Le prospettive dell’Italia nella trasformazione tecnologica globale. Intervista a Enrico Noseda
- 30 Aprile 2024

Le prospettive dell’Italia nella trasformazione tecnologica globale. Intervista a Enrico Noseda

Scritto da Giacomo Bottos, Daniele Molteni

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Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un profondo cambiamento nel modo in cui le imprese guardano all’innovazione e alla forte crescita di startup, spin-off, incubatori, acceleratori e reti di venture capital anche nel nostro Paese.

Per riflettere sul significato e sulle forme dell’innovazione e per delineare la situazione dell’ecosistema dell’innovazione in Italia abbiamo intervistato Enrico Noseda: Chief Innovation Advisor di Cariplo Factory – hub di innovazione promosso da Fondazione Cariplo – e fondatore di Tech Italy Advocates una rete non profit che mira a creare un ponte tra gli esperti di tecnologia italiana e i principali hub di tecnologia a livello globale.

Enrico Noseda


Cosa vuol dire innovazione? Che funzione svolge e perché le imprese ne hanno bisogno? 

Enrico Noseda: L’innovazione è quel processo che permette a un’azienda di lanciare prodotti e servizi rilevanti per la sua audience in tempi rapidi, qualcosa di cui le imprese hanno estremo bisogno per la loro necessità di saper leggere i mercati. Questa necessità è aumentata con l’avvento del digitale che ha portato i mercati a trasformarsi radicalmente e cambiare a una velocità mai vista prima, con sempre nuovi player che offrono soluzioni tecnologiche e modelli di business innovativi, che in tanti settori sono riusciti a scalzare realtà che li dominavano da decenni. I primi impatti di questa digital disruption li hanno subiti il mercato dei media e quello della musica: pensiamo all’avvento di Spotify, che ha cambiato il modo di fruire di contenuti musicali, o a quello di Netflix che ha scalzato la posizione dominante di Blockbuster approfittando dello shift tecnologico dalle videocassette ai DVD alla visione on demand. Molte organizzazioni diventano obsolete perché non cambiano il modo in cui innovano e così vengono sostituite da altre più innovative. Nel mondo contemporaneo occorre che le imprese si adeguino alla velocità di trasformazione dei mercati, in cui i consumatori non sono più passivi utilizzatori di servizi ma detrattori o estimatori con potere di influenzare altri consumatori grazie a una visibilità globale. Il futuro non è più quello di una volta.

 

Come riporta annualmente il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, il settore delle startup è costantemente in crescita in Italia. Ma a cosa servono le startup?

Enrico Noseda: Le startup sono imprese caratterizzate da una cultura particolare che prevede una grande focalizzazione per ottimizzare risorse scarse, muovendosi molto velocemente in una messa a punto continua. La velocità porta a commettere errori che però permettono di imparare in fretta e il risultato è un “animale” che si muove sempre più veloce facendo sempre meno errori, e così via in un circolo virtuoso. Per la loro natura le startup sfruttano nuove tecnologie e testano nuovi modelli di business, perché non avendo una business legacy possono permettersi strategie più aggressive sul mercato. Soprattutto quando riescono a crescere mantenendo questa cultura diventano player strutturati, che impiegano un ampio numero di persone su tecnologie leading edge aiutando il progresso tecnologico ed economico di un ecosistema. In Israele, ad esempio, il settore dell’innovazione e del tech rappresenta il 15% del PIL e vale metà delle esportazioni del Paese. Inoltre, quando hanno successo e producono exit significative, grazie al fenomeno di distribuzione della ricchezza generata verso un ampio numero di dipendenti (stock option plans, work for equity, ecc.), portano a una “fertilizzazione” degli ecosistemi dove ogni exit genera talenti esperti con abbastanza risorse per intraprendere nuove iniziative. Skype, per la sua capacità di muoversi come una startup, è un esempio di questo circolo virtuoso: dal 2013 dal suo network sono emerse 50 startup, da cui ne sono gemmate 910, per un totale oggi di 65.000 dipendenti e 15 unicorni.

 

E in Italia a che punto siamo? 

Enrico Noseda: Secondo gli ultimi dati le startup in Italia sono circa 13.000 e sono in costante crescita. Unitamente a circa 2.000 piccole e medie imprese innovative queste occupano circa 62.000 persone, per un valore della produzione di oltre 9,3 miliardi di euro. Un interessante indicatore di come si muove il mercato dell’innovazione sono gli investimenti di venture capital, che sono ciò che nutre le startup. Quando nel 2016 è nata Cariplo Factory questo mercato ammontava a 152,1 milioni di euro, quindi davvero poco. Nel 2021 è arrivato a 1,3 miliardi, nel 2022 a 2,1 miliardi e nel 2023 siamo tornati a 1,3 miliardi, di nuovo al livello del 2021 con una tendenza negativa generalizzata a livello globale. Nel venture capital l’Italia è ancora fanalino di coda in Europa, ma tassi di crescita invidiabili ci stanno aiutando a recuperare l’importante gap che abbiamo verso molti Paesi europei. Il valore dell’ecosistema italiano delle startup attualmente è pari a circa 67 miliardi di euro di entreprise value, ma è aumentato di venticinque volte in dieci anni (più del doppio della media europea). Nel 2023 si è registrata una crescita del 27% (rispetto al 7% in Europa) e questo ci dice che stiamo andando nella direzione giusta. Ma il valore assoluto è equivalente a quello della Spagna nel 2020, a quello della Francia nel 2016 e della Germania nel 2015. Se guardiamo agli unicorni, ovvero le società che hanno un capitale di mercato superiore al miliardo, fino a tre anni fa l’Italia ne aveva 1, mentre nello stesso periodo in Spagna ce n’erano 8, in Francia 25, in Germania 29 e nel Regno Unito 44. La Francia conta un unicorno ogni 1.000 startup mentre l’Italia due unicorni ogni 20.000. Abbiamo recuperato negli ultimi due anni ma manca l’effetto domino della redistribuzione della ricchezza portata dalle exit significative. Ci arriveremo.

 

Qual è, oltre alle startup, la situazione dell’ecosistema dell’innovazione in Italia? Quali i punti di forza e quali le cause che ne limitano lo sviluppo? 

Enrico Noseda: L’ecosistema dell’innovazione in Italia è in forte crescita e negli ultimi cinque anni è quadruplicato il valore di spin-off universitari, incubatori, acceleratori e reti di venture capital grazie alle ottime università del territorio e a ricercatori di alto livello. La ricerca universitaria, di solito, è il primo tassello di questa catena del valore, perché con una base scientifica importante è possibile ottenere una buona produzione di proprietà intellettuali (IP), di modelli e di soluzioni tecnologiche valide. Da qui nascono gli spin-off universitari, con interessanti startup o comunque talenti in grado di costruire startup di interesse e portarle sul mercato. Secondo la ricerca The State of European Tech l’Italia è un esportatore netto di imprenditori, che è sia una cattiva notizia che una buona notizia. Quando “esportiamo” imprenditori, o quando dall’estero reclutano i nostri developer, stiamo impoverendo il Paese. Ma quando questi professionisti tornano in Italia rappresentano un arricchimento, come accade in alcuni settori dove siamo particolarmente avanzati. Quindi il punto non è tanto combattere la fuga di cervelli quanto far sì che poi questi cervelli, dopo aver fatto esperienza all’estero, tornino per portare valore aggiunto. Riguardo ai limiti allo sviluppo in Italia paghiamo una scarsità di fondi di investimento, una burocrazia che non attrae capitali esteri e una mancanza generale di cultura internazionale, che porta molti startupper a vedere frenate le proprie ambizioni.

 

In che misura i fattori che hanno determinato l’innovazione in un contesto come quello della Silicon Valley sono esportabili altrove? Quali sono i fattori economici e quelli culturali? 

Enrico Noseda: Sono fattori riproducibili con difficoltà perché gli elementi principali risiedono in aspetti culturali che spesso si cambiano in generazioni. Nella Silicon Valley c’è una maggiore propensione al rischio, un utilizzo del risparmio e una cultura dell’innovazione diversa. Se pensiamo solo al concetto di fallimento vediamo come da noi questo sia sempre stato uno stigma e lo è tuttora, anche se con le startup stiamo iniziando a raccontare una cultura dell’errore diversa e a proporre un modello positivo. Il fallimento non è ancora socialmente accettato e spesso le persone che perdono il lavoro faticano a riproporsi altrove. La Silicon Valley invece si è sviluppata intorno all’idea che il fallimento sia un trampolino di lancio e questo aspetto è la punta dell’iceberg di una cultura dove non è presente il timore di lasciare un lavoro più sicuro per paura di non farcela. C’è poi anche il tema della mancanza di capitali nel nostro Paese, perché nella Silicon Valley con una buona idea e un background da imprenditore è possibile trovare i fondi più facilmente. Nonostante questi limiti, la creatività e la propensione all’imprenditorialità sono presenti anche da noi e lo vediamo nelle piccole e medie imprese di successo e orientate alla tecnologia del nostro territorio, anche se restano business con un mercato degli investimenti diverso rispetto a quello del venture capital che prevede una velocità di esecuzione superiore e dei ritorni di investimento rapidi.

 

⁠In Italia sembra che le aziende fatichino a innovare internamente. Esiste un modo per portare anche quelle storiche più grandi, magari solide ma a volte non così all’avanguardia, a sviluppare metodi innovativi?

Enrico Noseda: Le grandi aziende hanno risorse straordinarie – pensiamo a quelle finanziarie, al parco clienti, all’esperienza dei loro dipendenti e dei loro manager sul mercato – ma spesso faticano a portare in execution nuove idee a causa di processi obsoleti e lenti che non gli permettono di stare al passo con i rapidi cambiamenti del mercato. Oggi molte aziende non possono permettersi di operare in questo modo ma devono farlo come se fossero startup: in fine tuning continuo per riuscire a portare sul mercato velocemente quello che il mercato vuole. La prima leva è la cultura, perché spesso la cultura aziendale è ossessionata dal confronto e dalla sindrome del market leader per cui ogni azienda si racconta come leader in qualcosa, con i manager migliori e capaci di vincere ogni sfida. Questi principi sono radicalmente opposti al concetto di open innovation, che parte dal presupposto che le persone più smart al mondo non lavorano per l’azienda e devono essere cercate all’esterno avviando percorsi di collaborazione. Sviluppare metodi innovativi significa aprirsi al cambiamento, alla cultura dell’errore e alla ricerca anche esterna di risorse, tecnologie e processi.

 

Ponendosi dal punto di vista di un’impresa strutturata, quali sono le condizioni affinché possa beneficiare dell’incontro con una startup e, più in generale, dello sviluppo di pratiche di innovazione?

Enrico Noseda: La startup non è la panacea universale anche se spesso viene considerata dalle aziende in questo modo. Quando qualche anno fa molte organizzazioni hanno iniziato a puntare sulle startup con progetti di collaborazione questi progetti potevano essere distinti in due categorie: quelli veri e quelli finti. Con finti intendo quelli pensati per collaborare con le startup e dare un’immagine innovativa, ma che non partivano da un bisogno reale – quello che in gergo si chiama innovation circus. La startup e l’azienda sono animali di specie diverse e necessitano di un mediatore culturale che costruisca ponti e favorisca dialoghi perché il loro incontro possa essere funzionale. Per fortuna le aziende che incontro partono sempre di più dai loro bisogni reali, perché non serve necessariamente collaborare con le startup per innovare. L’opportunità più importante a mio avviso resta quella della costruzione delle idee interne all’azienda, con un approccio olistico all’innovazione che permetta di sviluppare soluzioni partendo dalla mappatura dei bisogni e dall’assessment dei mercati.

 

⁠Come lavora un innovation hub come il vostro? Quali sono i principali passaggi e i concetti fondamentali al centro di quello che fate? 

Enrico Noseda: Cariplo Factory è nata con lo scopo di fare da ponte tra grandi aziende e startup per creare collaborazioni. Abbiamo messo la parola innovazione – meglio ancora se sostenibile – al centro di tutto per sfidare continuamente lo status quo, attraverso l’identificazione di ciò che manca per avviare un lavoro di sviluppo di concetti e soluzioni da potare sul mercato attraverso la co-creazione con le aziende. Lavoriamo per integrare l’open innovation ai processi aziendali standard così da cambiare la cultura aziendale, con un’innovazione che parte dalla comprensione dei bisogni specifici, dalla mappatura dei prodotti e servizi e dai problemi da risolvere per capire come ottimizzare i processi aggiungendo eventualmente collaborazioni esterne. Proponiamo format che vanno da workshop innovativi a programmi di formazione, fino a eventi interattivi che prevedono la partecipazione di innovatori, startup e imprenditori con cui accompagniamo l’azienda nell’esecuzione di tutte le attività legate all’innovazione. La nostra idea è quella di permettere all’azienda di gestire la diversa velocità di execution per i propri prodotti e servizi in autonomia, per far sì che diventi indipendente nei suoi processi innovativi.

 

Con Cariplo Factory avete deciso di puntare sul venture building, creando un nuovo team di specialisti del settore. Da cosa deriva questa decisione e quali obiettivi vi ponete? 

Enrico Noseda: Il venture building è un’area sulla quale lavoriamo da anni con nomi diversi. Si tratta di portare le idee giuste a mercato velocemente partendo da risorse interne, per farle emergere con percorsi diversi attraverso il patrimonio di idee che un’azienda ha ma che spesso non hanno lo spazio di essere coltivate. Se l’idea è vicina al core business, aiutiamo i team interni a lavorare come una startup con processi e metodologie che accorcino i tempi. Mentre se l’idea non è vicina al core business possiamo svilupparla esternamente con risorse di mercato e con il nostro team, oppure coinvolgendo anche risorse interne all’azienda in una logica di co-creazione, sempre con l’obiettivo di portare il prodotto finito sul mercato. Sui progetti più grossi lavoriamo anche in partnership con Bridgemaker, un importante player tedesco che si occupa da molti anni del lancio di corporate startup che possono essere considerate spin-off dell’azienda.

 

Quali azioni si dovrebbero intraprendere per far crescere l’ecosistema dell’innovazione italiano, anche considerato quanto il tessuto economico sia in larga parte composto da piccole e medie imprese?

Enrico Noseda: Il principale obiettivo da porsi è quello di facilitare la crescita di startup che, rispetto a quanto accade nelle piccole e medie imprese, hanno cicli di ritorno dell’investimento molto brevi e generano valore entro dieci anni dall’investimento proprio per le dinamiche dei fondi venture capital. Questi cicli brevi permettono il modello di redistribuzione fra i partecipanti visto sopra, che crea potenziali imprenditori con l’esperienza e le risorse per diventare founder o investitori. L’obiettivo deve essere quello di “fertilizzare” l’ecosistema così da permettere l’avvio di questo circolo virtuoso: una startup di successo che genera nuove startup di successo creando investitori o attraendoli da tutto il mondo. Più in generale per far crescere l’ecosistema italiano a mio avviso dovremmo adottare alcune delle raccomandazioni dell’Italian Tech Alliance, l’associazione del venture capital italiano. Quindi, offrire incentivi per la deduzione delle perdite e la compensazione di minusvalenze e plusvalenze per i creatori di startup, con un ampliamento della defiscalizzazione degli investimenti, la detassazione del capital gain e l’incentivo di investimenti e acquisizioni da parte di grandi gruppi corporate, prevedendo anche deduzioni fiscali sui programmi di open innovation. Per quanto riguarda i talenti è necessario invece lavorare sull’attrazione e sullo scambio, con una tassazione agevolata per il rientro in Italia e il work for equity. Infine, dovremmo affrontare il problema della burocrazia riducendo la complessità e gli oneri di creazione delle startup, offrendo incentivi all’internazionalizzazione per attrarre startup attraverso uno snellimento procedurale con fiscalità agevolata che porti a una facilitazione degli investimenti.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

Scritto da
Daniele Molteni

Laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano, lavora come editor e collabora con diverse realtà giornalistiche. È interessato a tematiche riguardanti la filosofia politica, la politica estera, la geoeconomia, i mutamenti sociali e politici e gli effetti della tecnologia sulla società. Ha partecipato al corso 2023 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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