Scritto da Giulio Pignatti
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Cosa ne è delle ideologie all’epoca del populismo, della disintermediazione e del dissolvimento dei partiti di massa? Un recente convegno, Cosa resta dell’ideologia? Concetti, teorie, metodi di ricerca, organizzato dagli Standing group “Teoria Politica” e “Politica e Storia” della Società Italiana di Scienza Politica e tenutosi alla sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore il 4 e 5 maggio 2023, ha discusso, tramite l’apporto di metodi e discipline differenti, la permanenza e l’evoluzione delle ideologie politiche nei contesti contemporanei. Qui l’intervista, a partire dai temi del convegno, a Manuel Anselmi, uno dei relatori e ricercatore in Sociologia politica presso l’Università degli Studi di Bergamo. Anselmi si occupa principalmente di ideologie politiche e populismi e ha lavorato sul contesto europeo e latino-americano. Tra le sue pubblicazioni: Multiple Populisms. Italy as Democracy’s Mirror (Routledge 2019, curato con Paul Blokker), Populismo. Teorie e problemi (Mondadori Università 2019), Populism. An Introduction (Routledge 2017, con Paul Blokker) e Chavez’s Children. Ideology, Education, and Society in Latin America (Lexington Books 2015).
Da anni la vulgata del senso comune sostiene il tramonto delle ideologie, innanzitutto di quelle protagoniste, nel bene e nel male, della storia del secolo scorso. Dovremmo quindi vivere in una società post-ideologica, ma allo stesso tempo è difficile non definire ideologici fenomeni caratteristici del presente, come ad esempio il nazionalismo. Dunque, innanzitutto, l’ideologia è viva o morta?
Manuel Anselmi: Diciamo subito che nella storia degli studi sull’ideologia è già successo di annunciare la fine delle ideologie e poi ricredersi. Era capitato alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, ma poi per tutti gli anni Sessanta e Settanta abbiamo assistito ad una vera e propria renaissance degli studi sul tema. La vulgata a cui giustamente fa riferimento lei è invece un fenomeno che riguarda gli ultimi decenni ed è cruciale. Da circa la metà degli anni Ottanta si è ricominciato a parlare, anche insistentemente, di fine delle ideologie e di inizio di una fase post-ideologica. Queste tesi si sono sedimentate nel senso comune anche attraverso la pubblicistica – per cui capita ancora oggi di leggere e ascoltare questa storia della morte delle ideologie. È interessante notare che, d’altro canto, a livello di riflessione scientifica proprio in quegli anni si è continuato a produrre importanti studi sull’ideologia. C’è stata quindi una discrasia tra l’opinione pubblica, per la quale le ideologie erano ormai sepolte, e il discorso scientifico, grazie al quale sono state portate avanti forse le analisi più originali a riguardo: si pensi agli studi di Michael Freeden, di John B. Thompson, o alla ripresa di alcune intuizioni di Clifford Geertz, o ancora al neomarxismo di Stuart Hall. Ciò dimostra quindi che la fine delle ideologie è stato più che altro uno slogan, ideologico esso stesso, funzionale alla promozione di un vero e proprio senso comune riconducibile all’ideologia neoliberale. Oggi siamo in una fase in cui è possibile riconoscere quella lunga fase ideologica e non a caso si stanno riproponendo saggi o pamphlet che tematizzano la questione ideologica come il recente libro di Carlo Galli edito da il Mulino (Ideologia). Molto probabilmente siamo in una fase in cui si torna a parlare di ideologie, anche nella sfera pubblica. Ma la questione non è solo intellettuale: sono le vicende politiche più recenti che hanno decretato un significativo cambio di prospettiva. Il 2022 è stato in effetti un anno di cambiamenti epocali, innanzitutto per lo scoppio della guerra in Ucraina: abbiamo definitivamente liquidato l’immaginario ottimistico della globalizzazione, dopo che era già stato duramente messo alla prova con la crisi economica del 2008. Un immaginario che era parte della costellazione del pensiero post-ideologico, sulla base del quale si pensava che fossimo ormai in un’epoca in cui regnasse solo il soft power, che la politica di potenza fosse ormai un fatto del passato, che l’integrazione economica globale sarebbe stata sempre prioritaria rispetto ai fenomeni politici. Dominava la convinzione di un Novecento ormai abbandonato, ma la guerra ha sepolto questo lungo incanto. In Italia, poi, dopo la fase della Seconda Repubblica, del berlusconismo e del populismo, con la vittoria di Giorgia Meloni e di un partito che ha le sue radici nel post-fascismo, siamo tornati a vedere all’azione un soggetto politico che si avvale certamente di strumenti populistici ma che insegue un programma ideologico conservatore chiaro e distinto. È tornata al governo una destra strutturalmente di destra, e quell’evanescenza ideologica che pensavamo di percepire durante il lungo arco berlusconiano non c’è più. Ma del resto non poteva essere altrimenti: è impossibile pensare una politica senza ideologie. Il pensiero politico, infatti, ha sempre una componente ideologica. Questo è un principio critico che non si può dimenticare o eludere nell’analisi dei fenomeni sociali – ideologia e critica sono due opposti che si accompagnano sempre, se si vuole l’ideologia è l’ombra della critica. Insomma, non esiste una forma di pensiero sociale e politico aideologico, chi lo sostiene mente ideologicamente.
Che radici sociali e culturali ha allora il discorso, svelato come ideologico, sull’“epoca della fine delle ideologie”?
Manuel Anselmi: A mio avviso l’autore più utile in tal senso è Stuart Hall, il quale, in quel contesto privilegiato che era la fucina neoliberale thatcheriana, parlò della nascita di un common sense neoliberalism, cioè di un senso comune egemonico che si sarebbe diffuso su scala transnazionale grazie ai processi della globalizzazione e che ha trovato un ulteriore impulso con la fine della Guerra fredda. La riflessione situata di Stuart Hall, che riprende con un’intelligenza unica il pensiero gramsciano in un contesto totalmente diverso, quello della Gran Bretagna degli anni Ottanta, riesce a decostruire il discorso nascente e trionfante di Margaret Thatcher, che si proponeva come modernizzante e aideologico. Stuart Hall aveva capito che quel discorso stava producendo una nuova egemonia a livello globale – che raggiungerà un’ampiezza e un radicamento che non ha pari per nessun’altra ideologia contemporanea. Certo, la categoria di neoliberalismo o di neoliberismo a volte può risultare problematica: nella collana che dirigo (Lessico democratico, per Mondadori Università), Giulio Moini, ad esempio, ha provato a ricostruire il percorso del neoliberismo (Neoliberismo). Stiamo parlando di un vero e proprio programma teorico e politico di alcuni ideologi del capitalismo che hanno creato un’etichetta generale, con mille differenze interne ed esterne (ad esempio rispetto all’ordoliberalismo) e che ha avuto una sua prima e sistematica attuazione con Thatcher e Reagan. Quindi, in concomitanza col declino delle ideologie novecentesche, si assiste all’ascesa di quest’ideologia che non si presentava come tale. Quello è il nodo genealogico del neoliberalismo, che sin dalla sua apparizione ha destato le attenzioni di importanti critici – si pensi al dibattito tra Stuart Hall e Bob Jessop. Un senso comune che fu ripreso e rilanciato, attraverso il termine “neutro” di modernizzazione, da Tony Blair e dai sostenitori della Terza via. La modernizzazione fu, anche per alcuni esponenti dei Democratici di Sinistra italiani, un vero e proprio mantra. Ancora oggi quella formula viene riproposta da epigoni come Renzi e Calenda, con i risultati che vediamo. È importante concentrarsi su questo termine, “modernizzazione”, al di là dell’uso strumentale appena menzionato e a prescindere anche dalla grande e rispettabile letteratura critica sul tema. Prendiamo il concetto di modernizzazione nel suo significato minimo di processo di rottura di un ordinamento valoriale, sociale ed economico tradizionale e vigente: in un saggio giustamente definito seminale dedicato all’ideologia, l’antropologo Clifford Geertz spiegava che ogni volta che si presenta una fase di rottura dell’ordinamento tradizionale si apre lo spazio per una riconfigurazione ideologica. Geertz pensava in questi passaggi non tanto alla lettura sulla modernizzazione quanto piuttosto ai cambiamenti di paradigma di Thomas Kuhn, suo vicino di stanza. Ecco, a mio avviso l’indicazione di Geertz rimane ancora oggi particolarmente fruttuosa nello studio della nascita delle nuove ideologie e dei fenomeni di ideologizzazione in genere. L’ideologia non solo è una categoria prettamente moderna, ma essa si rinnova coi processi di modernizzazione – intesi, ancora una volta, come rotture di un ordinamento vigente. Per questo la Gran Bretagna thatcheriana è un periodo paradigmatico su cui ci soffermiamo troppo poco e che invece aiuta a capire anche molte delle nostre dinamiche contemporanee.
Se l’ideologia ha la sua genesi nella rottura, da un punto di vista analitico una distinzione “classica” come quella di Karl Mannheim tra socialismo, liberalismo e conservatorismo rimane ancora pertinente? Il neoliberalismo thatcheriano e il neoconservatorismo post-fascista di Meloni rientrano nel liberalismo e nel conservatorismo di Mannheim?
Manuel Anselmi: Mannheim è un autore fondamentale, che forse più di ogni altro ha contribuito allo sviluppo degli studi sull’ideologia, almeno per quanto riguarda le scienze sociali, ma, come tutti gli autori fondamentali, deve essere reinterpretato e contestualizzato. L’approccio oggi più in voga, molto diverso da quello di Mannheim, studia le ideologie politiche alla luce dei cambiamenti configurativi. È l’approccio morfologico di Freeden. Dobbiamo certamente tenere presente le classificazioni classiche, come quella di Mannheim, ma attualizzandole alla luce di questi nuovi orientamenti, molto fruttuosi, portati avanti negli ultimi anni. Le ideologie non sono pacchetti di idee invariabili ma cambiano con il mutare delle condizioni storico sociali. Ad esempio, Mauro Barisione, in un recente libro sulle ideologie (Polar Stars. Why the Political Ideologies of Modernity still Matter), ricorda molto opportunamente che ormai una classificazione delle ideologie politiche deve necessariamente tener conto del fenomeno dell’ibridazione. L’idea è che esistano delle “stelle polari”, delle categorie di fondo riprese dal pensiero otto-novecentesco, ma che poi sul terreno empirico le ideologie si mostrino piuttosto secondo un patchwork. Si può fare un lontano paragone con le religioni New Age: ci sono le grandi tradizioni religiose, ma poi l’individuo assembla sincretisticamente elementi differenti. Da un lato, dunque, bisogna tener presente le grandi distinzioni novecentesche, che mantengono dei forti orizzonti genealogici, dall’altro però bisogna avere la consapevolezza di fondamentali differenze presenti nelle ideologie contemporanee. Per come è evoluta la società occidentale, ad esempio, le ideologie oggi sono per lo più individual based, mentre le grandi ideologie trattate da Mannheim erano collective based (fondate sulla classe, su grandi gruppi sociali, ecc.). Ciò che abbiamo ormai tutti sotto gli occhi in seguito alla pandemia è che c’è una grande capacità e flessibilità di costruzione delle culture politiche intorno alle esigenze dell’individuo (un esempio tra tutti è costituito dal complottismo). C’è uno schema di base che è individualistico, e ciò permette una maggiore ibridazione attraverso il patchworking. Questa, a mio avviso, è un’avvertenza analitica importante rispetto alle grandi tradizioni ideologiche del passato: un liberale classico come Norberto Bobbio avrebbe guardato con grande sospetto gli esiti neoliberali di decostruzione dello Stato su base individualistica.
Quali sono le altre differenze tra le ideologie contemporanee e quelle tradizionali?
Manuel Anselmi: Le grandi ideologie otto-novecentesche mirano alla trasformazione totale della società, sono ideologie teleologiche, di lunga durata e strategiche. Tutte le ideologie novecentesche – persino quella liberale (si pensi a Piero Gobetti) – pensavano a una rivoluzione, a una trasformazione generale della società cui doveva corrispondere un tipo sociale nuovo e quindi l’instaurazione di un ordine “totale”. Le ideologie contemporanee sono invece più tattiche, non certo di lunga durata – con l’eccezione forse del neoliberismo. C’è un rapporto diverso anche con l’enunciazione dei propri fini: una grande differenza è l’assenza di una dottrina. Nelle vecchie ideologie la dottrina, e lo spazio del dibattito dottrinario, era una parte fondamentale dell’apparato ideologico, mentre le ideologie contemporanee sono per lo più disancorate dalla dottrina e il dibattito sembra assente. Non ne hanno bisogno. Sono più tattiche, anche perché la politica contemporanea è tutta volta al presentismo. Altra grande differenza, infine, è che dottrina e orizzonte strategico dell’ideologia erano funzionali alla strutturazione dei dispositivi di mediazione e organizzazione della forza politica, in primis il partito. Una funzione oggi azzerata o ridotta ai minimi termini.
Il titolo del suo libro di prossima pubblicazione, Ideologie politiche, declina i termini al plurale. Perché questa scelta metodologica?
Manuel Anselmi: È l’esito di un dialogo con pubblicazioni recenti, di ambito soprattutto filosofico, come il volume di Galli. Prima di tutto c’è una differenza serenamente conseguente alla disciplina a cui si appartiene: le scienze sociali guardano ai fenomeni tendenzialmente nella loro pluralità – dunque alle ideologie come forme plurime e inevitabili del pensiero sociale –, poiché si ha sempre che fare con la dimensione empirica che è molteplice. Se c’è un lavoro di sussunzione in unità di questa eterogeneità, ciò avviene in un secondo momento, più teorico. Gli approcci filosofico-critici, invece, hanno l’abitudine a ragionare sulle grandi categorie. Sono due approcci differenti ma credo anche complementari. Chi concepisce l’ideologia come l’Ideologia con la I maiuscola si rifà a una tradizione nobilissima rappresentata dalla Scuola di Francoforte e che trova le sue radici nel Marx dell’Ideologia tedesca. Per questi interpreti è possibile un approccio “vero”, disincantato, all’ideologia – di qui il tema fondamentale dello smascheramento. Invece, gli autori che studiano le ideologie politiche nel loro aspetto plurale e inevitabile, e che quindi impostano il tema in termini di lotta delle ideologie – primo tra tutti Gramsci –, non leggono l’Ideologia tedesca bensì soprattutto la Critica dell’economia politica, dove Marx stesso abbandona una visione teoricamente più rigida in favore di un’analisi più realistica di questi fenomeni. Questi due approcci a mio avviso non sono inconciliabili: esistono delle ideologie che sono di sfondo per l’intera società (si pensi al consumismo per come ne parla Herbert Marcuse), per le quali viene da parlare effettivamente di Ideologia e per le quali l’azione critica dello smascheramento è fondamentale. Ma a quel punto bisogna studiare anche il rapporto tra l’Ideologia e le ideologie politiche come prospettive operative di azione politica. È necessario, dunque, un approccio multilivello: sullo sfondo ci sono le grandi ideologie (o, se si vuole, l’Ideologia), e poi gradualmente, all’interno di questo campo, la pluralità delle ideologie politiche che costituiscono la battaglia della politica vissuta. A separare troppo l’Ideologia dalle ideologie politiche più visibili si corre il rischio di feticizzarla. Così come è semplicemente miope pensare solo alle ideologie politiche senza tener conto delle macro-ideologie e del problema della falsa coscienza.
Qual è invece la differenza tra un approccio sociologico all’ideologia e quello proprio della scienza politica?
Manuel Anselmi: Nell’ambito delle scienze sociali gli studi sulle ideologie nascono con quelli che oggi vengono riconosciuti come sociologi. Due categorie hanno preparato il concetto di ideologia: quella di “formula politica” con Gaetano Mosca e di “derivazione” con Vilfredo Pareto. Ma è Mannheim il grande fondatore degli studi sull’ideologia. La scienza politica tratta sì dell’ideologia ma, soprattutto nel secondo Dopoguerra, subordina questa categoria a quella di “cultura politica”. Tale concetto ha avuto una grandissima diffusione, soprattutto nel corso dei Trenta Gloriosi, quando la democrazia liberale andava imponendosi e la scienza politica, ad esempio attraverso l’opera di Giovanni Sartori, rappresentava quasi una scienza politica istituente, che pensava all’ingegneria dei regimi politici. È in quella fase che le scienze sociali e la scienza politica americana misero a punto il concetto di cultura politica, che tende a sovrapporsi a quello di ideologia senza però esaurirlo. Le ideologie sono forme di pensiero prospettiche, che forniscono ai gruppi una direzione di azione e trasformazione della realtà. Il concetto di cultura politica, ha invece a che fare con la cultura civica, indica un sistema di pensiero di sfondo del cittadino.
Un’altra categoria che sempre più viene proposta come alternativa all’ideologia è quella di immaginario.
Manuel Anselmi: Di sicuro la categoria di immaginario è più forte di quella di cultura politica e anche più affascinante, poiché ha a che fare con la capacità di produzione simbolica della società. L’immaginario è stato un concetto elaborato con forza, soprattutto nella fase post-marxista (a partire da Cornelius Castoriadis), per indicare i processi di istituzionalizzazione della società pensante. Il rapporto tra immaginario e ideologie politiche è, a mio avviso, molto simile al rapporto che intercorre per i linguisti strutturalisti tra langue e parole: esiste una lingua (langue) con tutti i suoi segni e le sue sfumature semantiche, che si trova visualizzata nel dizionario e le cui possibilità linguistiche seguono delle caratteristiche socioculturali condivise da un vasto gruppo di persone. Poi c’è l’azione della lingua nel parlante e nei singoli gruppi sociali (la parole), che si caratterizza secondo finalità e contesti specifici. Allo stesso modo, si può dire che l’immaginario ha una funzione sociale di sfondo; la singola ideologia politica attinge da questo sfondo ma ne trasporta gli elementi su una base operativa e trasformativa, cioè sul piano della lotta politica congiunturale. L’ideologia neoconservatrice con elementi post-fascisti di Meloni attinge abbondantemente ad un immaginario neoliberista, ad esempio, ma poi lo declina e lo operativizza in funzione del posizionamento ideologico a destra del partito. Per questo è importante studiare immaginario e ideologia senza escluderli reciprocamente, ma senza neanche sovrapporli: hanno due funzioni analitiche differenti. Come ha detto Claude Lefort, l’immaginario è il pensiero della società, mentre l’ideologia il pensiero sulla società.
Come si lega oggi la produzione ideologica all’attività politica e riflessiva dei gruppi sociali? Lei diceva che sempre più le ideologie sembrano essere poco più che uno strumento tattico.
Manuel Anselmi: La definizione di Freeden vuole che le ideologie siano un set di idee che servono ai gruppi per interpretare il mondo e per orientare l’azione. C’è una fase interpretativo-ermeneutica e una orientativo-pratica: non a caso Althusser parlava di “funzione pratico-sociale” dell’ideologia. In una prospettiva morfologica, la cosa interessante è che le idee hanno una loro configurazione, diventano habitus, assumono una geometria variabile. Questo spirito di adattamento e di assimilazione plastica delle ideologie è molto più evidente negli ultimi decenni. La grande differenza, ad esempio, tra le ideologie conservatrici attuali e quelle novecentesche è che oggi c’è una maggiore necessità di adattarsi e occupare spazi assorbendo tradizioni anche diverse tra loro. È utile tornare su questo esempio perché si tratta dell’elefante nella stanza della politica italiana attuale: è interessante l’avidità adattiva e assimilatrice di Fratelli d’Italia nel mettere insieme tradizioni molto diverse allo scopo di superare – o mascherare? – la provenienza post-fascista. Non è facile mettere insieme tradizioni differenti come quella di Roger Scruton, di Alain de Benoist e una concreta posizione filoatlantica…
Il populismo è stato definito, con una formula molto citata dagli studiosi, una “thin ideology”. Lei ha lavorato a lungo sul populismo, si ritrova in questa definizione?
Manuel Anselmi: A conferma del fatto che il dibattito scientifico sulle ideologie è proseguito negli ultimi decenni in maniera molto fruttuosa c’è che la teoria più importante – per quanto criticabile – sul populismo si appella proprio all’ideologia, riprendendo la sistemazione teorica di Freeden. Cas Mudde applica infatti la proposta teorica della thin ideology al populismo contemporaneo, fornendo una chiave di lettura “ideologica” per il fenomeno politico contemporaneo più importante. C’è in verità da dire che Freeden stesso ha criticato quest’uso della categoria di thin ideology da parte di Mudde – impiego che in effetti è più che altro operativo. Il mio è un punto di vista molto diverso, più vicino a quello di Nadia Urbinati, ad esempio. Vedo il populismo non tanto come un’ideologia sottile ma come una deriva demo-consensuale, e quindi come un problema strutturale delle democrazie contemporanee. Il neopopulismo ha delle similitudini col populismo sudamericano e con quello novecentesco; tuttavia, i neopopulismi contemporanei hanno a che fare con una trasformazione profonda della condizione della democrazia. Il rapporto tra ideologia e populismo è dunque molto più complicato di quanto sostenuto da Mudde. Questa deriva demo-consensuale delle democrazie ha infatti portato a una destrutturazione dei meccanismi di rappresentanza e di mediazione politica, creando un consensualismo forte erosivo dell’istituzionalità democratica. Il rapporto tra governanti e governati, un tempo mediato dai sistemi di rappresentanza democratico-liberali e dai corpi intermedi, è stato minato da questa profonda trasformazione in cui il neoliberismo ha svolto una funzione fondamentale e che ha avuto come fattore determinante una dinamica di depoliticizzazione mai vista prima. Se, come abbiamo visto, le ideologie non possono non esistere, allora quali forme assume il pensiero ideologico in un contesto così destrutturato, depoliticizzato e “immediato”? Assume delle forme più personalizzate e più dirette. È lì che dobbiamo riconoscere il rapporto tra ideologia e populismo. Il populismo non va dunque schiacciato sull’ideologia come thin ideology; esso rappresenta la risultante “consensuale” di una condizione di una destrutturazione multifattoriale della democrazia liberale – di sicuro di lunga durata ma che potrebbe anche preludere a nuove forme future di mediazione democratica – all’interno della quale le ideologie assumono nuove conseguenti forme, che vanno studiate.
In questo contesto populistico il nazionalismo sembra costituire una forma ideologica peculiare.
Manuel Anselmi: Esattamente. Il neonazionalismo assume delle forme diverse da quello novecentesco: nel contesto populistico non a caso parliamo più che altro di sovranismo. Questo perché il nazionalismo otto-novecentesco era quello dello State building, dell’espansione coloniale, della proiezione esterna della potenza statale e della strutturazione interna degli apparati dello Stato. Oggi quella forma di nazionalismo non esiste più, perché assistiamo a una riconfigurazione dello Stato nell’ottica di un depotenziamento della sua struttura. Allora quello spazio di rivendicazione politica viene espresso dal sovranismo, cioè dalla richiesta di uno Stato forte da parte di soggetti che chiedono protezione. Da un punto di vista analitico, è interessante capire le differenti forme della rivendicazione sovranista. Ci sono colleghi, come Oscar Mazzoleni, che da anni studiano il sovranismo economico o il producerism, cioè il fatto che chi produce si sente in diritto di rivendicare una cittadinanza superiore rispetto agli altri. Il tema principale nelle nuove forme ideologiche di destra è la protezione: nel producerism a essere protetti sono i sedicenti protagonisti dell’economia.
Qual è la differenza tra un populismo di destra e uno di sinistra, ad esempio a partire dal contesto sudamericano che lei ha studiato e che per alcuni è – o è stato – un punto di riferimento politico anche in Europa?
Manuel Anselmi: Quando si tratta di populismi, piuttosto che parlare di thin ideology andrebbe ricordata una cosa evidente ma raramente esplicitata. C’è stata una fase neopopulistica latino-americana, in cui molti Paesi hanno seguito un populismo dalla forte caratterizzazione politica progressista in reazione alla precedente fase fortemente neoliberale, dal chavismo a Cristina Kirchner e Rafael Correa. Quell’ondata è a mano a mano declinata dopo il 2010. Invece in Europa, a parte alcune eccezioni anche abbastanza criticabili, come il primo Podemos – su cui hanno scritto Francesco Campolongo e Loris Caruso in Podemos e il populismo di sinistra – e forse anche Syriza, i neopopulismi sono stati tutti di destra, con qualche ibrido come il camaleontico Movimento 5 Stelle. La prima ondata di neopopulismi europei nasceva addirittura prima di quella dei neopopulismi latino-americani – si pensi ad esempio alla Lega Nord – e aveva una connotazione persino di estrema destra, si pensi a Jörg Haider in Austria. C’è dunque una grande differenza geopolitica nel rapporto tra neopopulismi e ideologia. Inoltre, in quell’esperienza latino-americana c’è stata anche una produzione teorica rilevante sul populismo – Ernesto Laclau e Chantal Mouffe sono gli autori più celebri –, che ha prodotto un’auto-interpretazione in chiave ideologica. Laclau è un autore che avanza una vera e propria proposta ideologica, non si limita a studiare il populismo. È da lì che nasce l’idea del populismo di sinistra. L’unica forza politica che in Europa ha tentato di riprodurre l’esperienza bolivariana del neopopulismo di sinistra è proprio la primissima Podemos, tanto che i fondatori erano in diretto contatto con Chávez. Ma poi Podemos si è trasformata molto: si è istituzionalizzata e ha abbandonato quella iniziale postura latinoamericanistica. Tale opzione è rimasta dunque utopica in Europa, a parte il caso di Jean-Luc Mélenchon che però ha una natura molto francese. A mio avviso il populismo di sinistra, che vuole cavalcare la destrutturazione dello Stato rappresentativo utilizzando l’opzione populistica di produzione di consenso per rilanciare la sinistra, è un’opzione che si è alimentata come possibile ma che nei fatti non si è quasi mai realizzata. È stata tra l’altro un’ipotesi politicamente sempre meno frequentabile nella società europea, poiché se qui si stanno producendo nuove ipotesi progressiste su cui lavorare esse sono totalmente di altra natura, legate ai movimenti ecologisti e femministi. Lì io vedo la possibilità di crescita di una cultura ideologica di sinistra, non nell’adattamento di uno schema che è stato capace di grande inclusione in America Latina, mostrando però grosse difficoltà a mantenere lo Stato di diritto e a contenere le derive illiberali in una fase successiva. Ma che soprattutto ha (avuto) grandi difficoltà a essere realizzato nelle democrazie europee. Sono temi che vengono ben spiegati da Marco Damiani nel recente libro Sinistra senza classi. Personalmente, per quanto segua con interesse da anni queste proposte, credo che non sia domando il toro populista che si può far rinascere la sinistra. Il populismo è una deriva demo-consensuale – o, se vogliamo, uno sfiguramento della democrazia – che si abbina meglio alle forze neoliberali o conservatrici. Il caso di Orbán lo dimostra molto bene. Nonostante la seduzione iniziale, la sinistra ha una difficoltà enorme a usare quella formula di consenso per costruire una nuova proposta. Ed è dimostrato dagli esiti spesso grotteschi del sovranismo di sinistra.
Quale dovrebbe essere allora il compito della sinistra?
Manuel Anselmi: Non sono di certo la persona più titolata a dirlo, mi limito a rispondere in relazione al discorso che stiamo facendo. Abbiamo detto che non è percorrendo la via breve del populismo che la sinistra può essere rilanciata – il che è dimostrato dagli esiti spesso grotteschi del sovranismo di sinistra. Si tratta invece di comprendere profondamente la fase populista e il nuovo quadro ideologico globale che sta emergendo per produrre una nuova teoria politica di sinistra. Il che vuol dire avere una nuova teoria progressista dei conflitti sociali contemporanei. Se c’è una cosa che contraddistingue le fasi e le proposte populistiche delle democrazie è il superamento di una forma repubblicana del conflitto. Il populismo semplifica e rende astratto il conflitto sociale creando delle dicotomie antinomiche, mentre la democrazia costituzionale si basa su una radice repubblicana per la quale i conflitti sociali reali vengono rappresentati nel parlamento, dove si confrontano. L’immaginario populista disattiva il conflitto reale, estetizzandolo e rendendolo un astratto noi contro loro. È più una lotta metafisica del “popolo contro le élite” – si pensi al caso del Movimento 5 Stelle – che una lotta reale sulle battaglie sociali concrete. Una nuova sinistra invece dovrebbe partire da una rinnovata concettualizzazione dei conflitti e da una proposta di una loro mediazione, dopo che la lunga fase populistica ha contribuito a disattivare le formule di mediazione classiche. Oggi abbiamo delle forme egemoniche che provengono da ambiti totalmente diversi da quelli pensati dai Padri costituenti: il mondo dei media, degli algoritmi… Ecco, un primo passo potrebbe essere quello di individuare e descrivere i luoghi dei nuovi conflitti che sono poi anche i luoghi di produzione delle nuove ideologie. Lì si esprimono forme di egemonia e di dominio inedite: una forza progressista deve ragionare su come aprire un conflitto in quegli ambiti e su quali forme di mediazione proporre per contrastarle.
Lei ha citato nuove ideologie politiche come l’ecologismo o i neofemminismi. Come possono essere inquadrate dal suo punto di vista morfologico?
Manuel Anselmi: Come abbiamo visto, ogni volta che c’è un processo di trasformazione sociale in termini di cambio paradigmatico e quindi di rottura di un ordinamento “tradizionale”, si apre lo spazio per movimenti e per possibilità di azione nuove, e quindi per una riconfigurazione ideologica. Più che nuove ideologie, ecologismo e questioni di genere rappresentano nuovi fronti del conflitto ideologico contemporaneo, spazi di produzione di nuove visioni critiche ma anche di ostinata resistenza dei vecchi sistemi di pensiero. Nella sua ricchezza e varietà il pensiero femminista e LGBTQ+ sta determinando un ripensamento radicale della nostra società patriarcale e basata sul dominio maschile – In Italia ormai c’è una tradizione di pensiero che va da Carla Lonzi e arriva alle teoriche contemporanee, penso ai lavori di Federica Giardini e di Anna Simone. È un fronte di riconfigurazione critico-ideologica che per molti giovani si traduce già in cultura sociale e politica – anche se la politica istituzionale sembra accorgersene sempre poco. L’altro grande fronte è la prospettiva ecologista: c’è un dibattito enorme sulle green ideology e sulle possibilità politiche della transizione ecologica. Si deve compiere un monitoraggio costante di queste realtà che non sono rilevanti solo per gli analisti – penso agli studi di Daniele Conversi sui cambiamenti climatici dal punto di vista politico e sulle forme di green nationalism. Da semplice lettore di questi fenomeni, mi permetto di indicare un elemento a mio avviso interessante: se la cultura progressista occidentale si è sempre nutrita di un certo cosmopolitismo classico, ereditato dall’Illuminismo, che immaginava ottimisticamente un mondo di diritti in espansione e di cittadini globali, oggi i giovani esperiscono un cosmopolitismo negativo, distopico e per molti versi obbligato dalla situazione emergenziale; sono costretti a pensare il mondo a partire da una globalità negativa perché è il pericolo ad essere globale.
Che ruolo possono svolgere gli intellettuali in rapporto a queste nuove ideologie?
Manuel Anselmi: Nella storia degli studi sulle ideologie, lo studio sugli intellettuali è spesso correlato. Questo perché, come diceva il sociolinguista Teun Adrianus Van Dijk, le ideologie sono la controparte cognitiva dei conflitti sociali. Chi può dar voce ai conflitti se non gli intellettuali? Parlare di ideologie significa concettualizzare i conflitti sociali, che in alcuni periodi vengono ammorbiditi e offuscati, in altri riappaiono nella loro pluralità ideologica. Comprendere criticamente le ideologie determina giocoforza una riflessione sul posizionamento degli intellettuali. Così, nel dibattito recente, anche in Italia, si è tornato a discutere del rapporto tra intellettuali e politica. Si pensi al libro di Giorgio Caravale, Senza intellettuali, ma anche ai lavori di Mattia Diletti sui think tank, su cui sta per pubblicare un nuovo volume. Veniamo da un lungo periodo in cui l’intellettuale è stato eclissato dal prevalere di figure mediatiche glamourizzate che hanno occupato lo spazio pubblico. Dopo un lungo esilio interno negli apparati accademici e una neutralizzazione della sfera pubblica, invece, ora si torna a parlare di rapporto tra intellettuali e potere. Faccio parte di un gruppo di sociologi, “Sociologia di posizione”, che crede nel posizionamento critico-ideologico: chi lavora sulla società lo deve fare in modo critico sottolineando il proprio posizionamento nel contesto. Non esiste un pensiero aideologico, né dunque un intellettuale senza posizionamento critico-ideologico. Erroneamente, e ideologicamente, per anni si è sbandierata, la pretesa neutralità avalutativa dello scienziato sociale facendo torto allo stesso Max Weber, con l’esito di favorire altri approcci a dir poco protocollari del sociale. Tuttavia, proprio Weber in una delle sue celebri conferenze sottolineava che l’intellettuale è sempre situato, e lo faceva ricordando la celebre frase di Lutero: «Qui sto, non posso fare altro». Direi quindi, in conclusione, che non può esserci un’attitudine critica dell’intellettuale se non c’è consapevolezza del campo e delle sfere ideologiche in cui si è inseriti.