Le enormi sfide dell’adattamento sistemico
- 19 Dicembre 2023

Le enormi sfide dell’adattamento sistemico

Scritto da Alessandro Leonardi

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Fino ad un decennio fa parlare di adattamento climatico era quasi un tabù. I piani di mitigazione e il cammino verso la decarbonizzazione erano assolutamente prioritari nei discorsi alle conferenze climatiche COP e nelle campagne ambientaliste occidentali. Invece l’adattamento veniva visto da molti come una rinuncia all’azione, al cambiamento, una sconfitta inaccettabile, oltre che un subdolo stratagemma per tutelare per il business del settore “oil & gas”.

Il culmine di questa impostazione programmatica fu l’Accordo di Parigi del 2015, che sanciva sulla carta gli sforzi per limitare l’aumento delle temperature globali entro 1,5 gradi, attraverso dei processi di trasformazione eco-sostenibile che avrebbero realizzato lo scenario net-zero entro il 2050. Passati 8 anni l’Accordo è sempre più a rischio, mentre la crisi climatica-ambientale avanza facendo nuovi record negativi, con un’estensione dell’impatto distruttivo sull’ecosistema planetario. Nonostante i timidi e contraddittori piani di mitigazione messi in atto dai Paesi avanzati, fra crescita delle pratiche ambientaliste e l’espansione del settore industriale green-tech (rinnovabili, ecc.), i report scientifici sul cambiamento climatico sono sempre più allarmanti con un aumento della disillusione nelle masse. Le stesse conferenze climatiche, come l’ultima COP28 a Dubai, sono ormai diventate dei summit caotici con decine di migliaia di partecipanti e la presenza sistematica dei lobbisti delle società energetiche, dove le promesse sottoscritte dai delegati divengono dei netti compromessi al ribasso, prive di vincoli coercitivi, rinnegate poi dalle azioni concrete condotte in campo energetico-economico.

In questo contesto precario e contraddittorio uno degli approcci che sta emergendo è il nuovo paradigma dell’ambientalismo difensivo, illustrato da Luca Picotti, dove la grande transizione eco-sostenibile lascia progressivamente lo spazio alla realpolitik con un’agenda verde focalizzata sull’ambito nazionale, fra l’espansione del green-tech a differenti velocità e l’adozione di piani di adattamento localizzati. Un approccio che allo stesso tempo implica la tacita accettazione della debolezza della cooperazione multilaterale internazionale, che non riuscirà a fermare la crisi climatica come richiesto dai climatologi e dagli ambientalisti.

L’adozione di tale agenda ovviamente comporta la riduzione delle ambizioni espresse anni fa nelle varie COP e la rinuncia a un rapido cambiamento del modello di sviluppo attuale. Cambiamento ritenuto irrealizzabile a causa della frammentazione degli ordini politici, degli interessi divergenti fra le varie potenze e l’estrema difficoltà nel cambiare un sistema industriale che si è sviluppato intorno a petrolio, carbone e gas per oltre un secolo. L’illusione positiva del “villaggio globale” degli anni Novanta, sotto la guida egemonica occidentale con i grandi consessi per governare la globalizzazione, sta svanendo di fronte al rapido mutare delle condizioni planetarie, fra multiple crisi sistemiche, cambiamento dei rapporti di forza a livello geopolitico e la necessità di una rapida industrializzazione perseguita dai Paesi più poveri.

La presa d’atto di questa nuova posizione non sarà affatto facile, dato che verrà vista come un esplicito tradimento delle promesse ambientali degli ultimi trent’anni. Ma anche adottando la via più grigia e realistica dell’ambientalismo difensivo, rimangono tutta una serie di nodi gordiani irrisolti che renderanno molto problematico l’adattamento globale e la gestione degli effetti insidiosi della crisi climatica nei prossimi decenni.

Nel discorso ambientalista, così come nelle linee programmatiche della green economy, ci si concentra sulle emissioni, sulle tecnologie delle rinnovabili, sull’efficientamento di questo o quel settore economico, senza però avere contezza delle profonde dinamiche che guidano il sistema industriale-tecnologico e la ferrea logica del suo nucleo di sviluppo. Un sistema che fin dalla sua ascesa, avvenuta secoli fa, persegue un’esponenziale crescita economica-materiale incentrata sullo sfruttamento delle risorse, con l’inestricabile aumento dei consumi e della produzione, senza rispettare alcun limite. Anzi la rottura sistematica dei limiti è un requisito necessario per il funzionamento del nostro modello di sviluppo. Infatti, nessun leader politico ha mai messo seriamente in discussione la crescita economica-industriale, vista come un dogma inviolabile da tutte le classi dirigenti del pianeta.

La presenza di un vincolo di tale portata spinge inevitabilmente le élite verso le soluzioni green-tech e la negazione di qualsiasi teoria alternativa (come quelle legate alla decrescita), confidando nel disaccoppiamento globale fra crescita del PIL e alterazione dell’ecosistema. Cosa che fino ad ora non è avvenuta, se non sporadicamente a livello locale e in precise condizioni non replicabili in altre zone del mondo. Pretendere per esempio che un Paese da un miliardo e quattrocento milioni di abitanti come l’India si trasformi in pochi anni come il Regno Unito è semplicemente illusorio e irrealizzabile, dati i differenti gradi di sviluppo. Siamo quindi di fronte alla riverniciatura “verde” del sistema capitalistico con il pieno mantenimento delle sue logiche fondamentali, diretti probabilmente verso l’inquietante obsolescenza ecologica descritta da Raffaele Alberto Ventura dove le merci “sostenibili” saranno consumate a velocità sempre più rapida. Ma questo tipo di transizione non sta fermando la crisi climatica-ambientale, né la fermerà nel prossimo futuro.

Se da una parte il green-tech è il difficile tentativo di allungare la vita del sistema globale sperando nel deus ex machina tecnologico o nel salto verso lo Spazio profondo (come sognano certi magnati della Silicon Valley), dall’altra l’applicazione dei piani di adattamento su larga scala presenta dei notevoli problemi privi di risposta. L’accelerazione della crisi climatica sta già imponendo l’adozione di numerose strategie per contenere i danni e adattare la civiltà moderna alle esternalità negative dello sviluppo industriale. Ma questi piani, esattamente come per i piani di mitigazione, risentono della scarsa coordinazione internazionale e della mancanza di fondi adeguati per garantire la tenuta dell’apparato infrastrutturale-logistico costruito sulla Terra.

Di fronte alla necessità di spendere teoricamente ogni anno centinaia di miliardi di dollari per l’adattamento globale, come riportato dall’ultimo Adaptation Gap Report, i fondi sono tutt’ora ridotti a poche decine di miliardi, con evidenti sprechi, mala-gestione e scarsa attenzione da parte della politica quotidiana. Ancora più ridotti sono i fondi di compensazione “loss & damage” diretti alle nazioni più vulnerabili, che dovrebbero attutire i danni causati dalla crisi in corso. Solo alcune delle nazioni più ricche hanno promesso degli aiuti durante la COP28, pari ad un misero 0,2% dei fondi ritenuti necessari per garantire un adeguato risarcimento. Un segnale chiaro e inequivocabile del rifiuto di redistribuire le risorse economiche, e quindi il potere, da parte dei Paesi più benestanti. Nessuno è intenzionato a ribaltare i rapporti di forza o a trasferire immense fortune dal Nord del mondo al Sud più povero. Nessuna leadership ha mai rinunciato volontariamente alla propria egemonia economica e geopolitica. Nessuna nazione fermerà il proprio sviluppo industriale-economico volontariamente, in maniera controllata e bilanciata.

Considerati questi evidenti ostacoli, l’adattamento planetario probabilmente sarà applicato secondo una scacchiera variabile dove i Paesi avanzati, data la potenza economica-tecnologica di cui dispongono, potrebbero avvalersi di un ambientalismo difensivo più funzionale, rapido ed efficace, rispetto ai Paesi più poveri, esposti in prima linea di fronte all’avanzare della crisi climatica. Ma l’egoismo del “si adatti chi può” è molto pericoloso in un villaggio globale dove gli effetti delle catastrofi si riverberano in ogni angolo della Terra, impattando sulle varie filiere logistiche e con effetti a cascata sulle nostre complesse società, estremamente dipendenti l’una dalle altre. La pandemia di Covid-19 è stata una plateale dimostrazione di questo fenomeno, mentre la crisi climatica-ambientale sta diventando una sorta di persistente “pandemia” imprevedibile nei suoi effetti a catena sul lungo termine.

L’incedere di questa crisi sistemica potrebbe far deteriorare gravemente nei prossimi decenni le nicchie climatiche dei Paesi più esposti, scatenando imponenti migrazioni fuori controllo, conflitti bellici su larga scala e reazioni economiche pari o superiori alle precedenti crisi finanziarie. Il pericoloso intreccio che va formandosi fra le varie crisi sistemiche (geopolitiche, sociali, economiche, ambientali) è al centro dell’attenzione delle élite globali da tempo, ma le risposte latitano. Con il rischio che il quadro generale potrebbe aggravarsi in maniera talmente imprevedibile, fino a colpire delle conquiste moderne date per scontate dalla maggior parte dell’umanità come la sicurezza alimentare. Le stesse filiere che garantiscono l’alimentazione quotidiana di oltre otto miliardi di persone sono suscettibili ai rapidi cambiamenti e non possono essere ristrutturate in forma autarchica, dato che senza l’architettura industriale estesa su scala planetaria non è possibile sfamare adeguatamente l’attuale popolazione terrestre. Per quante risorse un Paese avanzato possa destinare all’adattamento del proprio territorio, non potranno mai compensare completamente gli impatti delle crisi globali mantenendo allo stesso tempo il tenore di vita benestante della maggior parte dei suoi cittadini. Il nodo irrisolto di un paradigma come l’ambientalismo difensivo risiede fondamentalmente nel tentativo di gestire e attutire localmente le multiple crisi in corso, con una società tecnologica che dipende drammaticamente dal modello globalizzato.

I nodi gordiani posti dalla Modernità richiedono ormai delle nuove visioni che vadano ad integrare e ampliare l’approccio dell’adattamento/mitigazione ambientale, coinvolgendo ogni aspetto del tardo capitalismo di questa epoca. Un adattamento sistemico, legato allo studio della complessità del nostro modello di sviluppo, e di tutti gli scenari, anche emergenziali, che si presenteranno nei prossimi anni. Evitando sia l’illusorio ottimismo delle utopie progressiste o del business as usual, sia il pernicioso e inconcludente catastrofismo mediatico. Un approccio realista che tenga conto della velocità del cambiamento in corso, dei prezzi necessari da pagare e dei limiti intrinseci della nostra realtà.

Scritto da
Alessandro Leonardi

Giornalista pubblicista e autore di analisi sul sistema industriale-tecnologico e la tarda Modernità. Si occupa di evoluzioni e crisi dei modelli di sviluppo, con al centro la crisi climatica e i piani di mitigazione/adattamento connessi ai sistemi complessi, alla geopolitica e ai cambiamenti socio-politici in corso. Scrive su testate giornalistiche e riviste nazionali come «La Svolta», «Singola», «Equilibri Magazine», «Iconografie». Autore di analisi per Forwardto e altri media/centri studi/team di ricerca.

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