Scritto da Alessandro Strozzi
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Il contesto internazionale in cui le grandi imprese sono chiamate ad operare è cambiato significativamente negli ultimi decenni, portando anche ad importanti evoluzioni nel modo di operare delle figure professionali che si occupano di corporate diplomacy e relazioni istituzionali. Questa intervista a Simone Bemporad – Direttore della comunicazione e degli affari istituzionali di Assicurazioni Generali – affronta questi temi in riferimento al settore assicurativo e a come, al pari di quello bancario, esso risulti strategico per la sicurezza e la competitività del sistema Paese.
La corporate diplomacy è uno strumento usato dalle grandi imprese per intrattenere rapporti con gli attori sociali ed economici, collaborare con le autorità governative delle nazioni in cui sono presenti e gestire le relazioni con l’insieme degli stakeholder. Come si declina questa attività di “diplomazia privata” nel settore finanziario, in aziende come quella che lei rappresenta?
Simone Bemporad: Partiamo dalla storia delle Generali, azienda fondata nella città di Trieste il 26 dicembre 1831, sotto il nome di Assicurazioni Generali Austro-Italiche. Nasce in una Trieste che fa ancora parte dell’Impero asburgico, che diventerà italiana molto più tardi. L’aggettivo “Generali” indicava il fatto che la compagnia si volesse occupare di ogni ramo assicurativo: marittimo, incendi, vita, grandine. Nell’arco di pochissimo tempo arriva a contare uffici nei maggiori centri dell’Impero e nei principali porti d’Europa. La presenza in tanti mercati diversi fu fin dall’inizio una caratteristica del gruppo, vista la storica vocazione commerciale sia di Trieste che di Venezia, dove nel 1832 era subito nata la filiale per l’Italia. Le Generali non sono un gruppo italiano che poi è diventato internazionale, che si è diffuso all’estero attraverso una strategia di espansione – che pure ci sarebbe stata, e con risultati importanti –, ma ha piuttosto nel suo DNA il fatto di essere internazionale. Con una forte connotazione nazionale nei diversi Paesi in cui è presente – francese in Francia, tedesca in Germania, ceca a Praga e così via –, spesso Generali si è sviluppata tramite l’accorpamento di aziende del territorio. Se pensiamo alla Germania, le Generali hanno acquisito alla fine degli anni Novanta AachenMünchener, grande marchio storico del comparto assicurativo tedesco. Quindi è cresciuta continuamente integrandosi nei vari Paesi e giungendo così ad essere percepita come una presenza importante del territorio, e non come un corpo estraneo. L’idea alla base è quella di un gruppo unico con la testa in Italia, ma di casa ovunque operi. Un secondo aspetto della corporate diplomacy di Generali, oltre alla connessione con i territori in cui è presente, è la fortissima brand identity legata al leone alato, il Leone di San Marco, il simbolo di Venezia che divenne presto anche il simbolo di Generali rimpiazzando l’imperiale aquila a due teste. È fondamentale il mantenimento di un forte rapporto con dipendenti e agenti, finalizzato ad un coinvolgimento e ad una identificazione nel brand. La terza componente della corporate diplomacy di Generali è lo sviluppo del rapporto con i clienti, che ammontano a oltre 65 milioni nel mondo. A differenza di altri business, quello assicurativo è basato su rapporti personali. Quando si stipulano accordi che riguardano i propri risparmi, la propria sicurezza, la propria protezione, evidentemente si ha bisogno di qualcosa che vada oltre la semplice scelta di un buon prodotto: si vuole instaurare un rapporto di fiducia, umano e personale, che vada avanti nel tempo. Ci sono poi altre due caratteristiche più tradizionali della corporate diplomacy: il contatto con le comunità e le istituzioni locali. A tal proposito Generali ha lanciato un grande progetto, che abbiamo chiamato The Human Safety Net, attivo ormai in 23 Paesi nel mondo, che vuole essere un contributo dell’azienda su specifiche aree di difficoltà e disagio delle comunità locali dove opera, con un evidente coinvolgimento degli stakeholder locali. Passando al rapporto con le istituzioni, va detto che è sostanzialmente incentrato attorno ai temi della regolazione, essendo quello assicurativo un business altamente regolato. L’obiettivo è intrattenere un dialogo proficuo con legislatori e regolatori (sia a livello nazionale, sia a livello sovranazionale), per far sì che le leggi e le normative settoriali, che regolano un business con volumi monetari giganteschi – in Europa si contano 11 trilioni di euro depositati e custoditi dalle assicurazioni – guardino al lungo termine, nell’interesse dei clienti e di tutti gli stakeholder coinvolti. Occorre puntare al lungo termine per fare in modo che la regolazione non cada vittima di provvedimenti dettati da crisi contingenti, siano esse economiche, pandemiche o militari. Quello assicurativo è un business contraddistinto da un ciclo economico di lungo termine, cosa che è fondamentale che le istituzioni condividano, evitando interventi le cui modalità sarebbero più appropriate per quei business, specie nell’industria, caratterizzati da cicli più brevi.
La rappresentanza di interessi è un ambito che nel nostro Paese per lungo tempo è stato privo di una chiara regolamentazione. Attualmente il Senato della Repubblica è in procinto di esaminare la proposta di legge sul lobbying, approvata alla Camera dei deputati a dicembre 2021 con 339 voti favorevoli, 49 astenuti e nessun voto contrario. Non era mai successo in cinquant’anni che una legge su questo tema venisse votata in Aula. Nonostante sia accolta con favore, nella proposta di legge pare siano presenti alcune lacune. Tra queste spiccano la questione delle esclusioni dall’istituendo Registro dei rappresentanti di interessi e l’obbligo di aggiornare con cadenza settimanale l’agenda del portatore di interesse. Ritiene sia giunto il momento di normare la fattispecie della rappresentanza di interessi? Considera la proposta di legge adeguata oppure sono necessarie delle integrazioni?
Simone Bemporad: Se una proposta di legge si arena sui dettagli significa che non c’è la volontà politica di portarla a termine. Se non si fa è perché non vi è la volontà di farla, al netto dei dettagli – facilmente strumentalizzabili – del disegno di legge di cui ragioniamo, come gli aggiornamenti più o meno settimanali del registro. D’altra parte, è anche vero che la materia della rappresentanza di interesse è molto delicata, e una normazione imprecisa rischia di produrre danni maggiori di una mancata normazione o di creare troppe pastoie e zone grigie. Detto questo, ci si può mettere d’accordo su alcuni principi fondamentali, il primo dei quali, imprescindibile, deve essere la trasparenza. Già oggi chi è un rappresentante di interessi e chi svolge attività di advocacy sa che vi sono rischi consistenti nel manipolare i dati e le informazioni relative alla propria attività. Quando oggi si tenta di argomentare l’introduzione di norme a favore di quello o quell’altro settore, ci si confronta necessariamente con una vastità di fonti informative, un’ampia capacità di analisi e una intensa esposizione al dibattito pubblico – e questo riguarda non solo le aziende, perché è importante ricordare che l’attività di lobbying viene svolta anche da governo, autorità pubbliche, ONG e così via, poiché chiunque appartiene ad un’organizzazione ha degli interessi da rappresentare. Quando un portatore di interessi vuole sostenere una tesi in merito ad una determinata legislazione, non ci devono essere dubbi su chi parla, cosa dice, e per chi lo dice. Nel caso delle assicurazioni, penso ai rapporti che si intrattengono con CONSOB, IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni), Parlamento o ministri. La legge sul lobbying dovrebbe dunque partire da un forte impulso alla trasparenza. Qualcuno potrebbe obiettare che una totale trasparenza non sia nell’interesse dei lobbisti. Forse questo poteva essere vero in un’altra epoca, ma comunque – se fosse stato vero – non era né etico né corretto. Oggi, in ogni caso, le cose devono andare diversamente. Per concludere: in tema di lobbying la priorità è la trasparenza; non avendo segreti da occultare, non sussistono problemi nel rendere manifesta e palese la propria strategia di advocacy.
La complessità della rappresentanza di interessi è proporzionale alla complessità del segmento di mercato che si presidia. Notoriamente quello finanziario è un settore a grande densità regolatoria. Un’azienda come la sua come sviluppa e presidia le relazioni con le istituzioni, i regolatori e i supervisori nazionali, europei e internazionali e gli stakeholder?
Simone Bemporad: Il settore finanziario racchiude attività anche molto diverse tra loro, che in quanto diverse possono avere interessi contrapposti. A fronte del medesimo regolatore e legislatore, segmenti del settore finanziario perseguono direttrici non sempre convergenti. Basti pensare all’enorme differenza che c’è tra le banche e le assicurazioni. Per quanto riguarda il segmento assicurativo, l’attività di rappresentanza di interessi non può essere svolta solamente da un lobbista “tradizionale”, ossia una figura che ha la capacità di costruire un network ampio e di interloquire con le istituzioni, attraverso un preciso bagaglio di modalità e linguaggi. Questo mestiere, di per sé già complesso, va infatti accompagnato da una forte e strutturata competenza tecnica che non necessariamente il lobbista tradizionale possiede. In Generali chi dialoga con il regolatore deve nutrire una competenza tecnica, lavorando a stretto contatto con le figure tecniche delle aree finance, rischio, insurance, investimenti; come accade in altri settori complessi, si realizza una joint venture tra chi gestisce il network e comprende i macrotrend della legislazione e chi conosce molto bene il business. Di nuovo, elemento chiave per confrontarsi con i decisori sulle policy è l’interesse di lungo termine degli stakeholder coinvolti, a cominciare dai clienti. Proprio perché è essenziale evitare che le decisioni siano influenzate in maniera preponderante o sovradimensionata dagli shock di breve termine, il settore assicurativo si contraddistingue per un dialogo duraturo, per lo più proficuo e poco conflittuale, con legislatori e regolatori.
Un fattore cruciale nella gestione dei processi è quello relativo al tempo. La rapidità sembra oggi investire ambiti come quelli della finanza, delle relazioni istituzionali e della comunicazione. Per usare un’immagine: occorre cavalcare la tigre? Nell’ecosistema finanziario moderno, sapere gestire la rapidità e il volume dei flussi informativi è essenziale. Esemplificativa è l’attività sempre più importante nota come trading ad alta frequenza (high-frequency trading – HFT), basata su algoritmi informatici che rendono le negoziazioni molto più veloci di quanto qualsiasi essere umano possa garantire. Come viene gestito il flusso informativo e relazionale in un ecosistema così rapido? Come le pubbliche relazioni tengono il passo nel costruire credibilità e plasmare le attività aziendali sul mercato finanziario?
Simone Bemporad: Mi viene in mente l’ottimo libro intitolato Flash Boys: A Wall Street Revolt, scritto da Michael Lewis. Il libro indaga il fenomeno del trading ad alta frequenza (HFT) nel mercato finanziario statunitense; l’autore intervista e raccoglie le esperienze di diversi professionisti di Wall Street. Lewis conclude che l’HFT è utilizzato come metodo per anticipare gli ordini degli investitori; inoltre, suggerisce che gli ampi cambiamenti tecnologici abbiano in alcuni casi trasformato il mercato azionario statunitense dal “mercato finanziario più pubblico e democratico del mondo” in un mercato “truccato”. È vero che il business va molto veloce, soprattutto quello finanziario, influenzato dallo sviluppo della tecnologia; tuttavia, quando parliamo di pubbliche relazioni, gli interlocutori tendono a procedere alla stessa velocità. Quando pensiamo infatti a stakeholder che vanno dai media alle istituzioni, dai regolatori locali a quelli internazionali, ai peers con cui definire posizioni comuni del settore, tutti si muovono alla stessa velocità. La capacità più preziosa è quella di anticipare gli sviluppi futuri: la vera velocità è quella di arrivare per primi a parlare con lo stakeholder di riferimento e spiegare certe dinamiche e i loro effetti sul business, per proporre le soluzioni necessarie. Insomma, da sempre si vive in una realtà che è accelerata dallo sviluppo tecnologico, da quando l’uomo è comparso sul pianeta; dopodiché un dialogo o una decisione avvengono secondo tempistiche influenzate soprattutto della velocità con cui si diffonde la conoscenza, ma che oggi rimangono entro confini fisiologici e assolutamente gestibili. Anche perché, mentre certe attività vengono ormai eseguite dai computer e dalle macchine, tante altre richiedono sempre più di avere al centro il ruolo dell’essere umano.
Settori come quello assicurativo e bancario sono strategici per la sicurezza nazionale. Le minacce moderne superano, ormai, le frontiere fisiche ed estendono la sicurezza nazionale ad un livello olistico, richiedendo sempre più attenzione ai pericoli derivanti da fenomeni come le operazioni predatorie di investimento di soggetti esteri. Nei portafogli di banche e assicurazioni, inoltre, si trova la maggior parte dei titoli pubblici con i quali lo Stato assicura il proprio finanziamento. Quanto impatta la prospettiva securitaria sull’attività di relazioni istituzionali?
Simone Bemporad: La difesa di un’impresa ritenuta strategica – cioè un’impresa il cui indebolimento o il cui venir meno creerebbe degli effetti negativi sull’intero sistema a cui appartiene – passa per una soluzione che deve comprendere il rafforzamento dell’impresa stessa. Nel dialogo che si ha con i regolatori, ma anche con la politica, bisogna sottolineare che l’impresa deve essere messa nelle condizioni di avere un’elevata capacità reddituale, essere all’avanguardia nel proprio settore di business. Ciò non vuol dire violare il principio della fairness, drogando un’azienda che diventerebbe un gigante dai piedi d’argilla; al contrario, attraverso una legislazione intelligente deve essere fortificata. Normative come quella sul golden power, che esistono in moltissimi Paesi – basti pensare al CFIUS americano – sono più che legittime: un Paese, di fronte a comportamenti non trasparenti e aggressivi di un altro, può puntare a difendere la proprietà di aziende strategiche, limitando la capacità di soggetti terzi di avere rapporti commerciali o finanziari con esse. Oggi, a questo proposito, possiamo ricordare il tema delle sanzioni verso la Russia. Ogni azienda è potenzialmente in grado di adattarsi a questo tipo di azioni intraprese dal regolatore. Ciò che è importante ricordare è che i principi da tenere in considerazione sono quelli di reciprocità e proporzionalità, e la cosa principale è comunque che un’azienda strategica sia forte finanziariamente ed economicamente. Oltre agli assetti di controllo, un altro aspetto è la centralità della cybersecurity, che costituisce un terreno di guerra sotto altre spoglie. I danni cyber non sono solo quelli che ci suggeriscono le opere cinematografiche o i libri di Tom Clancy. Parliamo anche di continue micro minacce e indebolimenti ai danni di un’azienda, e qui la difesa non viene dal golden power, ma da una collaborazione pubblico privato sugli strumenti di cybersecurity.
La sostenibilità è un’altra tematica cruciale per le imprese oggi. L’iniziativa “Human Safety Net” del Gruppo Generali è parte del posizionamento dell’azienda su questo tema, come “perseguimento del benessere di una società nel lungo termine”, aiutando le persone delle comunità in stato di maggior disagio. Iniziative simili, frutto di una collaborazione a livello globale con ONG e imprese sociali, sono uno strumento etico e socialmente utile che allo stesso tempo “comunica” più di qualsiasi dichiarazione. Anche alla luce della crescita esponenziale della finanza sostenibile, quale ritiene sia il trait d’union tra sostenibilità, finanza e comunicazione?
Simone Bemporad: La sostenibilità si riassume nella capacità di un soggetto, sia esso un individuo, un governo o un’azienda, di perseguire gli interessi di lungo termine di tutti i propri stakeholder. Per quanto riguarda il business, significa saper conciliare la necessità esiziale di conseguire un profitto – non su di una prospettiva anno per anno – con quella di guardare agli interessi di dipendenti, collaboratori e arrivare fino alle comunità locali. Questo lo si fa in vari modi, anche con un’attività filantropica di concezione moderna come è quella dello Human Safety Net. The Human Safety Net è un’attività complessa che si svolge in più di venti Paesi nel mondo, che ha la finalità di andare incontro a specifiche categorie di disagio. Questo è fondamentale perché alcune differenze non sono superabili nel breve tempo, e quindi occorre creare le condizioni per un cambiamento strutturale futuro. In situazioni come queste, c’è bisogno di un intervento immediato, qui e ora, e la filantropia aiuta. Ma la sostenibilità è principalmente modellare il proprio business. Nel caso delle assicurazioni, immaginare prodotti che attraverso sistemi di incentivi e disincentivi generino comportamenti virtuosi – come per il tema della salute e del wellbeing. Questo si fa, da un lato, riducendo i rischi e, dall’altro, sfruttando le opportunità offerte dalla tecnologia. Sul climate change ci sono già tecnologie mature con costi accettabili, che occorre diffondere il più presto possibile. Un altro esempio pensando al settore finanziario è quello dell’istruzione finanziaria: un’attività su cui investire per generare benefici tangibili a tutta la società nel breve e nel lungo termine. La sostenibilità oggi non è filantropia, che deve certamente rimanere, ma è qualcosa che si deve alimentare nel core business. Nel caso di Generali, un assicuratore vende prodotti assicurativi, gestisce asset e fa investimenti: oggi non può che farlo in maniera sostenibile, attraverso prodotti che guardino a tutti gli stakeholder, ragionando nell’ottica di sostenere i propri profitti in modo continuativo, senza doversene pentire dopo cinque o dieci anni.
Quello sul rapporto tra pubblico e privato è un dibattito ormai annoso e articolato. Può l’impresa privata occuparsi dell’interesse collettivo, avere un fine al di là del profitto? A questa domanda lei ha provato a rispondere nel volume Imprese private e pubbliche virtù. Progetti e visioni in dialogo sul bene comune – edito da Marsilio, con la prefazione di Romano Prodi. Lo sfondo nel quale si inserisce il percorso dialettico è Venezia, città per cui sarà essenziale una profonda sinergia pubblico-privato al fine di tutelare il suo immenso patrimonio. Quale ritiene sia la ricetta per dar vita a “un sistema interconnesso” fra nazioni, cittadini e imprese, in una “visione olistica, onnicomprensiva” del mondo?
Simone Bemporad: Il tema del rapporto pubblico- privato è in effetti dibattuto da lunghissimo tempo e il libro si inserisce in tale dibattito. È una riflessione a due voci che ho realizzato insieme a Renata Codello, alfiere della gestione pubblica del patrimonio culturale, con gli illustri interventi di Ana Luiza Massot Thompson-Flores, Arthur C. Brooks, Maria Patrizia Grieco e Corrado Passera. Occorre mettersi d’accordo sul fatto che il contrasto tra l’impresa che si occupa solo di profitto e lo Stato solo dell’interesse pubblico non corrisponde più alla realtà. Oggi l’impresa, molto più che già in altre epoche, ha un ruolo centrale nella prosperità delle nazioni. Tutti noi abbiamo bisogno di governi che funzionino, fondati sul principio democratico, e di tecnologie che rendano migliore la vita dei cittadini; tuttavia, il motore primario della prosperità umana è la libertà, dunque la libera impresa e perciò la capacità del genere umano di mettere a fattore comune quella ricchezza meravigliosa che è il genio, le idee creative. Le imprese non nascono certamente solo perché un imprenditore “vuole fare dei soldi” e massimizzare il profitto. La nascita di un’impresa si fonda invece sull’idea di soddisfare un bisogno: non c’è solo uno sguardo alla bottom line del profitto – che pure è fondamentale, perché il profitto è il termometro della salute dell’impresa –, ma l’impresa deve portare alla diffusione della prosperità, del bene comune. Dunque piuttosto che dibattere sul se, si dibatta sul come le aziende possono giocare un ruolo nella promozione dell’interesse collettivo. Cambiare la cultura aziendale partendo dal basso, coinvolgendo tutte le persone, è la strada maestra per contribuire alla difesa dell’ambiente, alla sfera sociale e alla definizione dei criteri con cui la nostra società intende governarsi (ESG). Fondamentale è inoltre una maggiore collaborazione tra aziende, oltre a quella tra pubblico e privato: insieme i grandi attori d’impresa possono produrre risultati che da soli non raggiungerebbero. Abbiamo scelto Venezia come sfondo del libro perché, se pensiamo alla sua storia, a come era organizzata la Repubblica, ritroviamo questi valori: lo sforzo congiunto per la gloria della Repubblica, che poi è la gloria del singolo cittadino. Venezia ha prodotto per secoli grandi ricchezze attraverso l’imprenditorialità e la genialità delle sue figure eccezionali, ma i Dogi hanno sempre guardato a come fare in modo che a tale benessere potesse partecipare l’intera Repubblica. Venezia è dunque un modello.
Nella riflessione di James Madison, la Costituzione americana sarebbe servita a risolvere il problema degli interessi particolari, detti “factions” (fazioni), facendoli competere. Inoltre, sempre nel testo costituzionale americano, nel Primo Emendamento (1791) si sancisce “il diritto del popolo di riunirsi pacificamente e rivolgere petitions al Governo”. Il lobbying sembra quindi connaturato alla nascita degli Stati Uniti, e lo è ancora di più se pensiamo che la prima legge che ha regolato il fenomeno negli USA risale al 1946. Data la sua esperienza a capo delle relazioni istituzionali del gruppo Leonardo/Finmeccanica a Washington, che differenze ha riscontrato rispetto alle relazioni istituzionali così come vengono condotte in Europa?
Simone Bemporad: C’è una maggiore semplicità negli USA. I codici normativi sono molto più esili del nostro. Laddove la materia non è regolata da leggi è regolata dalle decisioni precedenti (common law). Regolazione attraverso poche leggi e molto buon senso, dunque. Negli Stati Uniti la normativa è di più facile comprensione e ci si muove più velocemente, in modo meno farraginoso e barocco, nel bene e nel male. Quando viene presa una decisione che penalizza il business è difficile fare quel lavoro di cesello e di contemperanza di tutti gli interessi che contraddistingue di più i sistemi europei. Qualcuno ci vede della brutalità, ma è anche vero che garantisce un rinnovamento e un avanzamento della società – parlando di aspetti positivi – che da noi è più lento. Il sistema americano garantisce già trasparenza nei rapporti tra privato e amministrazione, con un limite, che è quello del ruolo del denaro – molto visibile in America, anche se questo non significa che nella sostanza sia più esteso rispetto al contesto europeo. Centri di potere che sono in grado di muovere risorse economiche gigantesche hanno maggiori possibilità di influenzare il sistema decisionale. L’America però è una grande società libera, dove si commettono molti sbagli, ma poi si ha la forza per porvi rimedio, mentre non sempre da noi si riescono a fare riforme, per paura di sbagliare o di penalizzare qualcuno.
Il ranking della University of Pennsylvania “The Global Go To Think Tank Index” fornisce ogni anno una mappa dei think tank più prestigiosi al mondo. Una realtà che lei conosce bene, facendo parte da tempo di uno dei più importanti degli Stati Uniti, il Center for Strategic and International Studies (CSIS). La collaborazione fra think tank e aziende può diventare sinergica per la redazione di dossier e position paper, l’organizzazione di eventi e attività di networking con i policy maker. Quanto considera importante per chi si occupa di relazioni istituzionali far parte di un think tank? In Italia manca questa sensibilità?
Simone Bemporad: In Italia ci sono centri di ricerca universitari e think tank di grandi qualità, come ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), IAI (Istituto Affari Internazionali), FEEM (Fondazione Eni Enrico Mattei), IBL (Istituto Bruno Leoni), CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici) e CeSI (Centro Studi Internazionali). Tuttavia, la grande differenza rispetto agli USA è che lo spoil system fa sì che, con la formazione di un nuovo governo, anche le seconde e le terze linee dell’amministrazione vengano rinnovate, per rafforzare la cinghia di trasmissione tra l’elaborazione di policy e la loro execution. Ogni quattro anni il nuovo governo seleziona nuove leve di amministratori pubblici proprio attraverso i think tank. Queste operano come costruttori di conoscenze, di competenze, che consentono in modo completamente trasparente il passaggio per e dall’amministrazione, permettendo agli ex funzionari pubblici di dedicarsi all’attività privata e mettere a servizio la propria competenza. Si tratta in generale di un ciclo virtuoso. Dai think tank, all’amministrazione, per poi portare le proprie competenze nel settore privato. Si tratta di un modello assolutamente funzionante e di qualità. Pensare a una sua importazione diretta sarebbe però troppo semplicistico, perché entrano in gioco sistemi, valori e cultura istituzionale del singolo contesto nazionale. Sarebbe però particolarmente auspicabile rafforzare la struttura dei think tank già operanti, ad esempio, in Italia: nei rapporti con queste entità un professionista accresce le proprie competenze e stringe relazioni con chi domani sarà nell’amministrazione. Nel nostro Paese, dove c’è stato per un attimo un innamoramento nei confronti dell’“uno vale uno” e della dannazione dei competenti, possiamo guardare a quel tipo di sistema, che mira invece a garantire che la politica abbia il giusto apporto di competenza.
Viviamo in una fase di cambiamenti intensi e accelerati. Quali sfide principali vede per il futuro relativamente ai temi che abbiamo affrontato in questa intervista?
Simone Bemporad: Nella comunicazione e nelle relazioni esterne, le sfide future per un professionista sono molteplici. Innanzitutto, occorre coltivare la competenza e la conoscenza del business, che non vuol dire diventare un tecnico – una velleità illusoria. In secondo luogo, occorre prestare molta attenzione alle dinamiche della tecnologia, che sono trasversali e influenzano la capacità con cui le persone si informano. Infine, aspetto che riguarda molte altre figure professionali, è essenziale farsi sempre portatori di un sistema di valori deontologici a cui non si deve rinunciare. In questa intervista si è discusso di trasparenza, fairness, equità. Sono obiettivi ed elementi fondanti che devono essere perseguiti e tenuti al centro al di là dell’advocacy. La prosperità del mondo si regge sullo sviluppo economico e sulla democrazia, in sintesi sulla libertà. Se questi cardini vengono meno, la libertà è in pericolo, e tutto il resto di conseguenza.