Recensione a: Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino 2014, pp. XVIII – 748, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Pietro Dalmazzo
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25 maggio 1993. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, tramite la Risoluzione 827, costituisce il Tribunale penale internazionale, per giudicare i crimini di guerra commessi nel territorio dell’ex Jugoslavia dopo il 1991[1].
Al tempo la violenza che si stava abbattendo sui Balcani occidentali doveva ancora mostrare al mondo il suo lato peggiore, ma nel novembre dello stesso anno il tribunale tenne già la seduta inaugurale.
Ventiquattro anni dopo, nel novembre 2017, il tribunale chiuderà i battenti, avendo ufficialmente esaurito il suo compito[2]; non si esauriscono però le zone d’ombra rimaste celate dietro la scarsa collaborazione tra autorità statali e organi di giustizia. Secondo gli stessi addetti ai lavori l’operato del tribunale non può dirsi soddisfacente; i quesiti non risolti, i crimini e i criminali impuniti, ormai diventati impunibili, rimangono molti[3].
Da Vukovar a Belgrado i criminali di guerra furono migliaia; ogni fazione coinvolta si è macchiata di azioni disumane in un quadro sociale, etnico, politico, culturale, religioso e storico molto complesso, che ha intrecciato narrazioni epiche medievali a fatti contemporanei, assottigliando all’inverosimile il confine tra ideologia e azione, portando teorie socialmente distruttive ad essere applicate senza remore.
La complessità delle guerre jugoslave, la difficoltà delle autorità internazionali a ristabilire lo stato di diritto nella regione e le intricate ragioni storiche che vi furono alla base del conflitto, non devono essere una scusante per banalizzare tali avvenimenti come fenomeni troppo complessi per essere affrontati, per alimentare pregiudizi sulla regione o per nascondere gli errori occidentali.
Il testo di Pirjevec, edito per la terza volta da Einaudi, è un’occasione per non celare dietro superficiali luoghi comuni quanto accaduto in Jugoslavia in un tempo e uno spazio vicini a noi; forse troppo vicini per essere pienamente compresi.
L’accuratezza storica, la precisione, la ricchezza di dettagli sono elementi fondamentali, che conferiscono un’invidiabile validità storica all’opera, senza appesantire una narrazione piuttosto scorrevole.
Le fonti utilizzate dall’autore sono di vario genere e spaziano dalle opere accademiche alle fonti giornalistiche, che restituiscono con precisione un senso di immediatezza e precarietà piuttosto marcati.
Naturalmente il volume non può muovere immediatamente dallo scoppio del primo conflitto jugoslavo, partendo invece da un poemetto epico di metà Ottocento, cercando di fornire uno spaccato, seppur parziale, del contesto socio-culturale nel quale si è formata la Jugoslavia di Tito e, di conseguenza, rappresentando un quadro degli sviluppi storici che sono maturati, o per meglio dire esplosi, nelle guerre degli anni Novanta.
Il testo, in seguito, affronta in ordine cronologico e con molta precisione, le vicende Jugoslave lungo tutti gli anni Novanta, soffermandosi sulle sei guerre che ne hanno lacerato il tessuto sociale, culturale e demografico della regione e i successivi processi di pacificazione, concludendosi con l’ultimo, cronologicamente parlando, conflitto in Kosovo.
L’approccio di Pirjevec ai fatti è fortemente critico, come è inevitabile che sia dato che lui stesso era coinvolto moralmente nel conflitto, essendo italo-sloveno.
Proprio nei confronti della Slovenia, giustamente data l’efficienza e la praticità con la quale le autorità slovene hanno dichiarato e difeso l’indipendenza[4], traspare dalle pagine del testo il riconoscimento di una coerenza, funzionalità e organizzazione che hanno salvato e risparmiato, almeno a quel Paese, una catastrofe umanitaria.
L’atteggiamento dell’Autore nei confronti degli altri attori coinvolti nel panorama jugoslavo è abbastanza impietoso, pur riconoscendo le capacità o le buone intenzioni di alcuni di essi, non manca di evidenziarne le lacune, le ingenuità e le atrocità commesse.
In particolare va sottolineata una forte critica nei confronti delle autorità internazionali, specialmente nei confronti dell’Unione Europea e dell’Onu, artefici e responsabili anch’essi di un dramma umanitario nel quale l’Ue si è distinta per l’incapacità di comprendere quanto stava accadendo sotto i suoi occhi, mentre le Nazioni Unite per l’incapacità di agire culminata con la tragedia di Srebrenica.
Atteggiamento giustificato dalle azioni degli organismi internazionali durante tale crisi, che ne ha messo a nudo tutti i limiti e le incongruenze.
Il confine tra antiserbismo e realtà
Pirjevec, come detto, non affronta la narrazione degli eventi in una modalità asettica e distaccata, tutt’altro, l’Autore è eticamente coinvolto nelle vicende, ciò traspare in modo palese dalle pagine del testo.
Tale approccio ci restituisce un ritratto delle vicende narrate arricchito da un forte senso di umanità, d’altra parte non rende il testo impermeabile da critiche, anzi, la visione dell’Autore sui fatti è piuttosto chiara e questo, giocoforza, non può raccogliere pareri unanimi.
È facile, per un libro come questo, scatenare accuse di vario tipo, la principale è sicuramente quella di vedere nell’autore un presunto antiserbismo, che lo avrebbe portato a dipingere il popolo serbo, i politici serbi, le tradizioni e la cultura serba come fautori di una delle stragi più sanguinose dal secondo dopoguerra ad oggi.
Nelle pagine del testo, come è naturale che sia, i crimini dei serbi non vengono in alcun modo celati, ma sono riportati con una notevole precisione storica, senza omettere dettagli e dichiarazioni particolarmente crude e disumane che forse, se omesse, non avrebbero cambiato il senso e il gusto della narrazione. Ma rimangono comunque scelte compiute dall’Autore su fonti oggettivamente certe, l’apprezzamento sul riportare certi dettagli dipende dal gusto del lettore ma non inficia in alcun modo il valore storico dell’opera.
Le critiche di presunta partigianeria, si scontrano con due pilastri fondamentali delle vicende narrate.
Da un lato va tenuto contro delle oggettive responsabilità serbe nel conflitto. Ovviamente questo non deve essere una giustificazione per lasciare cadere la totale responsabilità della tragedia sul popolo serbo o identificarlo come carnefice dei Balcani, ma non si può non notare come i leader politici serbi, nascostisi sotto il vessillo jugoslavo, abbiano cercato di imporre alla regione una costruzione statale serbo-centrica, senza porre limiti agli strumenti utilizzabili per raggiungere il proprio scopo.
È un dato di fatto che una certa ideologia, certi documenti[5] siano stati abilmente sfruttati e fatti attecchire nel campo serbo, portando al compimento di atrocità[6] difficili anche solo da immaginare pochi anni prima, in un contesto apparentemente pacifico come quello jugoslavo.
Nella narrazione di un conflitto che ha disumanizzato i partecipanti, che ha riportato fragorosamente alla luce la banalità del male in Europa, non si possono nascondere i fatti compiuti per evitare le accuse di partigianeria; l’unico aspetto da evitare, leggendo queste pagine, è passare dai fatti ai pregiudizi su un popolo, passo che l’Autore si tiene lontano dal compiere, specificando, sempre, come le responsabilità di eccidi e massacri difficilmente cadano sui semplici esecutori di ordini.
Il secondo punto che va evidenziato è la necessità di una contestualizzazione: questo testo è stato pubblicato per la prima volta nel 2001, scritto quasi in contemporanea con i fatti narrati, mentre alcune delle vicende non erano ancora giunte a compimento[7].
La tempestività del libro non è un limite, ma bisogna affrontarne la lettura con la consapevolezza che un bilancio complessivo e globale sugli avvenimenti narrati non è possibile ancora oggi e che, tuttora, le prospettive su quel conflitto sono in continuo mutamento.
Inoltre l’utilizzo di fonti giornalistiche influenza sicuramente, anche a causa dell’effetto CNN ampiamente descritto da Pirjevec nel libro[8], la narrazione e la visione degli eventi.
Il testo oltre a fornire un quadro chiaro e dettagliato sugli avvenimenti Jugoslavi, ha un’incontestabile valenza contemporanea. Uscendo dalla dialettica bellica, il dettaglio con il quale vengono presentate le vicende, ogni passaggio e ogni decisione diplomatica e militare, sono fondamentali per leggere l’assetto contemporaneo della regione in quanto i Balcani sono oggi al centro di trattative sull’allargamento dell’Unione Europea e i processi di normalizzazione statale sono ancora sotto i riflettori delle autorità europee.
L’attualità del testo di Pirjevec
L’opera di Pirjevec deve essere sì contestualizzata per avere una rilettura degli eventi il più possibile oggettiva e attinente alla realtà ma, a livello globale, è un prisma attraverso il quale leggere sia la contemporaneità balcanica, sia il mondo globale dopo la fine della guerra fredda.
In particolare, ancora oggi, vi sono delle ferite aperte nel tessuto socio-politico dell’ex Jugoslavia dal quale, saltuariamente, sgorga del sangue nonostante i complessi progetti diplomatici e politici per provare a cucirle.
Basti pensare, in modo particolare, al Kosovo, alla città di Mitrovica, ai rapporti con la Serbia e all’impervia strada verso il riconoscimento. Ma non solo, vi è anche la questione dell’estremo nazionalismo nella Repubblica Skrpska, creata dalle ceneri di una Bosnia-Erzegovina un tempo simbolo di convivenza tra differenti culture e religioni e irrimediabilmente sfregiata dall’ultimo conflitto.
Gli effetti delle guerre jugoslave si respirano ancora adesso in tutta Europa, e la validità di quest’opera è insita nella natura stessa della sua narrazione e, allo stesso tempo, è una lettura della disgregazione della Federazione Jugoslava che ancora oggi caratterizza la storia europea, una storia vicina a noi, in tutti i sensi, ma forse ancora percepita come lontana e sfumata.
Dal punto di vista globale, il testo si focalizza sull’evento che, probabilmente più di tutti gli altri, ha definito gli equilibri mondiali dopo crollo dell’Unione Sovietica.
Il fallimento, descritto con efficacia e puntualità, dei tentativi dell’Unione Europea di emanciparsi dall’influenza statunitense tramite una brillante risoluzione del conflitto jugoslavo è la base per un rinnovato interventismo Nato negli affari del vecchio continente.
L’inadeguatezza del comportamento dei funzionari europei adibiti ad una risoluzione della crisi ha creato le condizioni per l’affermarsi definitivo degli Stati Uniti come unica potenza egemone globale.
Naturalmente la vittoria della Nato, oltre al fallimento dell’Unione Europea, venne anche accompagnata dalla drammatica gestione della crisi da parte dell’Onu e delle forze di pace impiegate nello scacchiere jugoslavo.
Se il dramma di Srebrenica è stato il manifesto del fallimento delle Nazioni Unite non fu l’unico disastro; a tutti i livelli la gestione del conflitto, da parte degli alti quadri dell’Onu, fu dannosa soprattutto per la popolazione civile, ai quali non furono in grado di assicurare alcuna protezione.
Davanti ad un’incapacità generalizzata di gestione del conflitto fu la Nato ad assumere il ruolo egemone, costruendo, partendo dalla Jugoslavia, un tentativo di governance mondiale[9].
Definire l’intervento Nato come risolutivo è quasi un’iperbole, viste le difficoltà riscontrate nel piegare la resistenza serba tramite i bombardamenti aerei. In generale è necessario essere restii a definire i bombardamenti Nato su Belgrado, andati avanti per mesi, tutti i giorni per tutto il giorno, come una vittoria, mentre a terra continuava indisturbato un tentativo di pulizia etnica.
Ma in ogni caso, se è necessario trovare un vincitore non si può che indicare la Nato, che si erse, sulle ceneri jugoslave, come unico attore globale dimostrandosi ancora una volta, anzi più di prima, estremamente necessaria nella gestione delle crisi locali[10].
Infine, un ulteriore aspetto estremamente contemporaneo, individuato dall’autore è il formidabile effetto delle immagini sull’opinione pubblica, da lui identificato come effetto CNN, che è stato il vero motore per un intervento risolutivo in Jugoslavia.
Nonostante possa sembrare abbastanza banale, come spiegato dall’Autore fu proprio l’eco delle immagini e delle storie di Srebrenica, le immagini degli abitanti di Sarajevo sotto i colpi di mortaio, il ritrovamento di fosse comuni e le relative foto hanno risvegliato il mondo su una regione dilaniata da una guerra che riuniva, in se stessa, ogni tipo di conflitto, dal religioso al civile ma che, prima della sua pubblicizzazione a livello giornalistico, sembrava quasi non esistere.
È stata la forza sconcertante di immagini e riprese ad aver acceso i riflettori su che tipo di coercizione era diventata la Federazione Jugoslava per gli stati membri.
Concludendo, il testo, pur trattando un preciso e definito argomento storico, è di un’attualità sconcertante, e per la comprensione dei fenomeni di costruzione statale che sono tutt’ora in fieri nell’ex Jugoslavia, e per i rapporti di forza tra gli organi internazionali, in particolare per quanto riguarda l’Unione Europea che si potrebbe sostenere stia provando, ancora oggi, ad emanciparsi, per quanto riguarda la politica estera, dall’ombra americana.
In sostanza, pur descrivendo un avvenimento conclusosi diciotto anni fa, il volume fornisce ancora oggi una chiave interpretativa della realtà europea contemporanea.
Nonostante al tempo della sua prima pubblicazione, nel 2001, la vicenda kosovara narrata nel testo fosse ancora piuttosto lontana dalla conclusione – per la verità tutt’ora sarebbe rischioso definirla come conclusa – il testo è una delle opere più complete e puntuali sulle guerre jugoslave.
[1] Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave Einaudi, Torino 2014, p. 329.
[2] Fabrizio Assandri. Tribunale ex Jugoslavia: decine di criminali di guerra ancora a piede libero, «La Stampa», 17 settembre 2017.
[3] Ibidem.
[4] Specie se raffrontato con quanto sarebbe accaduto di lì a pochi mesi in Croazia, e successivamente in Bosnia e in Kosovo.
[5] Si pensi in particolare al famoso Memorandum dell’Accademia di Belgrado.
[6] Furono innumerevoli, commesse da entrambe le fazioni ma ci si riferisce in particolare ai tentativi di pulizia etnica e i campi di stupro, due delle cose più atroci e più difficili anche solo da concepire in una società civile: Jože Pirjevec op. cit. p. 155.
[7] La vicenda kosovara per esempio, con la regione che divenne indipendente solo sette anni dopo.
[8] Jože Pirjevec op. cit. p. xv.
[9] Fabio Fossati, L’ordine mondiale dopo la guerra fredda, «il Mulino», N° 384, 1999, pp. 612/619.
[10] In particolare il presidente Clinton venne visto come salvatore dagli albanesi del Kosovo, ancora oggi è un eroe nazionale e ha una statua dedicata in centro Pristina.