Scritto da Samuel Boscarello
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Di frequente, nell’opinione pubblica si manifesta la diffusa percezione secondo cui l’impresa cooperativa sia un modello irrimediabilmente in crisi. Questa narrazione mette soprattutto in discussione la fedeltà del movimento cooperativo rispetto a quel complesso di valori che lo hanno animato sin dalle sue origini. Si potrebbero citare numerose tracce di questa vulgata, tanto nelle dichiarazioni pubbliche di esponenti politici a vari livelli, quanto nei prodotti editoriali di giornalisti e opinionisti. Per ragioni di brevità, si rimanda ad un’incisiva disamina del fenomeno contenuta nell’introduzione di Cooperative da riscoprire. Dieci tesi controcorrente (Donzelli 2018), a cura di Carlo Borzaga. In sostanza, l’impianto accusatorio che ne deriva si può sintetizzare nel seguente modo: la cooperazione odierna sarebbe ormai incapace di prestare fede all’etica che dovrebbe ispirarla. Ciò sarebbe dovuto ad una presunta inadeguatezza rispetto alle trasformazioni socioeconomiche avvenute negli ultimi decenni, che avrebbero esercitato sulle cooperative una crescente pressione ad omologarsi a valori incompatibili con quelli mutualistici. Per di più, alcuni fatti di cronaca avvenuti negli ultimi anni sembrano in apparenza confermare le più fosche previsioni. In rapida sequenza, lo scandalo “Mafia Capitale” e i crac di varie banche popolari hanno investito sia un settore giovane per la storia della cooperazione – l’accoglienza –, sia uno dei suoi pilastri più antichi. Ad una prima lettura, ciò non farebbe che avvalorare una sorta di “mito dell’età dell’oro” del movimento cooperativo: l’idea secondo cui sia esistito un passato glorioso in cui la cooperazione prosperava ed era fedele alla sua identità. Glorioso, sì, ma ormai tramontato – o mortalmente insidiato.
Questa percezione corrisponde alla realtà? Negli ultimi anni, qualcosa si sta muovendo in senso opposto. Il volume curato da Borzaga è un primo importante tassello nella decostruzione del mito. Pur non sottovalutando i nodi critici – ad esempio il fenomeno delle false cooperative –, l’opera si è incaricata di mettere in discussione dieci tra i più diffusi luoghi comuni sullo stato di salute corrente della cooperazione, dall’efficienza della governance sino alla qualità del lavoro e agli aspetti finanziari.
Il passo successivo consiste nel porre in prospettiva temporale questo ragionamento. Se ripercorriamo a ritroso la storia del movimento cooperativo, non ci ritroveremo affatto a risalire un fiume cristallino alla sorgente, ma che via via diventa più torbido e inquinato fino a disperdersi in una foce paludosa e malarica. Al contrario, costeggeremo lungo tutto il tragitto un panorama assai frastagliato, punteggiato di anse limacciose e acque limpide, mulinelli e guadi, canali secondari che si disperdono nel nulla e affluenti che lo ingrossano. Fuor di metafora, la buona e la cattiva cooperazione hanno sempre convissuto in un processo incrementale di aggiustamento. Analogamente, non è mai esistito un empireo della cooperazione, completamente separato dalle altre forme d’impresa. Le cooperative si sono sempre confrontate e “contaminate” con le società di capitali, senza che da ciò derivasse necessariamente un tradimento dei propri valori. Al contrario, spesso proprio da queste congiunture sono derivate fasi di grande sviluppo e innovazione per il movimento cooperativo stesso.
Naturalmente bisogna discernere con attenzione. Innanzitutto, le false cooperative sono sempre esistite. Sin dal principio, vale a dire dal XIX secolo, sono state percepite come un corpo estraneo nel movimento e in quanto tali attivamente combattute. Esistono numerose testimonianze in tal senso. Una delle più interessanti proviene da Credito e Cooperazione, l’organo di stampa delle banche popolari italiane. Nel marzo 1890 due importanti cooperatori (il milanese Pietro Manfredi e il casertano Onorato Cassella) avviarono una campagna contro le false cooperative. La ragione era presto detta. «La cooperazione diventa un po’ oggi di moda», scriveva il giornale, pertanto talvolta i tribunali registravano «società che di cooperativo non hanno che il nome e la maschera». È sorprendente quanto fossero simili, rispetto ad oggi, le modalità con cui già allora prendeva corpo il fenomeno: «Peggio poi quando l’insegna della cooperazione non serve che a mascherare speculazioni ingorde. Non di rado vediamo nomi di uomini avariati, compromessi nei peggiori affarismi delle società anonime, ricomparire con progetti di sedicenti Società cooperative»[1].
Il problema non era limitato all’Italia. L’economista Ugo Rabbeno, nello studiare le cooperative di produzione statunitensi, si imbatté in realtà ammirevoli di autogestione operaia che talvolta somigliavano molto a ciò che oggi chiamiamo workers buyout, ossia imprese acquistate dai dipendenti per salvarle dalla chiusura. Ma a fianco di esse non mancavano cattivi esempi di cooperative in tutto e per tutto uguali alle imprese padronali: operai scontenti, vertenze sindacali, azionisti che tenevano per sé tutti i profitti[2].
Poteva poi accadere che una cooperativa non nascesse necessariamente corrotta, ma lo diventasse con il passare del tempo. Oppure, più semplicemente, che dopo un po’ si trasformasse in una società di capitali. Per il primo insieme vale la pena citare il caso della Cooperativa dei muratori di Roma. Nel corso degli anni Ottanta dell’Ottocento, in Italia presero a diffondersi le cooperative di lavoro. La differenza rispetto alle cooperative di produzione era la seguente: mentre queste ultime erano società di operai che producevano un determinato bene – dai latticini alla carta stampata –, le prime erano formate da lavoratori che offrivano la propria manodopera in forma associata. Se bisognava costruire palazzi, bonificare terreni o coltivare campi, le cooperative di lavoro potevano farlo. Per questi motivi, esse divennero un importante strumento di associazione per i braccianti e i muratori, categorie generalmente meno qualificate che per il movimento cooperativo erano più difficili da intercettare. Gli anni Ottanta dell’Ottocento in Italia furono caratterizzati da un’ottima congiuntura per il settore edilizio, sospinto da opere pubbliche di riqualificazione e investimenti privati – non affatto scevri da manovre speculative. In questo contesto, che attraeva numerosi lavoratori dai campi ai cantieri nelle città, le cooperative di lavoro erano un’ottima risposta al rischio che, una volta concluso un appalto, i muratori venissero rimandati a casa dai costruttori che li avevano assunti. Dal punto di vista dei lavoratori, esse erano una sorta di assicurazione contro la precarietà. A questo elemento le cooperative di lavoro dovevano il proprio successo, agevolate da un’apposita legge del 1889 che permetteva di affidare ad esse lavori pubblici inferiori a 100.000 lire senza passare dalle gare d’appalto[3].
In questo florilegio di opportunità d’affari, capitava che qualcuno eccedesse il limite. Fu quanto accadde, appunto, alla Cooperativa dei muratori di Roma. Sin da subito questa mostrò una certa disinvoltura nel chiedere sussidi pubblici, accettando d’altra parte lavori che andavano ben oltre la sua portata. Ottenne una commessa addirittura in Grecia, attirandosi così le critiche del movimento cooperativo anche per un altro motivo: i lavoratori italiani sarebbero infatti entrati in competizione con quelli locali, cosa che non veniva giudicata eticamente ammissibile. Questa governance spericolata spinse in poco tempo la cooperativa sull’orlo della bancarotta. Tuttavia, in procinto delle elezioni parlamentari, un candidato della maggioranza uscente riuscì a far giungere con tempismo perfetto un sussidio governativo da 50.000 lire alla società. In cambio, la cooperativa si impegnò pubblicamente a sostenere il provvidenziale benefattore in campagna elettorale. Un vero e proprio caso di clientelismo, insomma, che non ebbe conseguenze giudiziarie ma procurò all’impresa una nota di profondo biasimo da parte della Lega nazionale delle cooperative (l’odierna Legacoop), durante il suo IV Congresso tenutosi a Torino nel 1890[4]. Cinque anni dopo, la società risultava già fallita[5].
Non mancavano poi le cooperative che demutualizzavano, come accennato prima. È quanto accadde alla Banque Populaire de Cannes, la prima banca popolare francese nata nel 1875 sul calco della Banca Popolare di Milano. Nonostante il fondatore dell’istituto bancario della Costa Azzurra fosse Francesco Viganò, uno dei più importanti cooperatori della sua epoca a livello internazionale, la società abbandonò la forma mutualistica dopo alcuni anni[6]. In effetti, il problema dell’aderenza ai principi cooperativi era particolarmente avvertito nel settore finanziario. Già nel 1878, l’importante cooperatore tedesco Victor Bohmert adduceva la ragione di alcuni crac bancari in Sassonia a «operazioni assolutamente contrarie allo spirito e all’organizzazione delle banche popolari»[7].
D’altro canto, un certo grado di critica interna è stato assai importante per lo sviluppo stesso di nuove forme di mutualismo. Ancora nell’Italia degli anni 1880, la nascita delle casse rurali – ossia le progenitrici delle attuali banche di credito cooperativo – fu stimolata dalla surrettizia convinzione che le già esistenti banche popolari non valorizzassero abbastanza il senso di comunità, l’intima solidarietà e la rettitudine morale dei soci. Ciò non impedì tuttavia che le banche popolari e le casse rurali collaborassero tra loro, almeno in Italia – altrove, come in Germania, i rapporti furono invece assai burrascosi. Anzi, i due modelli si rivelarono in qualche modo complementari. Le casse rurali, infatti, si distinguevano dalle popolari per la loro struttura estremamente semplice: per esempio, invece di restituire gli utili ai soci li reinvestivano completamente per rafforzare il patrimonio della cooperativa. Per questa ragione, le casse rurali riuscivano ad attecchire meglio delle popolari nei territori in cui l’economia era meno dinamica e i lavoratori avevano redditi così scarsi da rendere estremamente difficile il risparmio.
Allo stesso modo, l’alterità del modello mutualistico rispetto a quello delle società di capitale non impedì di instaurare tra i due mondi alleanze che risultarono assai fruttuose per le cooperative. Più di una volta le banche ordinarie accettarono di sostenere lo sviluppo del movimento. Accadde nei fertili anni Ottanta dell’Ottocento, allorché il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia alimentarono la diffusione delle banche popolari nel Mezzogiorno, con l’idea di renderle dei partner fissi per investire nei territori rurali[8]. Qualcosa di simile avvenne anche dopo la legge Sonnino del 1906[9], che istituì un fondo da 3 milioni di lire per il credito agrario presso il Banco di Sicilia: quei capitali permisero un’espansione senza precedenti delle cooperative agricole nell’isola, finendo addirittura per finanziare le iniziative imprenditoriali di esponenti del socialismo siciliano come Lorenzo Panepinto[10].
Dunque, quali fossero i confini etici della cooperazione era già a fine Ottocento tema di vivace dibattito, quando non addirittura di polemica. Nel 1894 l’Unione Cooperativa milanese, a quel tempo la più grande cooperativa di consumo in Italia, fu al centro di un’aspra campagna di stampa, con l’accusa tendenziosa di aver abdicato ai suoi principi mutualistici per omologarsi di fatto alle altre imprese[11]. Tuttavia, tale attacco non era altro che l’ennesimo capitolo dell’antica rivalità tra le cooperative di consumo e gli esercenti, naturali concorrenti di mercato che accusavano queste ultime di competizione sleale, in virtù di alcune agevolazioni fiscali di cui godevano. Ecco, dunque, che già allora si manifestava uno dei leitmotiv delle critiche alla cooperazione, ossia i presunti privilegi verso l’erario pubblico di cui essa si avvantaggerebbe.
Eppure, l’esigenza di distinguere la vera e la falsa mutualità divideva talvolta persino i cooperatori stessi. Nel medesimo periodo in cui si consumava la vicenda dell’Unione Cooperativa, si tenne a Milano il VI Congresso della Lega. Qui l’ala socialista del movimento riuscì a far passare, a debole maggioranza, un ordine del giorno – poi ritrattato – che classificava come autentiche solo le cooperative che non remunerassero il capitale. A quel punto i cooperatori del sobborgo genovese di Sampierdarena, così autorevoli e influenti da vantare persino un rappresentante in parlamento – il deputato Valentino Armirotti –, abbandonarono platealmente i lavori pronunciando un chiaro messaggio: se quella formula fosse passata, l’80% delle cooperative avrebbe dovuto essere dichiarato falso[12].
Scontri del genere erano il normale riflesso di un faticoso processo di sperimentazione, che chiamava in causa sia la teoria che le pratiche del mutualismo. Era etico che le cooperative di consumo vendessero anche prodotti di lusso, destinati ai ricchi? Era giusto che una cooperativa di produzione pagasse i dirigenti più degli operai, pur di attrarre amministratori capaci e qualificati? È facile imbattersi in questi dilemmi nella produzione sorprendentemente fertile di saggi, convegni e congressi che giocarono un ruolo fondamentale nella diffusione e nel perfezionamento delle imprese cooperative, soprattutto prima della nascita dell’International Cooperative Alliance (1895), l’Internazionale del movimento cooperativo tuttora attiva. Ne emerge un quadro assai più complesso e interessante rispetto al “mito dell’età dell’oro”. Prendere coscienza di ciò ha un duplice valore pratico: primo, evitare di rimanere prigionieri delle narrazioni pessimistiche. Secondo, valorizzare anche oggi questo incessante processo di confronto e discussione delle pratiche cooperative, che sin dalle origini contribuisce a rinnovare e rinfoltire i rami di un albero che tra non molti anni si accingerà a compiere due secoli di vita.
[1] La vera e la falsa cooperazione, «Credito e Cooperazione», n. 5, 1° marzo 1890, p. 49.
[2] Ugo Rabbeno, Le società cooperative di produzione. Contributo allo studio della questione operaia, Dumolard, Milano 1889, pp. 375-386.
[3] Legge 11 luglio 1889, n. 6216, art. 4 e Regio Decreto 23 agosto 1890, n. 7040.
[4] Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue, Il Quarto congresso dei cooperatori italiani. Torino, ottobre 1890, Tipografia degli Operai, Milano 1891, pp. 20-21.
[5] Comune di Roma, Resoconto della amministrazione comunale di Roma dal 1° dicembre 1892 al 31 maggio 1895, Tipografia Ditta Ludovico Cecchini, Roma 1895, p. 99.
[6] Eugène Rostand, L’action sociale par l’initiative privée, vol. II, Guillamin & C., Parigi 1893, p. 27.
[7] Ministère de l’Agriculture et du Commerce, Congrès Scientifique International des Institutions de Prévoyance. Tenu à Paris du 1er au 7 juillet 1878, Imprimerie Nationale, Parigi 1881, p. 240.
[8] Associazione fra le Banche Popolari Italiane, Atti del V Congresso delle Banche Popolari Italiane. Tenutosi in Bari nei giorni 28, 29 e 30 ottobre 1888, Stabilimento Tipografico Enrico Reggiani, Milano 1889, pp. 46-71.
[9] Legge 29 marzo 1906, n. 100.
[10] Salvatore Lupo, Storia della mafia. La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 2004 (I ed. 1993), pp. 236-237.
[11] Ercole Bassi, Le accuse della “Milano Nuova” contro l’Unione Cooperativa milanese, «La Cooperazione Italiana», n. 20, 30 ottobre 1894, pp. 2-3.
[12] Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue, Sesto congresso Cooperatori con sezione internazionale e sezione italiana. Milano, ottobre 1894, Como, Premiata Tipografia Cooperativa Comense, 1895, pp. 44-45.