Recensione a: Giulio Azzolini, Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 188, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Giacomo Bottos
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Cosa sono le élite oggi? Chi ne fa parte? Come sono composte a livello globale? Come emergono e che legittimità hanno? In che modo si rapportano con il resto della società e che modello di sviluppo promuovono? Sono domande fondamentali, al punto che abbiamo deciso di dedicare un intero numero cartaceo della nostra rivista alla riflessione su di esse. E sono domande che si pone anche, con competenza, rigore e padronanza della letteratura in materia, Giulio Azzolini nel suo libro uscito per l’editore Laterza.
Il volume, pur agile nelle dimensioni, si pone un fine ambizioso. Affrontare il tema delle élite, infatti, come ben comprende chi ha una qualche dimestichezza con la materia, porta a confrontarsi con una gran mole di questioni. Questo è vero a maggior ragione se si considera che l’autore si prefigge un duplice obiettivo. In primo luogo il volume contiene una discussione teorica del problema, che viene condotta attraverso un confronto serrato con gli esponenti della teoria delle élite – Mosca, Pareto, Gramsci, Dorso, Schumpeter, Wright Mills, Dahl solo per citarne alcuni –, nonché con numerosi filosofi politici e politologi non solo novecenteschi. La discussione dei problemi connessi al ruolo delle élite conduce infatti al cuore dei principali problemi della teoria politica: la natura della democrazia e della rappresentanza, della modernità e della postmodernità, dell’uguaglianza e del merito. A questo genere di discussione si affianca e si intreccia il tentativo di inquadrare le trasformazioni a cui le élite sono andate incontro negli ultimi decenni, segnatamente in corrispondenza delle trasformazioni apportate dal neoliberismo e dalla globalizzazione (più precisamente: da quel tipo di “iperglobalizzazione” – per usare la categoria proposta da Dani Rodrik – che a tali trasformazioni si accompagna). Questo genere di analisi ci pone infine di fronte ai problemi cruciali che deve affrontare chi voglia oggi tentare di comprendere il presente e, ipoteticamente, intervenire in esso.
Che il libro non tratti di concetti disincarnati è infatti evidente fin dall’introduzione, che rievoca la nuova giovinezza che i concetti di élite e classe politica hanno conosciuto a partire dal 2007, declinati in molte diverse maniere. Dal successo de La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che anticipava l’ascesa del Movimento 5 Stelle alla protesta degli indignados spagnoli, che a sua volta aprì la strada a Podemos, a Occupy Wall Street fino alla crescita del Front National, la critica veemente dell’establishment, variamente definito e dai mutevoli contorni, ha conosciuto una grandissima – e trasversale – diffusione.
Ma se nel fuoco della lotta politica questi significati tendono a fondersi e a slittare a vicenda l’uno verso l’altro, precisarne e delinearne il senso nell’ambito più rarefatto della scienza politica è tutt’altro che facile. I significati di termini come classe politica, élite e classi dirigenti si intersecano tra loro dando luogo a complessi problemi interpretativi. Tali problemi sono amplificati dal fatto che in gioco non è soltanto una questione linguistico-definitoria: il senso dei termini muta sia in base alle opzioni teoriche adottate sia in relazione ai mutamenti storici e al relativo cambiamento dell’oggetto di indagine, la politica e la società. Un’analisi fondata richiede dunque non solo un chiarimento concettuale ma anche una storicizzazione dei concetti stessi.
La teoria delle élite
La storia di questi concetti inizia da un lato con Max Weber e la sua idea di professionismo politico e dall’altro con i fondatori dell’elitismo, Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, e con la loro intuizione che, al di là delle diverse forme di governo, sia sempre una minoranza a detenere il potere. La teoria delle élite si sviluppa poi nella tradizione italiana – dove la scoperta del fatto oligarchico viene accolta e diversamente declinata da autori di orientamento molto diverso, dai citati Mosca e Pareto a Gobetti e Dorso, a Gramsci, a Carlo Rosselli e a Luigi Einaudi – ma anche in quella americana, con autori come Charles Wright Mills e Robert Dahl. Al fondo, resta l’idea fondamentale, semplice quanto potente, che una minoranza organizzata riesca pressoché sempre ad avere ragione di una maggioranza che non lo sia.
Il primo grande mutamento di cui la teoria delle élite, nella sua evoluzione storica, deve dare conto è l’avvento della democrazia di massa, ancora solo incipiente all’epoca della riflessione dei primi elitisti e nei confronti della quale i conservatori Mosca e Pareto nutrono una forte diffidenza, diffidenza che verrà declinata da Robert Michels con riferimento al partito politico applicando ad esso la “legge ferrea dell’oligarchia”. È a questo genere di positivismo, che si propone di ritrovare nella realtà sociale “leggi” immutabili a prescindere dal mutare delle condizioni storiche e delle concrete dinamiche sociali, che si rivolge la critica di Gramsci che, pur riconoscendo il “fatto oligarchico” esprime l’esigenza di un’analisi più determinata e storicamente corposa delle modalità differenti con cui, via via, dalle masse emergono gruppi dirigenti di diversa composizione, estensione, ideologia e modus operandi. L’introduzione del concetto di egemonia permette infatti un approfondimento sostanziale della teoria, mettendo al centro l’analisi delle modalità con cui una classe può essere non solo dominante, ma anche dirigente, producendo le condizioni del consenso nei confronti dell’esercizio del proprio stesso potere. Un altro apporto importante alla teorizzazione delle élite proviene da Guido Dorso, che insiste sull’importanza e suo ruolo delle élite non strettamente politiche (economiche, professionali, scientifiche ecc.) mettendo in evidenza un tema che avrebbe assunto col tempo un’importanza sempre maggiore.
Vanno poi ricordati altri due dibattiti concettualmente rilevanti per la teoria delle élite. Uno di essi riguarda la natura monistica o pluralistica delle élite e può essere paradigmaticamente esemplificato dalle due opposte posizioni di Wright Mills e di Dahl: mentre il primo riteneva che i diversi settori delle élite (economico, politico, militare, dell’informazione ecc.) avessero finito per convergere in un unico establishment ideologicamente e socialmente detentore di un potere de facto pressoché illimitato, il secondo vedeva nelle democrazie moderne (e segnatamente negli Stati Uniti) degli esempi di poliarchie in cui élite animate da interessi diversi competevano e si scontravano tra loro. Il secondo dibattito, in parte legato a questo, concerneva la compatibilità tra prospettiva elitista e teoria della democrazia, compatibilità affermata, ad esempio, nella prospettiva schumpeteriana. Un’ultima questione riguarda invece il carattere nazionale che la funzione di guida della società aveva assunto nel Novecento e come la messa in questione di questo carattere rimetta in gioco il ruolo delle classi dirigenti.
Le élite tra potere della globalizzazione e globalizzazione dei poteri
Nel secondo e nel terzo capitolo del libro, infatti, entra in gioco il secondo grande cambiamento epocale che muta l’asse della problematica che la riflessione sulle élite deve affrontare: la globalizzazione dell’ultimo quarantennio. Il potere della globalizzazione e la globalizzazione dei poteri sono le due facce di questa medaglia. La questione della globalizzazione e del passaggio alla postmodernità viene affrontata dall’autore anche dal punto di vista della crisi della ragione cartografica e del passaggio dal paradigma della mappa a quello della sfera, con un richiamo alle analisi di Franco Farinelli e altri. La crisi della raffigurazione del mondo propria della modernità inaugurata da proiezione, prospettiva e spazio cartesiano si riflette anche nel modo di pensare lo spazio della politica e il rapporto tra territorio e potere. Continuità, isocronismo e omogeneità, caratteristiche dello spazio moderno, vengono destituite nel nuovo modello, sferico, reticolare e deterritorializzato proprio della globalizzazione post-moderna.
In questa congiuntura storica, che non rappresenta un destino metafisico ma che corrisponde a profonde trasformazioni dell’economia capitalistica (fine di Bretton Woods, liberalizzazione dei movimenti di capitale, crescente apertura dei mercati ecc.) e della situazione geopolitica, emergono nuovi tipi di élite, che concepiscono se stesse in maniera differente rispetto alle precedenti classi dirigenti. Se nel contesto dei “trenta gloriosi” le élite politiche e quelle economiche potevano pensare di contemperare i propri interessi in una sintesi virtuosa che potesse essere presentata come tale da arrecare benefici anche alla società nel suo complesso, configurandosi dunque genuinamente come classi dirigenti, con la crisi di questo modello le élite economiche tendono innanzitutto a considerarsi come gruppi di pressione o di interesse, non direttamente vincolati alla definizione di un’idea di bene comune o di interesse collettivo, né esplicitamente impegnati sulla scena pubblica, ma piuttosto dedite a “influenzare” il governo e, più in generale, la classe politica, sulla base dei propri particolari interessi. L’autore adopera le categorie gramsciane per affermare che questi gruppi non ambiscono ad essere dirigenti per limitarsi ad essere dominanti. In questo contesto si verificano fenomeni potenzialmente critici, su cui ha attirato l’attenzione Michael Walzer, come la sempre maggiore convertibilità del potere economico nel potere politico, che porta a una tendenziale corruzione di quest’ultimo. Se dunque il potere economico non si pone il problema della propria legittimazione limitandosi a “premere” sul potere legittimo, al tempo stesso contribuisce ad una progressiva perdita di legittimità anche da parte di quest’ultimo.
Questo cambiamento è ovviamente legato ad un mutamento della struttura tanto delle imprese quanto della politica. Le aziende, nel money manager capitalism, modificano la propria agenda di priorità mettendo al primo posto la massimizzazione di valore per gli azionisti e riconfigurano la propria struttura organizzativa attraverso scomposizioni della propria catena produttiva ed esternalizzazioni che le trasformano in una mera “rete di contratti”, dando vita a quella “impresa irresponsabile” di cui ha parlato Luciano Gallino. La politica, al tempo stesso, nel fronteggiare la crisi delle proprie forme organizzative e nel misurarsi con processi che travalicano la scala nazionale vede aumentare le proprie necessità di finanziamento ed è dunque portata a rivolgersi sempre di più al settore privato, incrementando la propria dipendenza da quest’ultimo.
La crescita dimensionale delle grandi imprese e il loro assumere in maniera crescente una scala globale porta alla nascita di una “classe dominante globale”, una superclass – per usare la definizione di David Rothkopf – unificata da omologie funzionali, culturali ed esperienziali: il ricoprire gli stessi ruoli, il condividere una cultura comune e il ritrovarsi con frequenza nei medesimi luoghi di incontro. Di questa classe globale fanno parte certamente i proprietari delle grandi imprese, i loro manager e i gestori dei fondi finanziari, oltre che taluni esponenti politici e del mondo dell’informazione.
Le classi dirigenti e la politica
Ma quali sono le modalità attraverso cui il potere di queste classi dominanti si esercita? Innanzitutto attraverso il potere strumentale, ovvero il lobbying, la cui incidenza negli ultimi decenni è costantemente cresciuta. Il secondo luogo attraverso un potere discorsivo, ovvero la capacità di promuovere una determinata impostazione culturale di tipo neoliberale alle questioni. Infine va ricordato il dominio strutturale, dato dall’asimmetria tra la scala globale e deterritorializzata delle imprese e quella territorialmente vincolata della politica, asimmetria che è ad un tempo causa effetto di pratiche come il regime shopping, l’elusione fiscale, e il “controllo dei mercati” sulle politiche fiscali.
Sul versante della politica, Azzolini richiama due tendenze che corrispondono a tali processi e che sono sintoniche tra loro: la personalizzazione e la crescita del ruolo dei tecnici. Si tratta di tendenze su cui molto si è scritto e che segnalano un’implosione delle classi dirigenti. In questo contesto il compito primario dovrebbe essere, più che rivendicare il primato della politica, innanzitutto difenderne l’autonomia, autonomia che i processi descritti minacciano e mettono in discussione. Questa è una condizione irrinunciabile ma solo preliminare per la realizzazione di programmi che vanno poi declinati nello specifico. In particolare, ci si pone la domanda ormai consueta sul perché un contesto di così profonde disuguaglianze e squilibri non abbia consentito e favorito una “rinascita della sinistra” e la risposta viene trovata, ancora una volta, sul piano culturale per quanto una reazione, dalla crisi ad oggi, quantomeno sul piano intellettuale, vi è stata, come è dimostrato dalla “fortuna degli studi di Thomas Piketty e Mariana Mazzucato”. Con un breve accenno al dibattito tra Wolfgang Streeck e Jürgen Habermas su quale sia la prospettiva da adottare, se nazionale o sovranazionale – e chiedendosi se questa non sia un’alternativa di retroguardia quando il problema è piuttosto quello di mettere in campo nel contesto attuale “un’analisi realistica dei fatti e dei fini”, si conclude il libro.
Come si vede, le questioni sollevate sono molte e cruciali, dimostrando ancora una volta la centralità della questione delle élite (e delle classi dirigenti) nell’analisi del presente. Il merito del libro, ancora prima che nella molteplicità di analisi specifiche che propone, nella ricchezza di riferimenti bibliografici e nello sforzo di coniugare discussione di prospettive teoriche diverse e analisi storica, va ricercato nell’intento di porre al centro questo tema e di restituirne la complessità. È infatti soltanto recuperando la consapevolezza di quanto sia decisivo il ruolo di classi dirigenti in grado di operare in modo differente rispetto a quello delle élite attuali – ben descritto nel libro – e capaci di restituire un senso ad una partecipazione ed inclusività democratiche, che molti dei più gravi problemi del nostro tempo potranno essere affrontati efficacemente.