Scritto da Gianluca Piovani
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Viene da chiedersi però, passato il momento dell’emergenza, quando e se finalmente arriverà il turno di pagare per i soggetti economici più forti. Si è spesso affermata una narrazione secondo la quale la crisi sarebbe colpa dei lavoratori, della loro inefficienza e “pigrizia”, nonché degli sprechi della spesa pubblica. Certamente esistono diversi del genere. D’altra parte assistere a una dialettica così critica verso le posizioni dei salariati e dello stato sociale lascia molto perplessi qualora si rifletta sulla mancanza di un giudizio altrettanto severo quando si parla di imprese. Grandi multinazionali come Google ed Apple praticano arbitraggi fiscali a dir poco clamorosi e sono in grado di eludere il fisco ricorrendo a transfer price dubbi per somme consistenti. Siamo certi che andare in pensione a 67 anni ed abolire l’articolo 18 per incentivare l’attività economica di soggetti che fanno un ricorso massiccio all’esternalizzazione (con il risultato che spesso il lavoro è svolto con costi e tutele irrisorie) e all’elusione fiscale (si pensi al caso irlandese) sia il modo migliore per costruire il modello di società e di futuro migliore per noi e per i nostri figli? Se da un lato la tecnologia indubbiamente progredisce sembra d’altro lato che un sempre maggiore sacrificio sia richiesto alla classe lavoratrice. Che senso ha? Dov’è il benessere che dovrebbe creare il progresso tecnologico?
È giusto tenere conto delle esigenze del sistema economico e delle istanze che provengono dalle aziende. Ciò storicamente avviene nel dibattito politico scendendo a compromessi tra chi rappresenta i diversi interessi presenti nella società. Negli ultimi anni invece una logica di paura e di sacrifici necessari ha estromesso la rappresentanza di una parte della società dal confronto politico e a livello globale il potere contrattuale si è notevolmente spostando verso la parte di chi ha di più. La tecnologia sta esasperando questa situazione perché, rendendo meno necessario il lavoro umano, sposta l’equilibrio tra domanda e offerta sul mercato del lavoro a favore delle imprese.
Questo processo politico di redistribuzione delle ricchezze ha anche ricadute economiche su cui occorre riflettere. L’eccesso di diseguaglianze all’interno della società mina lo stesso corretto funzionamento dell’economia: coloro i quali hanno un reddito alto spendono una frazione inferiore per i consumi e ne risparmiano invece una parte consistente e molto più ampia di quella di un appartenente alla classe media o bassa. Non sarà una ristretta élite di ricchi ad alimentare i consumi se la massa dei consumatori sarà troppo povera per consumare.
In conclusione la diseguaglianza non esiste di per sé ma è una conseguenza delle politiche che vengono adottate per definire gli assetti proprietari e del mercato del lavoro. L’emergere sempre più forte del problema della diseguaglianza pone sia interrogativi morali riguardo la divisione della ricchezza sia economici riguardo la sostenibilità del consumismo in una realtà economica sempre più polarizzata. Per questi motivi la progressiva scomparsa della sinistra dallo scenario politico è un problema anche economico in quanto aumenta lo squilibrio nella contrattazione politica per la definizione degli assetti proprietari e li rende sempre più diseguali.