Scritto da Luca Picotti
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Negli ultimi anni si è sentito parlare spesso di de-globalizzazione, oppure di ri-globalizzazione selettiva[1] o, ancora, di slowbalization[2], nella cornice di un’analisi generale sulle trasformazioni del sistema economico globale, a partire dall’infrastruttura concreta delle catene del valore. Il comune denominatore è la convinzione che la globalizzazione, così come intesa negli ultimi decenni, sia entrata in crisi o comunque in una nuova fase. Tre sono i fattori principali che hanno determinato questa tendenza: la sempre più accesa competizione tra Stati Uniti e Cina, la pandemia e infine la guerra in Ucraina. Da questi tre macro-fenomeni è possibile ricavare i profili più pregnanti della mutazione in corso. Ad esempio, la guerra economica e tecnologica tra Washington e Pechino ha alimentato il deflagrare di normative protettive e altri strumenti giuridici volti a subordinare le dinamiche di mercato a scelte governative, come nel caso degli scrutini degli investimenti esteri (CFIUS statunitense; Reg. 2019/452 Ue; Golden Power italiano), o dei controlli sull’export di tecnologie strategiche. La pandemia, e le relative implicazioni sulla fornitura di beni determinate dai rigidi lockdown iniziali (apparecchi sanitari, semiconduttori), ha mostrato la fragilità di catene del valore troppo estese, suggerendo strategie di accorciamento o regionalizzazione delle stesse; si è parlato infatti di riconduzione della produzione o della fornitura in ambito domestico (reshoring), in Paesi vicini geograficamente (nearshoring) o affini-affidabili politicamente (friendshoring), nonché di passaggio da sistemi di produzione just in time (scarsità di scorte di magazzino; produzione sincronizzata alla domanda) a sistemi di just in case (robuste scorte di magazzino). Dopodiché, la guerra in Ucraina ha ulteriormente enfatizzato tali interrogativi, riportando al centro del dibattito – dopo decenni di narrazione sulla globalizzazione inarrestabile, il mondo piatto e immateriale, la primazia dell’economico sul politico – la materialità dell’esistente, i poteri degli Stati, le sanzioni, nonché concetti quali l’autonomia strategica (si pensi alla dipendenza energetica dell’Unione Europea verso la Federazione Russa prima del 24 febbraio 2022). Nel complesso, si tratta di un nuovo contesto che ha spinto in molti a domandarsi cosà ne sarà della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta.
In questa sede si vuole offrire una prospettiva diversa o, meglio, porre lo sguardo sull’altra faccia della medaglia. Sebbene anche chi scrive sia suggestionato dalla letteratura sul reshoring, nonché in generale sulla ri-globalizzazione selettiva in un’ottica di accorciamento delle catene del valore, è allo stesso tempo necessario evidenziare una certa discrasia tra teoria e prassi, tra letteratura e suo recepimento da parte degli operatori. Per dirla con una provocazione: la globalizzazione è ancora qui tra noi nonostante una pandemia, una guerra in un Paese esteso come l’Ucraina e delle sanzioni a una realtà centrale nella fornitura di materie prime come la Russia. Al netto dei ritardi verificatisi nelle fasi più acute del 2020-2021 (specie per la congestione dei porti americani e i lockdown negli scali cinesi) e un sensibile aumento dei costi, le rotte marittime continuano ad essere costellate da portacontainer[3], i cieli hanno toccato di recente un massimo storico di voli[4], contratti, accordi e forniture segmentati in diversi Paesi hanno trovato modo di coordinarsi e re-inventarsi. I consumatori finali hanno ricevuto le loro merci, senza supermercati vuoti o lockdown elettrici, né tantomeno marcati tagli nel paniere dei beni disponibili. Le immagini delle persone al McDonald’s a Kiev, o per i negozi di Odessa, nonostante una guerra atroce sul suolo ucraino che dura da più di un anno, sono la massima espressione della funzionalità di quell’ingranaggio complesso e inarrestabile che chiamiamo globalizzazione. Ingranaggio che è, anzitutto, parafrasando Cesare Alemanni e i contenuti del suo ultimo libro La signora delle merci (Luiss University Press 2023), un cervello logistico, un insieme di meccanismi che riescono, anche in situazioni avverse, come negli ultimi tre anni, a muovere beni, trasformarli, ritrasferirli, in un insieme coordinato di operazioni che sfocia nel supermercato più vicino o, direttamente, a casa (pensiamo all’efficienza di un campione logistico come Amazon).
Questa suggestione non intende trascurare i ritardi, le difficoltà e i costi che gli operatori hanno dovuto sopportare in questi anni. E nemmeno l’inflazione che il consumatore finale sta subendo. Quanto si vuole evidenziare è il fatto che, nonostante una pandemia e una guerra, un deflagrare di sanzioni e controlli, ambizioni di reshoring ed esigenze di maggiore resilienza, la macchina logistica ha continuato a funzionare. La competizione tra Stati Uniti e Cina non impedisce alle portacontainer di partire dal porto di Shanghai per arrivare a quello di Los Angeles. La guerra in Ucraina e le relative sanzioni non hanno fermato del tutto gli scambi tra imprese occidentali e quelle russe (per un insieme di deroghe, incertezze, triangolazioni). La crisi dei chip nei primi mesi della pandemia, che si è riflessa nella telefonia e nell’automotive, non ne ha rivoluzionato la catena, quantomeno nei suoi elementi essenziali (pensiamo, inoltre, ai persistenti legami di Apple o Tesla con la Cina). Non è un caso che questa discrasia tra letteratura sulla de-globalizzazione e prassi degli operatori, tra queste due velocità diverse, si trovi anche nei primi dati disponibili.
Una recente ricerca del Centro Studi Confindustria[5] evidenzia tre temi fondamentali: il commercio di beni, nonostante tutte le avversità, è in buona salute; diminuiscono invece gli investimenti esteri diretti (IDE), frenati dalle normative protettive di cui si è fatto cenno e, in generale, dall’incertezza geopolitica che pesa sulla scelta di stabilire legami durevoli in altri Paesi; rimane debole il reshoring di produzione, mentre più agevole è quello di fornitura[6].
Lo studio sottolinea come, nel complesso, il commercio di beni sia risalito al 25% del PIL globale nel 2022, sugli stessi livelli pre-crisi finanziaria 2008, mentre i flussi di IDE sono caduti del 17% nell’ultimo triennio 2020-2022. Ancora: «Le catene globali del valore (GVC) si sono dimostrate molto robuste e persistenti. Gli scambi di beni intermedi (che entrano in nuovi processi di produzione all’estero) sono tornati ai livelli pre-crisi finanziaria 2008». Una fotografia che suggerisce due profili: da un lato, la resilienza della globalizzazione di beni – quella che passa per l’80% via mare – rispetto agli shock e alle complessità legislative (sanzioni, controlli in sede di dogane), testimoniata anche dalla esemplificativa infografica delle container nelle rotte marittime; dall’altro, il maggiore protezionismo nell’ambito degli IDE, accresciutosi negli ultimi anni anche come reazione alla forte penetrazione cinese (e di diversi fondi sovrani appartenenti soprattutto all’area geografica asiatica e mediorientale) nelle società strategiche occidentali, che ha condotto ad un aumento dei controlli governativi e anche a diversi veti (ad esempio, in ambito di tecnologie sensibili) – circostanze che hanno di fatto reso il mercato societario più incerto e meno appetibile per gli investitori esteri.
Ancora più interessanti sono le conclusioni dello studio di Confindustria in tema di reshoring: «Il reshoring di produzione è, in genere, una strategia più complessa rispetto a quello di fornitura, a causa di elevati costi irrecuperabili legati agli investimenti effettuati nel Paese di destinazione. Una delle condizioni necessarie è la presenza di reti di fornitura già strutturate e dunque in grado di avvalersi di forti esternalità positive nel paese in cui si rilocalizza l’attività produttiva. […] Il rientro di attività produttive nei Paesi dell’Unione Europea favorirebbe una reindustrializzazione, che però necessita di risorse umane e soprattutto di competenze specifiche che non sempre sono immediatamente disponibili. Il backshoring di produzione potrebbe comportare anche un aumento dei prezzi, laddove l’innovazione tecnologica non abbia reso più competitiva la produzione in-house rispetto all’offshoring; appare quindi auspicabile solo nei settori strategici». Lo studio continua con un focus sulla realtà italiana: «I dati raccolti nella survey del Centro Studi Confindustria e Re4It (Reshoring for Italy) sulle strategie di offshoring e reshoring delle imprese manifatturiere nel 2021 confermano un uso limitato delle scelte di backshoring di produzione (totale o parziale). Le principali motivazioni che hanno spinto le imprese a riportare a casa le attività produttive attengono all’aumento dei costi (connessi anche alla crescita dei Paesi di offshoring) e dei tempi nella gestione della catena globale di produzione. […] Il reshoring di fornitura è una scelta meno costosa sotto il profilo economico, in quanto non presenta costi difficilmente recuperabili; è attuabile solo in presenza di fornitori idonei nel Paese in cui l’impresa vuole rilocalizzare».
Sul piano generale, se, dunque, vi sono tendenze di reshoring (basti solo pensare alla menzione, da parte delle imprese, di termini legati al concetto di de-globalizzazione, che se nel 2005 era sotto le 10 volte al mese, nel 2022 ha superato le 60[7]), l’analisi concreta porta a ridimensionare le aspettative: una minoranza di imprese ha veramente attuato politiche di reshoring totale; spesso le stesse hanno riguardato più la fornitura che la produzione; piani di reale decoupling da economie asiatiche non ve ne sono nel breve periodo. Sul punto, l’economista Jostein Hauge ha evidenziato, sulla base dello studio Make UK[8], che se il 75% delle imprese coinvolte ha aumentato la propria fornitura da altre aziende connazionali, solo il 10% sta pianificando di ridurre la propria dipendenza dai fornitori asiatici nei prossimi due anni; di fatto «reshoring is accelerating, but on a “small scale”»[9]. Si pensi poi ai piani di reshoring “per decreto” avviati dagli Stati Uniti nel corso degli ultimi anni: il fallito tentativo di rinascita automobilistica a Wilmington, nel Delaware (ottobre 2009), tradottosi in un sussidio a Fisker Automotive ai fini della produzione di auto ibride che non ha portato a nulla; oppure la promessa di Trump nel 2018 dell’apertura (anch’essa sussidiata) di una fabbrica di Foxconn nel Wisconsin per occupare 13.000 posti di lavoro, altro fallimento[10]. Il punto è che non è possibile fare e disfare un ingranaggio così complesso per decreto. Non è solo questione di esigenze geopolitiche. Vi sono tempi, costi, capitale umano, competenze, investimenti. Non si torna ad essere potenza manifatturiera con la bacchetta magica. Certe catene del valore, pensiamo a quella dei chip, hanno raggiunto un tale livello di complessità – tra, per citarne solo alcuni, IP/Design statunitensi, macchinari/litografia olandesi, fonderie taiwanesi, assemblaggio cinese[11] – che «come ha osservato Chris Miller, […] le stesse persone che lavorano in un segmento anche nei più alti ruoli non sono realmente consapevoli dell’importanza degli altri segmenti, e per quest’assenza di conoscenza e visione strategica complessiva si commettono errori»[12].
Dopodiché, è abbastanza indicativo il fatto che nel 2022 il commercio tra Stati Uniti e Cina abbia quasi raggiunto un nuovo record[13]. I beni, specialmente quelli di consumo, continuano a viaggiare nei container. E anche per i materiali più sensibili gli obiettivi di friendshoring non sono così automatici e necessitano di tempo: «But supply chains don’t change overnight, and anyone expecting friendshoring to result in a quick and decisive uncoupling of the US economy from China will find little in this past year’s data pointing toward that result»[14]. Se da un lato, quindi, si registra un calo degli investimenti cinesi nel mercato statunitense (per i maggiori controlli nei settori critici) e l’ambizione di una nuova centralità manifatturiera, primazia tecnologica e indipendenza strategica americana tra Inflation Reduction Act (IRA), Chips&Science Act e Bipartisan Infrastructure Law (BIL), dall’altro l’interdipendenza tra le due economie rimane stretta. Non a caso, la stessa Janet Yellen ha riconosciuto come sia quasi impensabile immaginare, al momento, radicali decoupling tra le economie occidentali e quella cinese.
Cosa rimane dunque? A parere di chi scrive, l’intera infrastruttura logistica della globalizzazione ha dimostrato di resistere anche agli shock più radicali. Per meglio coglierne la complessità, servirà distinguere tra teoria e prassi. Nel caso del reshoring, tra le ambizioni – senz’altro presenti – di accorciare le catene del valore e la reale fattibilità, in termini di costi, tempi, competenze, capitale umano. Ancora, in tema di sanzioni, tra forma giuridica – la previsione della sanzione – e sostanza: eventuali triangolazioni, prassi delle navi fantasma (tipica della Corea del Nord), intermediari criminali come Viktor Bout, pratiche di riciclaggio come quella della succursale estone della Danske Bank[15], oppure semplicemente autorizzazioni da parte dell’autorità, buchi derivanti dalle incertezze tra i diversi quadri burocratici (ad esempio, in Italia, tra le Dogane e il Comitato di sicurezza finanziaria istituito presso il MEF), mancate attuazioni di fatto (secondo uno studio dell’Università di San Gallo meno del 10% delle imprese occidentali ha lasciato la Russia[16]).
Quanto preme sottolineare in questa sede è l’esistenza di più livelli e velocità. Su un piano vi sono le misure concrete che stanno ridefinendo la globalizzazione, nonché le tendenze geopolitiche che dominano il panorama globale: normative protettive, sanzioni, controlli sull’export, documenti di policy che invocano il reshoring, esigenze di indipendenza strategica, dinamiche internazionali che dividono il mondo in blocchi. Da questo punto di vista, è lecito, oltre che corretto, parlare di metamorfosi della globalizzazione. Sull’altro piano, vi è un’infrastruttura che ha raggiunto un livello tale di integrazione e complessità da essere in grado di resistere a shock pesanti come pandemia e guerra, oltre che a un quadro legislativo sempre più protezionista (ad esempio: sanzioni), re-inventandosi, trovando nuove forme, sicuramente non smettendo di funzionare. Un ingranaggio che ha dimostrato di essere efficiente anche nella fragilità e che è composto da persone, investimenti, capitale umano, competenze, contesti fertili, tanto che ogni prospettiva di reshoring deve misurarsi con la sua realizzabilità e con tempi mai rapidi. È questa cornice che qui si intende evidenziare. Ed è alla luce della stessa che ci si azzarda ad abbozzare un sistema a doppio binario per i prossimi anni: la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta (rotte marittime, container, logistica, just in time) continuerà, in un modo o nell’altro e salvo cigni neri, a operare per i beni di consumo e di larga scala, in un’interdipendenza di fatto tra le maggiori economie (con l’incognita di quanto sarà profonda la cesura con la Russia). Per quanto concerne i settori più strategici, talune dinamiche di reshoring saranno inevitabili e parallele al maggiore protezionismo sul piano degli investimenti esteri (sarà sempre più difficile, ad esempio, per un’impresa cinese acquisire la maggioranza del capitale di un’impresa americana attiva nell’intelligenza artificiale o nel design dei chip); non sarà una strada facile, per talune filiere parrà quasi impossibile, ma dei margini di manovra verranno trovati; in questo senso, e nell’ambito di questo binario, una sorta di ri-globalizzazione selettiva potrebbe emergere.
Nel complesso, la globalizzazione rimarrà. Sarà semplicemente più complessa, meno scontata, un percorso non lineare ma costellato da buche, deviazioni, imprevisti. Un groviglio di normative protettive, sanzioni, controlli doganali, rischi geopolitici (per non parlare della questione ambientale, qui non trattata), istanze di indipendenza strategica. Questo aumenterà l’incertezza del diritto e i costi per gli operatori (di compliance, assicurativi, di trasporto). Di conseguenza, con tutta probabilità, anche il livello di inflazione in generale sarà più alto di quello cui si era abituati.
Un ultimo appunto? In questa rinnovata attenzione rispetto ai profili strategici (autonomia energetica, nei materiali critici ecc.), è bene evitare di finire nella trappola per cui, se tutto è strategico, nulla più lo è. Sarebbe auspicabile conservare un minimo di interdipendenza e cooperazione, anche tra attori che appartengono a sistemi valoriali diversi. Se la pace degli scambi economici era un’illusione, non per questo bisogna gettare via il bambino con l’acqua sporca. Altrimenti, il rischio è quello di trasformare legittime preoccupazioni strategiche in scenari di autarchia e chiusura, con annessi tutti i relativi pericoli[17].
[1] Si veda Gianmarco Ottaviano, Riglobalizzazione. Dall’interdipendenza tra Paesi a nuove coalizioni economiche, Egea, Milano 2022.
[2] Emilio Rossi, Deglobalization or Slowbalization?, «Aspenia online», 16 maggio 2022.
[3] MarineTraffic: Global Ship Tracking Intelligence | AIS Marine Traffic
[4] Leonard Berberi, Voli, il record del mondo: oltre 262 mila decolli in un giorno, mai così tanti nella storia, «Il Corriere della Sera», 22 luglio 2023.
[5] Ricerche Centro Studi Confindustria, Catene di fornitura tra nuova globalizzazione e autonomia strategica, primavera 2023.
[6] Quest’ultimo dato riguarda un focus specifico sulla realtà italiana ma vale in generale anche per gli altri Paesi occidentali.
[7] Corporate talk of deglobalization has hit a new high — Caracal | Geopolitical Business Communications
[8] Operating without Borders – Building Global Resilient Supply Chains | Make UK
[9] Citazione dal thread su Twitter nel profilo dell’economista Jostein Hauge del 23 maggio 2022.
[10] Esempi riportati da Alessandro Aresu in un thread su Twitter del 14 gennaio 2021.
[11] In merito si veda Guido Alberto Casanova e Alberto Prina Cerai, Il futuro dei microchip, «ISPI online», 8 febbraio 2023.
[12] Alessandro Aresu, Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile della tecnologia. Intervista ad Alessandro Aresu (a cura di Luca Picotti), «pandorarivista.it», 31 ottobre 2022.
[13] Daniel Flatley, US-China Trade Is Close to a Record, Defying Talk of Decoupling, «Bloomberg», 17 gennaio 2023.
[14] Niels Graham e Mondrita Rashid, Is “friendshoring” really working?, Atlantic Council, 25 luglio 2023.
[15] Esempi riportati in Francesco Giumelli, Le sanzioni internazionali. Storia, obiettivi ed efficacia, il Mulino 2023.
[16] Simon J. Evenett e Niccolò Pisani, Less Than Nine Percent of Western Firms Have Divested from Russia, 20 dicembre 2022. Si tratta di uno studio molto interessante, ma senz’altro precoce. Nei prossimi mesi si avrà dati probabilmente più aggiornati.
[17] Sui rischi di un mondo a blocchi si segnala Luigi Federico Signorini, Perché è meglio cooperare anche con i Paesi che non condividono i nostri valori, «Il Sole 24 Ore», 7 aprile 2023.