percentuale molto consistente anche per quanto concerne le attività legate all’informatica e alla digitalizzazione del patrimonio. È interessante confrontare questo dato con quello relativo alle esigenze future percepite, ovvero le figure professionali delle quali si ritiene si avrà maggiore necessità: ancora predominanti le professionalità che abbiamo definito “tradizionali” (bibliotecari, archivisti, catalogatori), ma una quota consistente ha indicato come prioritarie anche le figure legate alla comunicazione e ai social media. Significativo è come all’importante percentuale di collaborazioni esterne riscontrata nell’ambito informatico non corrisponda l’indicazione di una pari esigenza di tali figure per il futuro. Questo aspetto appare suscettibile di ulteriori indagini; pur con tutte le cautele nella lettura dei dati, esso potrebbe infatti segnalare un ritardo di riflessione circa le nuove tendenze del mondo culturale, rispetto alle quali la dimensione di costruzione digitale del patrimonio sta assumendo un un’importanza crescente, che non può più essere ridotto alla semplice copiatura massiva dei dati analogici[4].

Per approfondire quanto brevemente esposto, sarà innanzitutto utile confrontare i dati presentati con quelli relativi alla precedente edizione della ricerca, del 2017. Pur nella diversità dei caratteri delle due indagini (per periodo, oggetto, numero di rispondenti ecc.), alcuni elementi appaiono infatti significativi.

Relativamente alla natura e alle attività degli enti, colpisce come nel 2017 solo il 31,4% dei rispondenti indicasse tra i propri servizi l’organizzazione di eventi, mostre, conferenze o convegni e appena il 10% un’attività editoriale: il dato appare rivoluzionato nell’indagine 2022, come abbiamo avuto modo di vedere. Anche se le ragioni di questo mutamento potrebbero essere riconducibili alle differenti caratteristiche del questionario, l’elemento suggerisce di approfondire il tema dell’evoluzione delle modalità di interazione degli istituti con il contesto di riferimento.

Per quanto riguarda il personale, si osserva una continuità relativamente a titolo di studio, genere, età ecc. Allo stesso modo, si può rilevare una sostanziale somiglianza nella distribuzione delle risposte inerenti alla tipologia di rapporto di lavoro: il mutamento più consistente riguarda la forte diminuzione della quota di volontariato gratuito (dal 38,7 al 19,7%) e il contemporaneo aumento di quella relativa a lavoratori autonomi (dal 10 al 18,1%) e contratti di collaborazione (da 8,3 a 17%). L’altro elemento che vale la pena notare è quello relativo alla tipologia contrattuale applicata: in linea il dato relativo a Federculture (+0,1% nel 2022 rispetto al 2017), mentre risulta in forte diminuzione, anche se ancora predominante, quello del commercio (-22,9%) e in consistente crescita la quota occupata da terziario e servizi (+15,9%).

Quanto detto crediamo sia sufficiente per restituire lo scopo e il senso con il quale è stata ideata questa indagine. Come risulta da questa breve panoramica, le questioni chiamate in causa sono numerose e complesse: vanno dal tema dei servizi offerti, a quello della formazione delle professionalità, fino alle tipologie contrattuali e di lavoro adottate, e alle possibilità di crescita e mobilità per i lavoratori. Rispetto a questi ambiti la ricerca offre dei primi dati che potranno rappresentare la base per interrogarsi ulteriormente circa le ragioni, ideali o materiali, che guidano le scelte operative degli enti: quali concezioni del lavoro culturale sono promosse, in che misura esse si fondano su dati empirici e su tradizioni consolidate, fino a che punto la disponibilità di risorse esercita un’influenza rispetto alle azioni adottate.

Come già evidenziato, alcuni elementi appaiono suscettibili di ulteriore approfondimento; oltre a ciò risulta chiaro, ma forse inevitabile a questo livello di indagine, come la scelta di far compilare l’intero questionario al solo responsabile dell’organizzazione potrebbe impedire di verificare la presenza di eventuali problematiche, relative ad esempio al tema della crescita professionale all’interno dell’ente. Ma a parte questi spunti di discussione, la ricerca appare preziosa da più prospettive.

La scelta, ad esempio, di porre come centrale il tema del contratto non è affatto scontata e aiuta a nutrire la riflessione in questo ambito anche al di là del contesto strettamente rivendicativo. Potrebbe infatti favorire un ragionamento ampio, complessivo, sull’adeguatezza dei CCNL esistenti rispetto alle esigenze del mondo culturale e sulle eventuali riforme che potrebbero essere apportate, attraverso una discussione tra tutti gli attori in causa.

Altro elemento che emerge con forza dall’analisi è come il mondo degli istituti culturali sia composto di molto altro rispetto a quanto visibile più esteriormente, che potrebbe essere ridotto ai servizi offerti tramite biblioteche e archivi: il quadro di professionalità necessarie o ricercate, come quello delle attività intraprese, restituisce la vastità degli ambiti all’interno dei quali ciascun ente deve muoversi per promuovere le proprie finalità. Sottolinea inoltre come sia indispensabile, come per qualsiasi impresa culturale, poter avere a disposizione professionisti esperti e, preferibilmente, interni, che possano lavorare a stretto e continuo contatto e in sinergia all’interno di questa gestione articolata. Questo pone ovviamente un tema di sostenibilità, di fronte al quale le questioni aperte potrebbero essere molteplici, concernenti sia la costruzione del bilancio (fundraising, progettazione ecc.) sia la natura degli istituti (interconnessione e costruzione di reti di scambio e collaborazione sempre più strutturate).

In generale, l’immagine restituita dall’indagine è certamente quella di luoghi di crescita, nei quali l’ingresso può avvenire lavorativamente presto, negli anni immediatamente successivi alla conclusione di un percorso di laurea o post-laurea (la fascia d’età 25-31 anni è ben rappresentata, anche se con una buona percentuale di stagisti, tirocinanti ecc.). Restano tuttavia alcune evidenti criticità, come la quota non trascurabile di volontari a titolo gratuito all’interno di diversi profili professionali specializzati (ricercatori, organizzatori di eventi, bibliotecari, personale educativo, ruoli dirigenziali, ecc.), in massima parte con un’età dai 60 anni in su.

Tradizionalmente nel nostro Paese, questi enti potevano svolgere anche la funzione di luoghi di passaggio verso carriere accademiche; questo elemento sembra ora divenuto secondario, il che potrebbe offrire degli spunti interessanti relativamente al tema di come sta cambiando la ricerca italiana, al di fuori dei contesti universitari.

Attraverso questi pochi cenni, ci sembra di aver posto in luce alcune delle molte questioni che questo lavoro invita a scandagliare, confermandone l’importante valore di conoscenza rispetto a una realtà poco nota. Quella che emerge dai dati dell’indagine è un’idea forte degli istituti di cultura come luoghi di crescita, di formazione e, soprattutto, di lavoro. Non, dunque, semplici magazzini di conservazione, ma spazi di riflessione e di produzione culturale aperti e articolati. Un tessuto sociale, economico, lavorativo, umano che attraversa tutta la Penisola, costituendo una risorsa che dovrebbe sempre più uscire dalla sua relativa invisibilità, per entrare pienamente nella discussione e nel dibattito pubblico.


[1] Il report dell’indagine 2022 è raggiungibile al seguente link: https://www.iger.org/formazione/il-lavoro/. L’elaborazione dei dati è a cura di Natascia Nuzzo, quella grafica a cura di Virginia Todeschini. Dalla stessa pagina è possibile consultare i risultati della prima rilevazione, presentati durante la IV Conferenza annuale AICI (Trieste, 21-23 settembre 2017).

[2] Segnaliamo che, ad oggi, il loro numero è salito a 154 ed è in costante aumento.

[3] Si fa riferimento qui al contributo ordinario annuale dello Stato alle istituzioni culturali, ai sensi dell’articolo 1 della legge 17 ottobre 1996, n. 534.

[4] Ne è testimonianza, guardando all’Italia, la recente pubblicazione da parte dell’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale – Digital library, afferente al Ministero della cultura, del Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale 2022/2023. Si tratta di un primo quinquennale (2022-2026) che ha l’ambizione di indirizzare e guidare il processo di trasformazione digitale del patrimonio detenuto dai diversi istituti e luoghi della cultura italiani.

Scritto da
Andreas Iacarella

Laureato in Scienze storiche presso la Sapienza di Roma con una tesi di antropologia delle scritture personali. Svolge attività di ricerca presso il Gramsci centre for the humanities di San Marino e collabora a vario titolo con diverse riviste tra cui «Pandora Rivista», «Storiografia», «Il sogno della farfalla». Ha co-curato il volume collettivo “Conoscere per trasformare. La ricerca di Ernesto de Martino” (Left 2021), è inoltre autore di “Indiani metropolitani. Politica, cultura e rivoluzione nel ‘77” (Red Star Press 2018) e di diverse pubblicazioni sulla storia delle scienze della mente in Italia.

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