“Le nostre prigioni. Storie di dissidenti nelle carceri fasciste” di Giovanni Taurasi
- 17 Dicembre 2021

“Le nostre prigioni. Storie di dissidenti nelle carceri fasciste” di Giovanni Taurasi

Recensione a: Giovanni Taurasi, Le nostre prigioni. Storie di dissidenti nelle carceri fasciste, Mimesis / ANPPIA, Roma 2021, pp. 298, 24 euro (scheda libro)

Scritto da Carmelo Albanese

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Per lungo tempo la storia dell’antifascismo non ha goduto di uno statuto autonomo. La storiografia italiana del secondo dopoguerra, infatti, ha generalmente teso a ricondurre – e ridurre – le scelte e le azioni di opposizione al regime nel ventennio 1922-1943 alla più generale epopea resistenziale, quasi a rappresentare una sorta di preludio alla rottura dell’8 settembre, una “ginnastica” del corpo e dello spirito in vista del fatale momento dello scontro armato. Entro tale impianto, forme della dissidenza e traiettorie biografiche degli oppositori sono state prevalentemente osservate con una lente politica e dunque interpretate quasi sempre come manifestazioni più o meno pianificate da parte di gruppi politici più o meno organizzati nella clandestinità, ovvero come slanci – individuali e collettivi – eroici perché sostenuti da una matura consapevolezza politica o da una solida fede ideologica.

In anni più recenti, gli studi hanno messo in luce una realtà più sfaccettata. In primo luogo, infatti, pur riconoscendo l’importanza vitale dei nuclei e delle cellule delle principali forze politiche (in particolare dei comunisti), se ne è evidenziata al contempo l’estrema fragilità, sottoposte com’erano a continue retate e arresti dei propri leader che, soprattutto a partire dagli anni Trenta, incideranno significativamente sui tentativi di costituzione o ricostituzione dei gruppi. In secondo luogo, le indagini d’archivio, come anche i sondaggi su una eterogeneità di fonti via via divenute disponibili (interviste, diari, memorie ecc.), hanno consentito di introdurre nuove categorie analitiche nella lettura dei fenomeni di opposizione al fascismo, restituendoci un quadro ben più complesso nel quale assumono una centralità del tutto nuova le forme di antifascismo “popolare” ed “esistenziale” che, più che emanazione dei partiti organizzati, si configurano piuttosto come percorsi autonomi che nel loro dipanarsi incontrano le reti della dissidenza politica e nella stragrande maggioranza vi aderiscono, ma solo a quel punto e non necessariamente confermando la scelta di militanza nella partecipazione, dopo l’armistizio, alla guerra di Resistenza[1].

Giovani Taurasi in Le nostre prigioni sembra fare tesoro degli indirizzi emersi in questa nuova stagione di studi. L’autore conduce un’indagine sull’antifascismo a partire dai luoghi di detenzione dei dissidenti. Si tratta di un punto di osservazione interessante, finora poco frequentato dagli storici ma estremamente importante perché in grado di fornire una visuale su più livelli: dal percorso biografico dei protagonisti fino al momento in cui si chiudono alle loro spalle i cancelli delle carceri alle condizioni materiali delle strutture di detenzione, dall’organizzazione del tempo da parte dei detenuti alle interazioni con l’esterno e con l’amministrazione penitenziaria, dalle pratiche repressive del regime entro le mura carcerarie ai modi escogitati dagli antifascisti per sottrarvisi. Tale particolareggiato affresco, che l’autore traccia nei diciannove capitoli di cui si compone il libro, si basa sullo scavo meticoloso nella documentazione d’archivio riguardante un campione di un centinaio di antifascisti condannati dal Tribunale Speciale (fascicoli del Casellario Politico Centrale e del fondo “detenuti politici” conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato) e sulle informazioni ricavate dalla memorialistica edita e dalle raccolte documentarie e statistiche più note[2]. Per oltre ottanta di loro, poi, sono state redatte delle sintetiche schede biografiche, corredate dalle foto segnaletiche, inserite in appendice.

Prima di addentrarsi nel fuoco delle vicende carceraria, l’autore fornisce una rapida introduzione al sistema penitenziario fascista, oggetto di provvedimenti di “riforma” importanti tra il 1930 e il 1932 che appesantirono il carattere punitivo della detenzione introducendo una ampia casistica di atti e comportamenti vietati e una altrettanto articolata gamma di misure punitive[3]. Un aspetto rilevante di questa stretta repressiva riguardò la separazione tra detenuti politici – che dal 1932 vennero concentrati in gran parte nei penitenziari di Civitavecchia, Fossano e Castelfranco Emilia – e comuni, per evitare il rischio di trasformare le carceri in luoghi di propagazione del dissenso attraverso l’opera di condizionamento dei maggiori dirigenti politici reclusi. In effetti nella dimensione carceraria, i detenuti si aggregavano per appartenenza politica e davano vita a gruppi informali capaci di mantenere rapporti con l’esterno tramite gli stratagemmi più vari. Una dinamica di tal fatta favorì l’allargamento della discussione politica e il coinvolgimento di quanti, pur etichettati come “antifascisti” o “comunisti” dal regime, erano in realtà privi di una reale coscienza politica o al più era in corso di maturazione; così, ad esempio, Aldo Natoli, che, arrestato alla fine del 1939 insieme al gruppo di giovani comunisti romani, successivamente scriverà: «Ripensando a quegli anni posso dire che fu quello il momento in cui diventai comunista» (p. 63).

Giovanni Taurasi

Altiero Spinelli

Le testimonianze private concordano in modo unanime nell’individuare nelle condizioni igienico-sanitarie dei penitenziari e nella scarsa qualità e quantità dell’alimentazione (grandemente peggiorata con l’ingresso in guerra dell’Italia) gli aspetti più insopportabili della detenzione, oltreché la principale ragione di aggravamento di patologie preesistenti nei detenuti o di generazione di nuove (il caso di Antonio Gramsci, naturalmente, è continuamente ripercorso dall’autore). Ciò, del resto, viene confermato non solo dalle richieste di visite specialistiche o addirittura di trasferimento in altri istituti, ma anche dalle lettere ai familiari e dalle stesse relazioni mediche contenute nei fascicoli personali[4]. Soprattutto per tali disagi i familiari dei dissidenti sono spesso indotti a fare istanza di grazia al Ministero di Giustizia o al duce in persona, entrando però in uno stridente conflitto con i cari di cui si vorrebbe preservare l’incolumità, quando si tratta di donne e uomini dotati di una ferrea motivazione ideologica e antifascista. È il caso di Giovanni Roveda, tra i fondatori del PCd’I, o di Sandro Pertini, che nel 1933 scrisse al presidente del Tribunale Speciale dal sanatorio giudiziario di Pianosa di dissociarsi dalla domanda di grazia presentata dalla madre «perché sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme», redarguendo poi la stessa in altra missiva con parole estremamente dure: «se tu potessi immaginare tutto il male che mi hai fatto, ti pentiresti amaramente di aver scritto una simile domanda. […] Ma, dunque, ti sei improvvisamente così allontanata da me, da non intendere più l’amore, che io sento per la mia idea?» (pp. 78-79).

Lo stato di incuria delle carceri e le condizioni in cui erano costretti a vivere i dissidenti – che non di rado conducevano alla morte (come il comunista siciliano Francesco Lo Sardo, morto a Poggioreale nel 1931 dopo aver rifiutato ogni domanda di grazia. pp. 101-104) – erano strettamente connessi all’insorgere di malattie mentali, ciò che determinava il trasferimento di molti di questi detenuti nei manicomi giudiziari[5].

Nel carcere tutto si fermava mentre fuori la vita proseguiva. Le stagioni scorrevano inesorabili e il tempo veniva scandito dal calendario della vita carceraria, come i pasti e l’ora d’aria; «la prima necessità è quella di dominare il tempo», scriveva il comunista siciliano Girolamo Li Causi (p. 121), poiché il rischio peggiore era l’alienazione prodotta dalla vita routinaria. Attraverso la conoscenza di ciò che accadeva all’esterno, quindi, i detenuti cercavano di partecipare in una qualche forma agli eventi. A ciò servivano ad esempio le richieste di libri e riviste. In alcuni penitenziari, per la verità, filtravano notizie anche molto dettagliate (Altiero Spinelli, ad esempio, testimoniava di aver avuto accesso alla stampa clandestina), si discutevano documenti politici e si pretendeva che le valutazioni espresse venissero discusse dagli organi del partito (si veda su questo la testimonianza di Umberto Terracini, p. 126). Questi aspetti più prettamente legati alla dimensione politica sono affrontati nei capitoli centrali del volume. Il focus è rappresentato dai cosiddetti “collettivi”, gruppi formali creati dai detenuti politici all’inizio degli anni Trenta, inizialmente con lo scopo di superare l’isolamento tra i prigionieri e tra questi e la dimensione esterna, ma ben presto divenuti forme embrionali di assemblee democratiche nelle quali per la prima volta una intera generazione cominciò a sperimentare la discussione e il confronto («come Dante Alighieri studiava alla Sorbona, così noi studiavamo a Civitavecchia», scrisse Osvaldo Poppi. pp. 132). Nei collettivi, organizzati in prevalenza dai comunisti e diretti da quadri di partito, si studiava, si discuteva e si redigevano risoluzioni politiche e ordini del giorno che poi clandestinamente si facevano pervenire agli organi dirigenti all’esterno. Furono strumenti quindi di generale acculturamento poiché vi aderirono detenuti di orientamenti diversi o che in precedenza non avevano fatto parte di alcuna formazione politica.

Particolarmente interessante è il quindicesimo capitolo dedicato alle donne detenute[6]. La loro esperienza carceraria ha infatti alcune specificità, come emerge dalla tragica vicenda della anconetana Lea Giaccaglia (pp. 152-155): innanzitutto, il conflitto tra sfera pubblica e privata, in relazione alla maternità o, specularmente, alla rinuncia alla maternità, cui erano obtorto collo costrette coloro che avevano scelto la militanza politica e l’attività clandestina; in secondo luogo le condizioni detentive che per le donne, naturalmente, risultavano più degradanti («ogni giorno dovevo trovare il modo di fare la doccia sotto l’unico rubinetto della sezione – ricordava la comunista torinese Tina Pizzardo del carcere romano delle Mantellate – e, sdegnando il bugliolo, servirmi solo del cesso». p. 151) e devastanti, sul piano fisico e mentale, rispetto agli uomini (ad esempio non erano rari i casi di prigioniere alle quali si bloccava il ciclo pochi mesi dopo l’ingresso in carcere).

Giovanni Taurasi

Camilla Ravera

Il capitolo più lungo e per certi versi più denso è il diciassettesimo, dove si affronta il tema delle relazioni sentimentali spezzate dal carcere. Come rileva l’autore, «dai fascicoli dei detenuti e delle detenute e dal loro casellario politico riemergono le tracce di struggenti e dolorose storie d’amore, nelle quali la microstoria s’intrecciò con la grande storia, i sentimenti con le passioni politiche, le memorie con le rimozioni» (p. 169). Molte di queste storie, in realtà, non ci sono giunte, talvolta per volontà degli stessi protagonisti (è questo il caso della struggente storia d’amore tra Sandro Pertini e Matilde Ferrari, di cui Taurasi recupera l’intenso scambio epistolare dal fascicolo dell’ex Presidente della Repubblica nel CPC. pp. 169-175), talaltra perché imprigionate nei faldoni d’archivio (incredibile la parabola di Anita Pusterla e Natale Premoli, operai comunisti che condivisero l’arresto e la prigionia, si ritrovarono poi a Mosca e incapparono nella persecuzione staliniana. pp. 181-187).

Con la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, si spalancarono finalmente le porte delle carceri per i detenuti politici, anche se la tempistica di questa liberazione non fu uguale per tutti ma cadenzata sulla base dalla loro presunta pericolosità (gli ultimi ad essere liberati furono gli anarchici). Non tutti i detenuti politici parteciparono alla Resistenza, per le più svariate ragioni. In tal senso, come già si è detto, è possibile affermare che la lotta partigiana non costituì «l’esito cruciale e drammatico di un unico processo storico»[7], ma di certo le pratiche di insubordinazione che proseguirono senza soluzione di continuità per tutto il Ventennio, nell’affermare l’insopprimibile rifiuto della dittatura da parte di una minoranza (spontanea o organizzata) combattiva, costituirono un ancoraggio fondamentale affinché quella lotta assumesse caratteristiche uniche – sul piano militare, politico e culturale – nel panorama europeo.


[1] A titolo puramente esemplificativo cfr. G. De Luna, Le identità, in Id., M. Revelli, Fascismo, antifascismo. Le idee, le identità, La Nuova Italia, Firenze 1995, pp. 67-159; e G. Santomassimo, Antifascismo popolare, in Id., Antifascismo e dintorni, Manifestolibri, Roma 2014, pp. 17-60. Una conferma in tal senso in C. Albanese, Pompeo Colajanni e l’antifascismo in Sicilia. Un dialogo con Emanuele Macaluso, «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», N. 46, 2|2021.

[2] Si fa riferimento in particolare a A. Dal Pont, A. Leonetti, P. Maiello, L. Zocchi, Aula IV. Tutti i processi del Tribunale Speciale fascista, ANPPIA, Roma 1961, e Lettere degli antifascisti dal carcere e dal confino, Editori Riuniti, Roma 1962.

[3] A tal proposito cfr. A. Natoli, C. Ginzburg, V. Foa (a cura di), Il registro. Carcere politico di Civitavecchia 1941-1943, Editori Riuniti, Roma 1994.

[4] «Nel camerone la respirazione e la traspirazione dei dormienti aggiunte alle esalazioni della latrina e senza aerazione dall’esterno rendono l’atmosfera ammorbante, naturalmente priva di ossigeno – scrive Osvaldo Poppi, comunista reggiano, nella lettera di lamentela che invia al ministero di Giustizia dal carcere di Civitavecchia. A ciò si aggiunge la presenza di parecchi detenuti affetti da malattie polmonari, e perciò usufruenti in permanenza di diritto di più razione d’aria, che rendono in tali condizioni estremamente facile il contagio della loro malattia. Per i quattro mesi estivi il camerone è stato chiuso ermeticamente e dopo qualche ora l’atmosfera era così pestilenziale che le guardie di servizio, nel compiere la ronda, passavano di corsa col fazzoletto» (p. 30).

[5] Si tratta dell’1% degli oltre 44.000 antifascisti biografati nell’opera curata da A. Dal Pont, S. Carolini, L. Marucci, C. Piana, L. Riccò, Antifascisti nel Casellario Politico Centrale, 19 vol., ANPPIA, Roma 1988-1995. Su questo tema cfr. C. Albanese, Leto Fratini, scultore. Percorsi esistenziali e traiettorie dell’antifascismo tra Firenze e Milano, Pacini, Pisa 2017.

[6] Si tratta di una componente dell’internamento carcerario per nulla irrilevante: 124 condannate dal Tribunale Speciale (900 quelle deferite) e 145 inviate al confino (p. 149).

[7] A. De Bernardi, Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche, Donzelli Editore, Roma 2018, p. 130.

Scritto da
Carmelo Albanese

Dottore di ricerca in Storia contemporanea all’Università di Firenze. È interessato ai temi dell’antifascismo, della Resistenza e della società italiana fra le due guerre, con una attenzione particolare alla Sicilia. Tra le sue recenti pubblicazioni: “Leto Fratini, scultore. Percorsi esistenziali e traiettorie dell’antifascismo tra Firenze e Milano” (Pacini 2017); “Una «Resistenza perfetta» per l’unità autonomista. Il discorso pubblico di Pompeo Colajanni «Barbato» (1955-1960)”, in T. Baris e C. Verri (a cura di), “I siciliani nella Resistenza” (Sellerio 2019); “Napoleone Colajanni e il suo “feudo elettorale”. Relazioni e alleanze politiche in Sicilia in età giolittiana”, «Giornale di Storia Contemporanea», XXIV, 2/2020.

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