Le “Buone Scuole”: vent’anni di riforme incomplete. La riforma Berlinguer
- 19 Gennaio 2016

Le “Buone Scuole”: vent’anni di riforme incomplete. La riforma Berlinguer

Scritto da Domenico De Marco

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Il quadro normativo della scuola italiana nell’ultimo ventennio ha visto il susseguirsi di tentativi di riforma della struttura dell’intero sistema: tentativi che, come vedremo, da una parte hanno delineato fortemente volontà ideologiche, dall’altra si sono ispirati alla mera volontà di contenimento della spesa pubblica.

In questo contributo si cercherà di esaminare il quadro storico-istituzionale in una fase che ha segnato inesorabilmente il cambio di rotta dell’istruzione italiana: dalla riforma del ministro Berlinguer, con la legge n. 30 del 10 febbraio 2000, poi abrogata dalla legge delega n. 53 del 28 marzo 2003 coi successivi decreti attuativi1, meglio nota come riforma Moratti, alla riforma Gelmini, che ha modificato l’ordinamento dei licei e degli istituti professionali e tecnici attraverso il D.P.R. n.89, n.87 e n.88 del 15 marzo 2010, per giungere infine alla legge 13 luglio 2015, n. 107, promossa dal ministro Giannini, e giornalisticamente definita la “Buona Scuola”.

Al di là delle caratteristiche politiche e delle divergenze ideologiche, i provvedimenti elencati rispondono ad un comune orizzonte di intenti che la scuola italiana ha inteso raggiungere dotandosi di una normativa derivante dallo scenario europeo. Questa impostazione delinea una esigenza di investimento sul capitale umano, in conformità “all’adeguamento dei sistemi di istruzione e di formazione professionale”2, al fine di valorizzare la formazione lungo l’intero arco della vita. Facendo riferimento al tema dell’occupazione e della competitività, la Commissione Europea palesa l’esigenza per i cittadini di disporre di una formazione specializzata in continuo arricchimento. È proprio questo principio il riferimento da cui si è partiti per l’attuazione di un rinnovamento in seno ai paesi dell’Unione relativo al settore dell’istruzione.

Agli inizi del nuovo millennio si inaugura la svolta per le politiche comunitarie in tema di formazione, quando il nuovo fermento riformatore prende forma nel Consiglio Europeo di Lisbona3 in cui si ribadisce il principio della sussidiarietà, della cooperazione internazionale e del rispetto delle peculiarità delle singole Nazioni. È proprio in questo passaggio che si rafforza l’attenzione sulla formazione e sulla conoscenza lungo tutto l’arco della vita. È questa istanza più delle altre a determinare il ripensamento dei sistemi di formazione, ripensamento che non ha riguardato invece direttamente i contenuti curricolari della didattica, espressione questa del tessuto identitario e culturale di ciascun Paese.

Le strategie innovative, che hanno come perno l’adeguamento degli apprendimenti adeguati ai soggetti nelle diverse fasi della vita, includono anche le nuove competenze4 offerte da centri territoriali, inseriti in una rete ampia, a dimensione europea, attraverso l’uso delle nuove tecnologie.

Negli anni 1975-1995 le azioni di riforma avevano riguardato in particolare il ciclo della scuola primaria, senza apportare grandi cambiamenti all’intero impianto strutturale. Infatti è stato questo il periodo delle sperimentazioni portate avanti dalle amministrazioni scolastiche, sperimentazioni che non appartenevano ad un sistema di riforma complessivo e quindi prive di obiettivi comuni e poco rispondenti alle reali esigenze che il comparto richiedeva.

La prima e forse più ardita azione riformatrice in Italia è stata quella proposta dall’allora ministro Luigi Berlinguer, che ha cercato di dare concretezza al progetto di ammodernamento dei sistemi di istruzione e di formazione professionale in discontinuità rispetto ai timidi e spezzettati interventi dei precedenti governi, proponendo di superare le istanze gentiliane5 per incontrare quelle europeiste. La riforma Berlinguer presentava una struttura complessiva, attuata attraverso la strategia da lui stesso definita “a mosaico”: un insieme organico di interventi normativi capaci di delineare un nuovo percorso di studi a partire dalla scuola dell’infanzia (dai 3 ai 6 anni) sostanzialmente inalterata, ma sottoposta ad un monitoraggio di competenze da parte del Servizio Nazionale per la Qualità, con relativa certificazione di crediti di frequenza; scuola di base (dai 6 ai 13 anni), strettamente collegata alla secondaria di I grado, ed articolata in due bienni ed un anno conclusivo che si sarebbe dovuto raccordare, attraverso la progettazione condivisa dei piani di studio tra il coordinatore della classe V e il consiglio di classe della prima media, allo scopo di costituire un altro biennio di preparazione all’anno conclusivo della scuola dell’obbligo, per arrivare fino alla secondaria di secondo grado, e che includeva anche la fase del post-diploma, dell’educazione degli adulti e dell’università. È proprio l’inclusione dell’educazione degli adulti, benché non rispecchi il passaggio più rappresentativo di questo percorso normativo, a rappresentare l’istanza innovativa e inclusiva di quegli aspetti europeisti prima analizzati.

A dettare il passo verso questo “comune sentire”, che doveva passare anche attraverso l’armonizzazione dei sistemi formativi, visto che i sistemi economici si erano incontrati proprio nella moneta unica, è stata l’euforia europeista.

Uno dei concetti che forse più di tutti riesce a caratterizzare la riforma innovativa di Berlinguer è quello di “pluralismo”: un sistema che nasce dalla concertazione di diversi punti di vista a cui era doveroso indirizzare questa veste innovatrice. Da qualunque piano la si voglia analizzare infatti, la 30/2000 “legge quadro in materia di riordino dei cicli scolastici” mostra un comune denominatore che trova nell’assetto pluralista la sua concretezza. Questa direzione è ad esempio evidente nell’allargamento dell’offerta formativa, non più legata al conservatorismo, ma aperta, rispondente alle nuove esigenze che la scuola europea richiedeva in un quadro di riorganizzazione dei sistemi di formazione culturale.

Altra direttrice fondamentale della legge riforma 30/2000 è rappresentata dall’autonomia scolastica. Infatti l’intero piano della riforma si attua attraverso l’autonomia delle istituzioni scolastiche, inserita nel disegno più generale di riforma della Pubblica amministrazione, delineata dalla legge delega n. 59/97 promossa dal ministro della Funzione pubblica Bassanini, che aveva come obiettivo il decentramento amministrativo e il trasferimento di funzioni dallo Stato agli enti locali. È in questo contesto normativo che va considerato l’articolo 21, che istituisce proprio l’autonomia scolastica. Alle scuole, attraverso il regolamento della autonomia (dpr 275/99), vengono da un lato affidati una serie di poteri in materia di organizzazione della didattica, di ricerca e di sperimentazione, funzionali alla progettazione e alla realizzazione dell’offerta formativa, dall’altro lato le istituzioni scolastiche diventano l’elemento centrale del sistema di governance territoriale basato sul rapporto con gli enti locali.

Se la riforma della scuola di Berlinguer fosse entrata in vigore a pieno regime avremmo avuto una struttura organizzativa cosi delineata: la scuola primaria raccordata a quella media di primo grado sarebbe durata 7 anni in totale con l’eliminazione dell’ultima classe delle medie. Per completare l’iter (dai 13 ai 15 anni), sarebbe seguito poi un biennio di liceo con insegnamenti comuni, in uno dei 40 indirizzi attivati ed articolati secondo l’area classico-umanistica, scientifica, tecnico-tecnologica, artistica e musicale. La formazione dell’adolescente (15-18 anni), nel caso mancasse il desiderio di proseguire gli studi presso uno dei licei sopra indicati, poteva essere completata presso Enti Regionali deputati alla formazione professionale obbligatoria. Nel mosaico riformatore prendeva forma l’idea di un sistema di istruzione integrato con il sistema formativo, resa possibile con l’art. 68 della legge 144/98 che prevedeva che uno studente venisse considerato in obbligo formativo sino al compimento dei 18 anni. Si può evincere un cambiamento di rotta rispetto all’obbligo scolastico, inteso come obbligo di seguire una didattica tout court: secondo la 30/2000 viene abbassato da 18 a 15 anni, ma nei tre anni scontati i ragazzi che avessero scelto di non continuare avrebbero comunque avuto un altro obbligo, quello formativo: ovvero imparare un mestiere.

L’obbligo formativo avrebbe rappresentato un trampolino di lancio nel mondo del lavoro, avrebbe fornito agli studenti un percorso, un orientamento di indirizzo per poter capire cosa sarebbe stato del proprio futuro. Ritroveremo infatti questo concetto di obbligo formativo nella scuola di Renzi-Giannini, ma con una diversa accezione lessicale: si parla di “alternanza scuola-lavoro”, ma il concetto resta pressoché immutato. L’obbligo formativo di Berlinguer, allo stesso modo dell’alternanza scuola-lavoro di Stefania Giannini, rappresentano di fatto un collegamento con il mondo del lavoro da attuarsi mediante una formazione che oltre ai contenuti didattici possa fornire reali competenze. Tale sistema dovrebbe aiutare i ragazzi a superare quella voragine tra il mondo della scuola e quello del lavoro, spesso mancanti di raccordi e di orientamenti comuni.

Un aspetto assolutamente interessante della 30/2000 appare sicuramente la “licealizzazione” dell’istruzione di secondo grado, che di fatto ha svilito la specificità della formazione tecnica e professionale. È proprio questo il punto più criticato dell’intera riforma: l’istruzione tecnica e professionale, fiore all’occhiello del Paese fino ad allora, subisce una battuta d’arresto proprio perché vengono istituiti degli indirizzi liceali anche per le specializzazioni tecniche e professionali. La molteplicità di facies della scuola secondaria (40 tipi di licei) non nobilita l’istruzione e non amplia i curricoli.

In relazione agli aspetti innovativi della struttura universitaria possiamo ben dire che il modello organizzativo della riforma Berlinguer si poneva come obiettivo quello di rispondere alle esigenze di adeguamento che l’Europa chiedeva relativamente ai saperi specializzati. Infatti la legislazione (ancora in vigore) relativa alle università nella 30/2000 pare intercettare la necessità di equiparare i titoli ed i periodi di studio italiani di alta formazione con quelli europei, distinguendo tra lauree triennali e specialistiche biennali.

Emerge invece dalla Riforma Berlinguer il persistere di un certo centralismo, mantenuto in piedi dalla dipendenza delle istituzioni scolastiche dal Ministero, parzialmente ammorbidito dalle maglie flessibili della ormai collaudata autonomia scolastica (legge 59/1997). La logica della riforma dei cicli, tuttavia, manifesta una forte incoerenza strutturale con le trasformazioni giuridiche del Titolo V della Costituzione (Legge n. 3 del 18 ottobre 2001)6, che definisce sotto una luce diversa il ruolo delle Regioni come titolari del potere di legiferare in materia di istruzione e formazione professionale, con piena sovranità, fatte salve le norme generali dell’istruzione. Per quanto riguarda la gestione, l’organizzazione e la regolamentazione delle scuole, gli Enti Regionali vengono così investiti della facoltà di legiferare in maniera concorrente a quella dello Stato, nel rispetto dell’autonomia scolastica.

Il cambio di rotta tra i due provvedimenti (riforma Berlinguer, che interessava solo scuola e Ministero, e riforma della Costituzione, che trasforma il rapporto tra Regioni ed Istituti professionali) è dato dalla legge di modifica costituzionale il cui scopo persegue l’attuazione del maggiore coinvolgimento degli Enti Locali, la devolution (bocciata tuttavia dal referendum confermativo del 25/06/2006), e del federalismo. La contraddizione tra la legge 30/2000 ed il nuovo Titolo V del 2001 lascia in sospeso la responsabilità regionale in materia di formazione. La legge Berlinguer, infatti, non poteva assumere la modifica Costituzionale semplicemente per una discrasia temporale, essendo anteriore alla modifica del Titolo V. La confusione normativa, ancora una volta, pone la scuola ostaggio di una distinzione vetusta tra obbligo scolastico, diritto-dovere alla cultura ed alla promozione della persona, e obbligo formativo come una sorta di apprendistato strumentale.


Continua: Le “Buone Scuole”: vent’anni di riforme incomplete. Seconda parte: le riforme Moratti e Gelmini


1 Per la lettura della “Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli professionali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale” che raccoglie i decreti legislativi emanati dal 2004 al 2005, si può consultare il sito http://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/030531d.htm.
2 COM (93) 457, settembre 1993. Successivamente questo documento viene integrato da Istruzione-Formazione-Ricerca. Gli ostacoli alla mobilità transnazionale, COM (96) 462 ottobre 1996. In materia di istruzione e formazione giovanile la Commissione elabora un altro documento, Per un’Europa della conoscenza, (COM 97 /563, del novembre 1997), che sintetizza i risultati ottenuti dai programmi “Socrates” “Leonardo da Vinci” e “Gioventù per l’Europa”, si veda infra.
3 Il Consiglio Europeo si riunisce nella capitale portoghese nei giorni 23-24 Marzo 2000: dal dibattito emergono alcune improrogabili priorità, come quella di conciliare occupazione, riforme economiche, giustizia e coesione sociale. Per un quadro delle conclusioni del Consiglio è possibile consultare il sito: http:/www.europa.eu.int/comm/lisbon_strategy/index_en.html.
4 Sulla definizione delle competenze il dibattito è di interesse transnazionale. A titolo esemplificativo un inquadramento generale sulla questione è dato da PURICELLI E., La certificazione delle competenze. Un nodo epistemologico, in “Nuova Secondaria”, 8, 15 aprile 2010, pp. 22-24 Egli definisce le competenze come una categoria di apprendimenti, che mettono in relazione la persona con il mondo, ed in quanto tali incompatibili con una misurazione oggettiva. Questo filone di pensiero, elaborato dal CQIA di Bergamo, a cui aderisce l‟autore, parte dall’analisi fattoriale dei gesti esibiti dal soggetto, per tracciare la “morfologia personale della competenza”, attraverso un sistema di indici (reazione personale distinta da quella tipica; background culturale; relazione col compito in situazione). La questione appare cruciale sia per quanto riguarda la sua incidenza sugli obiettivi del sistema scolastico e universitario che per quanto riguarda le prospettive degli studi sullintercultura.
5 M. Moretti, Scuola e università nei documenti parlamentari gentiliani, in Giovanni Gentile, filosofo italiano: 17 giugno 2004, Roma, Sala Zuccai, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004.

6 Per una lettura di carattere generale della Riforma dell’articolo 117, si veda BARBERIO CORSETTI L., La riforma del Titolo V della Costituzione, in “Nuova Secondaria”, 4, dicembre 2001, pp. 9-13.

Scritto da
Domenico De Marco

Nato nel 1979 a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Da oltre dieci anni vive a Roma dove lavora nella scuola come insegnante di lettere. E’ attivo in numerosi progetti di integrazione e scolarizzazione di ragazzi stranieri nelle periferie romane.

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