Le terre rare, l’era digitale e il Grande Gioco sulla tavola periodica
- 20 Maggio 2021

Le terre rare, l’era digitale e il Grande Gioco sulla tavola periodica

Scritto da Alberto Prina Cerai

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«Il software si sta divorando il mondo»[1]

Marc Andreessen

Siamo a Cupertino, California. È il 25 gennaio 2012, negli Stati Uniti Barack Obama ha appena iniziato il suo secondo mandato presidenziale. In una fredda mattina d’inverno, una notizia scuote Wall Street. Apple ha appena superato il colosso petrolifero Exxon Mobile per capitalizzazione di mercato, conquistando il primato mondiale: 417,7 miliardi di dollari. Una vetta più volte contesa in seguito e infine ceduta all’ascesa di Big Tech come Microsoft, Google, Amazon e Facebook, ma ottenuta in pochi anni partendo dalla 85esima posizione. A trascinare l’azienda è la più grande intuizione del suo fondatore: l’Iphone. Le vendite della classe degli smartphone, un successo globale, plasmano l’economia di Stati Uniti, Taiwan e della Cina dove design e componenti vengono immaginate, fabbricate e assemblate. È un trionfo della globalizzazione, le cui lunghe catene del valore avevano contribuito a far dialogare software e hardware, tra una startup della Silicon Valley e una fabbrica di semiconduttori a Taipei. Ma come spesso accade, è il consumatore che sceglie cosa premiare: la sofisticatezza del prodotto, la funzionalità delle sue app, un marchio vincente. È il valore aggiunto che si separa da ciò che l’ha reso tale – miniere, laboratori, fabbriche, magazzini, uffici e centri commerciali. Quella presunta immaterialità del capitalismo digitale che abbatte i costi per i servizi delle ‘nuvole’ del web.

La rapida diffusione di questi e di molti altri dispositivi, che costituiranno i miliardi di device dell’Internet of Things, contribuisce a diffondere l’idea che la progressiva smaterializzazione dell’economia ci svincolerebbe dall’annosa questione delle risorse. Nel libro The Bet. Paul Ehrlich, Julian Simon, and Our Gamble over Earth’s Future, Paul Sabin ridiscute con sagacia l’annosa questione riprendendo la scommessa tra i due economisti[2]. Paul Ehrlich era divenuto famoso negli anni Settanta per aver modernizzato le tesi proposte da Thomas Malthus. Secondo la sua prospettiva, dal momento che la crescita della popolazione seguiva un andamento geometrico mentre la fornitura dei beni cresceva aritmeticamente, il pianeta si sarebbe ben presto ritrovato senza risorse sufficienti. Ehrlich suggerì che si sarebbero manifestati i primi segnali entro l’inizio degli anni Novanta, sottoforma di forniture ridotte e prezzi in aumento. Julian Simon riteneva, al contrario, che il progresso tecnologico spinto dalle forze di mercato avrebbe risolto quell’imminente conflitto. A carte scoperte, nel 1990 la popolazione era cresciuta del 20%, mentre i prezzi di mercato del paniere di metalli di base (rame, zinco, cromo, nickel e tungsteno) che i due economisti avevano scelto erano crollati del 58%. La tecnologia aveva sbaragliato le convinzioni di Ehrlich e riposto in soffitta la minaccia malthusiana.

L’adagio ricorrente nella storia dell’innovazione è che la tecnologia ci aiuterebbe a ridurre la nostra dipendenza materiale. È una tesi ripresa di recente anche da Jeremy Rifkin e Andrew McAfee che in analisi differenti, ma similari nel loro slancio profetico, ritengono che l’abbraccio tra tecnologia e capitalismo ci consentirà di raggiungere un maggior equilibrio tra risorse scarse e ambizioni illimitate. In particolare, McAfee suggerisce che il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile richiederà bensì più tecnologia e capitalismo per poter far fronte alle future sfide[3]. In passato ogni salto di modernità è stato possibile grazie alla scoperta e alla capacità di plasmare, a livello scientifico e industriale, nuove risorse: dai primi utensili di bronzo, passando dal carbone per la macchina a vapore fino al silicio nei microprocessori. Innovazioni che hanno innescato profonde trasformazioni a livello sociale, economico, politico e militare, oltre a spostare la nostra dipendenza verso un’altra materia[4]. Oggi, sono quantità infinitesimali di indio che permettono l’interazione tra le dita e lo schermo dell’Iphone, o polveri di europio e terbio che conferiscono le tonalità di rosso e blu, macchie di tantalio che regolano la carica del dispositivo fino al litio per la tenuta della batteria. Senza questi metalli rari, gli ingredienti essenziali che rendono la tecnologia smarter, smaller, stronger, il nostro mondo ritornerebbe alle performance tecnologiche degli anni Sessanta e Settanta. Vi sono tuttavia tre conseguenze da tenere a mente.

La prima, di carattere economico. Molti dei prodotti che costituiscono la nostra «dieta digitale»[5], sempre più vorace e pervasiva, e che vengono lanciati sul mercato non rendono obsoleti i dispositivi più datati. Per esempio, il tablet non ha rimpiazzato l’utilizzo del personal computer. Si tratta di un fenomeno che in termini economici è definito come «ridondanza tecnologica». Non solo è il riflesso di un atteggiamento consumistico, ma anche l’effetto strutturale dei cicli tecnologici: l’innovazione rende servizi e beni esistenti più economici, oppure ne genera altri di natura complementare. Prendiamo il telefono cellulare: man mano che è crollato il costo delle chiamate o delle connessioni internet sugli smartphone, il servizio si è massificato. Al contempo, però, per reggere l’onda d’urto più operatori sono entrati sul mercato per rafforzare l’infrastruttura, la rete telefonica e digitale, per reggere una maggiore interconnessione. Ovviamente tutto ciò è avvenuto con un crollo dei costi di produzione per effetti di scala, di efficientamento tra design e manifattura e di investimenti in ricerca e sviluppo. E qui ritorniamo alla scommessa vinta da Simon. Ad osservare in origine questo fenomeno fu uno studio americano sull’industria aeronautica del 1936, poi aggiornato e formalizzato in una serie di rapporti pubblicati dal Boston Consulting Group e curati dal suo fondatore, Bruce Henderson[6]. Henderson definì la «curva di apprendimento della produzione» come il costo di produrre un’unità in relazione al numero cumulato di unità prodotte. Conosciuta come Legge di Henderson, stabiliva che la riduzione unitaria nei costi di produzione di un prodotto standardizzato era approssimativamente costante per ogni raddoppio del volume di produzione cumulata. In breve, chi guadagna esperienza più in fretta in un processo produttivo avrà sempre un vantaggio nel ridurre i propri costi di produzione. Con evidenti ricadute in termini comparati rispetto ai potenziali concorrenti, come vedremo.

E poi c’è la complessità tecnica. Se da una parte gli avanzamenti tecnologici hanno avuto effetti su domanda e offerta di beni e servizi, contribuendo ad un notevole crollo dei costi marginali, dall’altra hanno anche ampliato lo spettro di utilizzo delle risorse. Per fabbricare il primo telefono cellulare, il DynaTAC 8000X lanciato sul mercato da Motorola nel 1984, servivano circa 35 elementi. Quarant’anni dopo, i più sofisticati smartphone ne richiedono l’utilizzo di 65-70, ovvero quasi i due terzi della tavola periodica. Verso la fine degli anni Novanta, Intel utilizzava soltanto 15 elementi per fabbricare i suoi microprocessori, tra cui l’elemento più abbondante, il silicio, e metalli rari come germanio e gallio. Oggi, ne utilizza quasi 60[7]. Lo stare al passo della Legge di Moore, secondo la quale ogni 18-24 mesi il numero di transistor per wafer di silicio raddoppia mentre si dimezza il costo di produzione, ha concesso di creare microprocessori sempre più veloci, efficienti e potenti. Ma aumentando la complessità intrinseca dei prodotti nell’ordine dei nanometri, i costi fissi di produzione sono raddoppiati: per rimanere sulla frontiera tecnologica e rientrare nei costi d’investimento, le catene di fornitura si sono allungate per raggiungere i prezzi più bassi mentre si sono al contempo erette notevoli ‘barriere all’ingresso’ in determinati comparti industriali, come quello della fabbricazione dei semiconduttori[8]. Questa scelta di catturare il valore aggiunto dell’innovazione nella dimensione digitale, nel software, e di esternalizzare rischi e costi della materialità dell’hardware con l’approfondirsi della globalizzazione ha però creato una grande vulnerabilità in termini securitari che oggi si acutizza nel salto di qualità della competizione industriale high-tech dovuto alla duplice transizione digitale ed energetica[9].

Infine, le dinamiche che osserviamo oggi. Questa crescente domanda di dispositivi tecnologici, con l’ascesa di classi di consumatori in quasi tutte le regioni del mondo, finirà per trascinare esponenzialmente la domanda di materiali[10]. I quali, per effetto di trasformazioni tecno-industriali e per supply chain costruite nel nome del just in time, diventeranno sempre più essenziali, e dunque strategici, per il posizionamento competitivo degli Stati nelle frontiere del futuro. Ed ecco il significato che acquisiva l’ascesa di Apple a scapito di Exxon Mobile: segnalava come le società avanzate fossero sempre più asservite alla tecnologia così come al petrolio e come l’economia digitale non riflettesse, di per sé, una equa distribuzione del benessere e un’immagine di una globalizzazione ‘piatta’. Perché la tecnologia non è mai neutra, ma riflette gerarchie costruite sull’accesso e controllo degli asset che la abilitano come infrastrutture, know-how e materiali. Come l’integrazione globale e tecnologica, di per sé un fitto network di filiere industriali e nodi commerciali che si intrecciano spesso in rapporti di potere politico[11]. E così, oggi, all’alba dell’era digitale e della necessità di un futuro più sostenibile, si rimescolano attori, equilibri e forze. Il tutto nella cornice di una trasformazione del capitalismo, «il moderno Proteo», a partire da una semi-sconosciuta famiglia di metalli rari al fondo della tavola periodica.

 

Le vitamine del capitalismo green-tech

Lungi dal promettere transizione senza conflitto e innovazione senza competizione, le nuove frontiere del capitalismo digitale e ‘verde’ sono destinate ad essere plasmate da queste dinamiche. L’ultimo rapporto della Banca mondiale snocciola numeri impressionanti. Per soddisfare la crescente domanda dalle tecnologie rinnovabili, e così raggiungere l’obiettivo di mantenere l’aumento delle temperature sotto i 2°C, sarà necessario estrarre il 500% in più di litio, grafite e cobalto[12]. Un recente report del National Intelligence Council prova invece a fotografare le ricadute internazionali di questo scenario al 2040. «La transizione dai combustibili fossili ha il potenziale di cambiare significativamente geopolitica ed economia […] diminuendo l’abilità dei Paesi di utilizzare l’energia come strumento di coercizione o di geoeconomia dal momento che i sistemi energetici diventeranno più decentralizzati». Tuttavia, il ricorso alle rinnovabili «aumenterà la competizione su certi minerali, soprattutto cobalto, litio per le batterie e le terre rare per i magneti dei motori elettrici e generatori», e dunque l’attenzione verso i Paesi ricchi di queste risorse[13]. Ma non sarà soltanto il rischio di replicare rapporti centro-periferia già visti in passato, con una governance opaca e la condanna alla ‘maledizione delle risorse’. In una fase di duplice transizione a livello globale, la possibilità di venire tagliati fuori dalle opportunità di catturare industrie, posti di lavoro e l’innovazione tecnologica in comparti trainanti rappresenta un dato di forte preoccupazione geopolitica anche per i Paesi sviluppati.

La corsa alle 3D – decarbonizzazione, digitalizzazione, decentralizzazione – è infatti anche una questione di filiere, asset e know-how in rapida ridefinizione nel mondo post Covid-19. E tra i vantaggi competitivi in questa nuova geografia delle catene del valore lo sarà sicuramente l’accesso sicuro, stabile e a prezzi di mercato alle materie prime. Le quali, a seconda della loro ‘essenzialità’ economica – deducibile dall’impatto che ne deriverebbe da un’interruzione nella fornitura, da un basso livello di sostituibilità, dal tempo e costo richiesti a sviluppare fonti alternative, dai volumi di consumo e dalla ‘domanda competitiva’ da diversi settori – e del supply risk (ovvero la probabilità di un’interruzione improvvisa) vengono comunemente classificate secondo una matrice che, in termini perlopiù qualitativi, può variare a seconda della sensibilità e della metodologia impiegati. Ad oggi, i rapporti ufficiali di Stati Uniti, Unione Europea, Giappone, Canada e Australia definiscono all’unisono le terre rare come i metalli rari più critici. Un’etichetta rimasta invariata a partire dal 2010, l’anno in cui la Repubblica Popolare Cinese (all’epoca sostanzialmente monopolista con il 98% della produzione) con modalità e tempi che restano ancora oscuri decise di bloccarne l’esportazione verso il Giappone in seguito ad una disputa diplomatica sulle isole Senkaku/Diaoyu. Da allora, la possibilità che la Cina potesse sfruttarne il valore geopolitico nei confronti dei Paesi importatori – l’UE ne è dipendente al 98% mentre gli USA all’80% – è rimasta una mera speculazione: seppur ritornata come spauracchio nel corso della guerra commerciale come ‘l’opzione nucleare’ in mano a Xi Jinping, è probabile che Pechino punterà a massimizzarne il vantaggio tecnologico a lungo termine. «Il vero valore delle terre rare è realizzato nel prodotto finale», dichiarò Gan Yong nel 2013, allora presidente della Chinese Society of Rare Earths[14]. Tra tutti i metalli rari critici, le terre rare rappresentano di per sé un trilemma di non semplice gestione: tecnologico, ambientale e non ultimo geopolitico.

Le terre rare non sono rare. Poiché sconosciute al momento della loro scoperta furono etichettate come ‘rare’. Classificate come 15 elementi, più scandio e ittrio, appartenenti alla famiglia dei lantanidi (numero atomico 57-71), sono divise usualmente in due gruppi: terre rare leggere (LREE), come neodimio, praseodimio e samario e terre rare pesanti (HREE) come disprosio e terbio. Sono mediamente abbondanti lungo la crosta terrestre, associate perlopiù a minerali argillosi, bastnäsite e monazite, quest’ultima contenente spesso uranio e torio. Le loro proprietà chimico-fisiche le rendono un ingrediente ubiquo nella tecnologia moderna: nell’elettronica (come gli Iphone e gli AirPods), nelle rinnovabili (come le turbine eoliche di General Electric e i motori elettrici di Tesla), nei dispositivi medici (i macchinari per la tomografia Philips), nell’hardware militare (gli F-35, i sottomarini classe Zumwalt, il sistema di difesa Aegis, i sistemi di comunicazione avanzati e di electronic warfare) e in applicazioni già esistenti o futuribili tra cui i motori dei jet a propulsione elettrica, i treni a lievitazione magnetica, la robotica, i droni e il quantum computing.

Secondo le ultime stime dell’US Geological Survey le riserve mondiali ammontano a 120 milioni di tonnellate, concentrate prevalentemente in Cina (33,3%), Vietnam (18,3%), Brasile (18,3%), Russia (10%), India (5,75%), Australia (2,75%), Stati Uniti (1,16%) e Groenlandia (1,2%). Non tutti i siti ne presentano la stessa concentrazione e non tutte le terre rare, allo stato dell’arte tecnologico, possiedono lo stesso valore: alcune come cerio e lantanio sono più inflazionate, essendo le più abbondanti in percentuale e utilizzate perlopiù nella raffinazione del petrolio e nei catalizzatori, mentre neodimio, praseodimio, disprosio e terbio, tra le più richieste sul mercato, sono presenti in concentrazioni minori. Nella prima fase vengono estratte come minerale grezzo e poi successivamente separate, attraverso l’impiego di solventi chimici, nei singoli ossidi di terre rare (rare earth oxide). Questa complicazione tecnica, oltre a tempi e costi d’investimento sui progetti d’estrazione proibitivi, rende poco elastica l’offerta rispetto alla domanda e i prezzi facilmente soggetti a fluttuazioni. Inoltre, dato il volume commerciato ancora risicato rispetto ai metalli di base, i prezzi non si formano sugli stock ma sono negoziati direttamente tra gli operatori con contratti privati, in un mercato di per sé molto concentrato e confidenziale. La difficoltà nel raggiungere un punto di equilibrio nella produzione, dal momento che da qui al prossimo decennio si rafforzerà la domanda di certe terre rare a discapito di altre, rappresenta uno dei punti nodali dell’intero comparto industriale e conosciuto in letteratura come balance problem. Per fare un esempio, un recente studio ha stimato che già nel 2025 solo la data-sfera potrà richiedere tra 342 e 480 tonnellate di neodimio (Nd) per zettabyte per sostenere i centri di data storage (le memorie HDD): una cifra 120 volte l’attuale domanda UE per il Nd[15]. Questo rappresenta una sfida notevole per le compagnie minerarie, poiché solo una certa porzione di terre rare è economicamente profittevole e dunque solo alcuni siti possono effettivamente entrare in produzione.

Tra le applicazioni destinate a trainare in maniera significativa la domanda di terre rare vi sono i magneti permanenti. I primi creati con l’utilizzo delle terre rare consistevano di una lega di samario e cobalto e rimasero a lungo i più efficienti sul mercato. Tuttavia, per via di una forte interruzione nella produzione di cobalto nel 1978, in seguito all’invasione sovietica dello Zaire (oggi DRC), i produttori occidentali e giapponesi ricorsero alla R&D per un’alternativa. Nel 1983 Masato Sagawa, scienziato e imprenditore nipponico, brevettò per conto della Sumitomo Special Metals un magnete fatto di neodimio, ferro e boro e conosciuto con la formula NdFeB. Grazie alla loro struttura tetragonale, questi magneti resistono alla de-magnetizzazione (una proprietà chiamata coercività) se sottoposti a calore, radiazioni, shock meccanici o in presenza di altri campi magnetici grazie all’uso in piccole quantità di disprosio o terbio. Una specifica che li rende particolarmente prestanti nei più moderni sistemi tecnologici e, ad oggi, difficilmente sostituibili. Infatti, l’utilizzo dei magneti permanenti è cruciale per le performance tecniche (efficienza/output energetico) dei motori delle auto elettriche ed ibride e dei generatori delle turbine eoliche offshore. Nel 2020, tra tutte le applicazioni delle terre rare i magneti permanenti contavano il 35% del volume delle vendite e il 91% del valore complessivo. Secondo le proiezioni di mercato, la domanda di magneti crescerà del 500%, con un valore che passerà da 2,98 a 15,65 miliardi di dollari e in volumi toccherà le 270.000 tonnellate dalle 130.000 di oggi entro il 2030, arrivando a coprire potenzialmente il 40% della domanda globale di terre rare[16]. È possibile che questo trend andrà ad indirizzare intanto la qualità dell’offerta, con gli investitori che guarderanno con interesse a progetti estrattivi promettenti in termini di configurazione mineralogica, ovvero quelli dal potenziale output più in linea con il mercato come neodimio, praseodimio, disprosio e terbio; dall’altra, essendo quest’ultime le meno diffuse e le più sensibili all’andamento dei prezzi, avranno un impatto decisivo nel determinare l’economicità dei siti di produzione e il tasso di ritorno sugli investimenti.

E qui si fa strada la questione della sostenibilità. L’industria delle terre rare è stata storicamente segnata da problemi ambientali, basti pensare che tra i motivi che indussero le compagnie americane ed europee a delocalizzare la produzione e a cedere il passo, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, a quelle cinesi vi fu proprio l’introduzione di regolamentazioni più severe in seguito ad alcuni disastri, come quello di cui fu protagonista l’azienda Molycorp nel sito di Mountain Pass in California. Ed è uno dei motivi che oggi spinge Pechino ad una governance sostenibile del settore, che ha avuto impatti sociali ed ambientali devastanti. In alcune parti della Mongolia Interna, in particolare nella zona adiacente alla miniera di Bayan Obo – la più grande a livello mondiale e responsabile del 40% delle forniture globali – e nelle regioni meridionali si sono moltiplicati i casi di cancro e di avvelenamento dovuti ai solventi chimici utilizzati negli stadi di raffinazione[17]. In Malesia, un impianto di processazione di proprietà dell’azienda australiana Lynas Corporation è stato più volte osteggiato dalla popolazione locale per lo smaltimento dei suoi rifiuti radioattivi. Di recente, le elezioni tenutesi in Groenlandia hanno visto trionfare un partito ambientalista con la promessa di bloccare un progetto australiano nel sito di Kvanefjeld perché associato ad ingenti quantità di uranio. Considerando che i vettori finanziari saranno sempre più orientati in termini di ESG è plausibile ritenere che i privati, e in generale gli stakeholder del settore, saranno sottoposti ad uno scrutinio più approfondito dei prodotti, all’adozione di standard e di pratiche sostenibili su tutta la catena del valore. Laddove design e prestazioni lo consentano, alcune aziende già puntano a sostituire o addirittura eliminarne il consumo, come annunciato da Apple nel 2017: il luglio scorso ha dichiarato di riciclare già il 98% delle terre rare contenute nei suoi prodotti[18]. Un apripista in questo senso era stato il colosso dell’energia rinnovabile Siemens Gamesa. A partire dal 2011, poco dopo la crisi scoppiata tra Cina e Giappone, la multinazionale è riuscita con successo a ridurre progressivamente la quantità di terre rare pesanti utilizzata nelle turbine. Si stima che quelle più moderne possano contenere fino a 3 tonnellate di magneti. Tuttavia, in assenza di alternative che possano rimpiazzarne la performance, svincolarsi dall’utilizzo delle terre rare – se non tramite l’ottimizzazione o il riutilizzo di magneti alla fine del ciclo di vita delle turbine, stimato intorno ai 25-30 anni – rimane per ora un’opzione non facilmente percorribile per gli impianti offshore. Si tratta di un’ambizione che ha a lungo accomunato gli sforzi di ricercatori e policymaker di Stati Uniti, Unione Europea e Giappone di fronte ad una asimmetria commerciale e industriale che oggi è percepita come una vera e propria vulnerabilità strategica.

 

Una sfida geopolitica senza confini

Sono molte le persone al corrente delle differenze tra la civiltà occidentale e quella cinese, in termini di valori, cultura, visione del mondo e del ruolo dell’individuo nella società. Vi è tuttavia un dettaglio che, seppur suggestivo, non è così noto. Secondo il concetto filosofico del feng shui, il rapporto dei cinesi rispetto alla vita si consolida attraverso l’interazione con cinque elementi: l’acqua, il legno, il fuoco, la terra e il metallo. Uno dei personaggi probabilmente più influenti nella storia della Cina – e del Novecento – ben comprese il ruolo cruciale che i metalli hanno giocato nei cicli economici e tecnologici. «Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare», disse Deng Xiaoping nel 1992.

L’ascesa dell’industria delle terre rare in Cina è tutto fuorché materia di mistero o cospirazione. Sono concorsi diversi fattori. Per prima cosa, un vantaggio geologico. Il sito di Bayan Obo, parte di un distretto industriale conosciuto come ‘la Silicon Valley delle Terre rare’, è stato e continua ad essere una miniera di ferro che produce terre rare come sottoprodotto, mentre i siti nelle regioni meridionali sono caratterizzati da una concentrazione favorevole di terre rare pesanti. Questo dato, insieme al costo del lavoro e ai relativi bassi standard ambientali e di sicurezza, ha consentito di estrarre il materiale grezzo ad un costo competitivo rispetto ad altre regioni del mondo. Il secondo fattore riguarda il massiccio intervento dello Stato, sottoforma di politiche industriali che per 25 anni hanno permesso di investire nelle tecniche di estrazione e processazione accumulando expertise e beneficiando di un programma scientifico e di R&D dedicato: la Cina è ora la principale depositaria dei brevetti nel settore. La capacità di produrre in scala, a prezzi relativamente più bassi rispetto ai competitor, ha permesso infine alla nascente industria di consolidarsi verticalmente, dalle miniere alle componenti più high-tech (leghe e magneti) e di possedere così un vantaggio strategico nei mercati downstream presenti e futuri. Il terzo fattore, infine: la globalizzazione e le scelte dell’Occidente, come abilmente descritto da Guillaume Pitron nel suo libro[19].

Oggi, la Cina produce circa il 60% dell’output mondiale (140.000 tonnellate) – in netto calo rispetto al 2010, grazie all’ingresso di nuovi player in Australia e di recente negli USA e alle quote sulla produzione imposte dalle autorità cinesi –, e controlla l’85% della processazione, il 92% della produzione di leghe e l’88% della manifattura di magneti di terre rare. Vi sono tuttavia due corollari più recenti e legati al nuovo posizionamento della Cina nelle catene globali del valore. Da una parte, il consolidamento del settore domestico cinese in sei grandi State-owned enterprise, favorito per combattere l’estrazione illegale e così rafforzare il controllo di Pechino sulla governance ambientale e finanziaria dell’industria. Dall’altra, il crescente appetito del Dragone: tra il 2004 e il 2015, il consumo interno di terre rare è cresciuto del 7,5% all’anno, mentre quello globale è decresciuto circa del 4%, con la Cina che è passata dal 40 al 70% della domanda mondiale[20]. Si tratta di una dinamica trainata dalle ambizioni tecno-industriali di Pechino: infatti, le terre rare sono elementi essenziali in sette dei dieci settori ad alto contenuto tecnologico individuati nel piano Made in China 2025. Anche per questo il Ministry of Industry and Information Technology (MIIT) ha deciso a febbraio 2021 di inserire le terre rare nell’Export Control Law come ‘risorsa strategica’ da tutelare per la sicurezza dello Stato, in risposta all’offensiva americana sui semiconduttori e sul 5G. Infine, il passaggio della Cina da esportatrice a importatrice netta, oltre al fatto di dominare gli stadi chiave del processo industriale, determinerà due fattori strutturali per il mercato: senza capacità industriali per raffinare il materiale grezzo e senza mercati end-use fuori dal controllo di Pechino, qualunque azienda mineraria non potrà che guardare alla Cina come partner imprescindibile per produrre in scala e rimanere sul mercato. Oltre al fatto di dover competere con veri e propri ‘campioni nazionali’, alcuni dei quali hanno già intessuto una rete di acquisizioni e compartecipazioni in altrettanti progetti all’estero. Dinamiche che fanno della Cina contemporaneamente il maggior produttore, consumatore, esportatore e importatore al mondo.

È in questo quadro che vanno inserite e comprese le recenti iniziative private americane, europee, australiane e canadesi. La maggior parte delle quali è spinta da una domanda di mercato più o meno coerente con le necessità politiche e strategiche dei Paesi di appartenenza. VI sono tuttavia evidenti differenze. Negli USA tale vulnerabilità, più volte sottolineata dai media controllati dal Partito comunista cinese, è percepita perlopiù attraverso le lenti della sicurezza nazionale: l’offshoring di alcune delle filiere legate al Pentagono hanno esposto in maniera troppo scoperta la base industriale americana nel contesto della competizione tecnologica con Pechino. È per questo motivo che le amministrazioni repubblicana e democratica si collocano in netta continuità. Come strategie, ovvero il forte coinvolgimento delle agenzie federali e dei dipartimenti chiave – su tutti quelli dell’Energia, della Difesa e il ruolo scientifico del Critical Materials Institute dell’Ames Laboratory – per rivitalizzare l’industria mineraria americana, un tempo leader nella produzione di terre rare, e rilanciare l’ecosistema pubblico-privato; e come strumenti, con i due executive order firmati da Donald Trump e Joe Biden che hanno dichiarato «l’emergenza nazionale» sui metalli rari e annunciato una totale revisione delle supply chain critiche per valutare e ridurre la dipendenza da Pechino. Compagnie come MP Materials (un tempo Molycorp) e USA Rare Earth hanno ricevuto finanziamenti dal Dipartimento della Difesa per la produzione domestica di terre rare cruciali per l’industria militare.

Povera di risorse nel suo sottosuolo che possano soddisfare la domanda interna, l’Unione Europea – ad eccezione ovviamente della Gran Bretagna – ha deciso di adottare una strategia bifronte. Quella industriale UE 2019-2024, centrata sul trittico transizione verde, digitale e competitività globale, potrà avere successo anche grazie alle forniture di terre rare per le quali la dipendenza dalla Cina è la più pronunciata. La cornice di implementazione – la tanto discussa «autonomia strategica» – si configura come il tentativo di concepire l’Europa come entità geopolitica, che non potrà non sostanziarsi su di una base industriale utile a ridurre l’esposizione lungo la supply chain di materiali e componenti strategiche, quanto a competere in un’ottica di innovazione tecnologica. L’istituzione dell’European Raw Materials Alliance (ERMA), con il supporto dell’European Innovation Technology e di Horizon Europe mira ad una diversificazione delle forniture e, il punto cruciale, alla creazione di una filiera mine-to-magnet che possa assicurare un flusso sicuro, sostenibile e circolare di terre rare. L’enfasi sull’economia circolare è un dato incoraggiante, ma nel breve-medio termine non risolutivo dal momento che il tasso di riciclo attuale delle terre rare è minore dell’1%. Obiettivi che implicheranno una crescita nella domanda dei materiali che l’UE non possiede ma che prevede di consumare e una auspicabile decrescita delle componenti importate dalla Cina. Una sfida che sarà influenzato tanto dai target climatici, quanto dal progressivo espandersi dei settori downstream chiave e delle filiere industriali correlate.

Dal lato dell’offerta, Australia e Canada si inseriscono nella corsa globale alle terre rare come partner commerciali grazie a riserve abbondanti e ad una tradizione nel mining consolidata. Entrambi i Paesi sono parte dell’Energy Resource Governance Initiative lanciata dal Dipartimento di Stato americano nel 2019, e alcune delle loro aziende sono state coinvolte nell’iniziativa europea ERMA. Attualmente sono in corso di esplorazione, valutazione e sviluppo circa 60 progetti su tutti i continenti, ad eccezione dell’Antartide. Considerati i potenziali sviluppi di questo mercato – nel 2015, secondo una stima l’interscambio commerciale delle terre rare valeva soltanto 9 miliardi di dollari, ma il loro utilizzo dava vita ad un comparto industriale e tecnologico dal valore di 7 trilioni di dollari[21] – sarà necessario rafforzare la governance sostenibile a tutti i livelli del settore, per favorire trasparenza sui prezzi, maggiore standardizzazione e coordinamento tra gli operatori come promosso da istituzioni come la Rare Earth Industry Association (REIA). Un banco di prova in questo senso non potrà che essere la Groenlandia, la terra di frontiera del nostro secolo. Dove il nesso tra cambiamento climatico, risorse e geopolitica si approfondisce, facendo emergere tutta la materialità del progresso tecnologico e delle sfide che abbiamo di fronte. Perché la corsa alle terre rare e ai metalli rari per la riconversione digitale, verde e sostenibile del nostro sistema economico nasconde una curiosa perversione tra capitalismo, tecnologia e risorse. E che potrebbe spingere l’uomo ben oltre il confine planetario.

«Il problema che affrontiamo sulla terra è che oltre alla loro scarsità, questi elementi non sono nemmeno distribuiti equamente nel mondo. Dobbiamo perturbare questo mercato. Una volta in grado di raggiungere la Luna per sfruttare le risorse li conservate, potremo porre fine alla scarsità delle terre rare e creare l’infrastruttura necessaria affinché l’innovazione continui»

                                               Naveen Jain, fondatore di Moon Express, 24 maggio 2012


[1] M. Andreessen, Why Software is Eating the World, «Wall Street Journal», 20 agosto 2011.

[2] P. Sabin, The Bet. Paul Ehrlich, Julian Simon, and Our Gamble over Earth’s Future, Yale University Press, Yale 2013.

[3] J. Rifkin, La società a costo marginale zero. L’Internet delle cose, l’ascesa del Commons collaborativo e l’eclissi del capitalismo, Mondadori, Milano 2014; A. McAfee, Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorseEgea, Milano 2020.

[4] J. Sachs, Terra, popoli, macchine. Settantamila anni di globalizzazione, Luiss University Press, Roma 2020, pp. 187-212.

[5] A. Greenfield e T.E. Graedel, The omnivorous diet of modern technology, «Resource, Conservation, Recycling», 74 (2013), pp. 1-7.

[6] T. P. Wright, Factors Affecting the cost of Airplanes, «Journal of the Aeronautical Sciences», 3 (1936), pp. 122-128; Boston Consulting Group, Perspectives on Experience, Boston Consulting Group, Boston, 1972, p. 109.

[7] D. Abraham, Elements of Power. Gadgets, Guns, and The Struggle for a Sustainable Future in the Rare Metal Age, Yale University Press, Yale 2015, p. 7-8.

[8] Semiconductor Industry Association, Boston Consulting Group, Government Incentives and US Competitiveness in Semiconductor Manufacturing, settembre 2020.

[9] L. Balestrieri, L’era della sicurezza. Supply chains, politica industriale e guerra fredda high-tech, «luissuniversitypress.it».

[10] UNCTAD, Digital Economy Growth and Mineral Resources. Implications for Developing Countries, Technical Notes on ICT Development n.16, dicembre 2020.

[11] D. Drezner, H. Farrell H. e A. Newman (a cura di), The Uses and Abuses of Weaponized Interdependence, Brookings Institution Press, Washington 2021.

[12] Banca Mondiale, Minerals for Climate Action – The Mineral Intensity of the Clean Energy Transition (2020).

[13] National Intelligence Council, Global Trends 2040. A More Contested World (2021), pp. 40-41.

[14] D. Abraham, Elements of power, op. cit. p. 33.

[15] A.Y. Ku, Anticipating critical materials implications from the Internet of Things (IoT). Potential stress on future supply chains from emerging data storage technologies, «Sustainable Materials and Technologies», Vol.15 (2018), pp. 27-32.

[16] Adamas Intelligence, Rare Earth Magnet Outlook to 2030, 2020.

[17] M. Standaert, China Wrestles with the Toxic Aftermath of Rare Earth Mining, «Yale School of the Environment», 2 luglio 2019.

[18] Z. Schlanger, Apple wants to try to stop mining the Earth altogether to make your iPhone, «Quartz», 20 aprile 2017; Apple, Product Environmental Report, 2020.

[19] G. Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss University Press, Roma 2019, cap. III-IV.

[20] Y. Shen, R. Moomy e R. G. Eggert, China’s public policies toward rare earths, 1975-2018, «Mineral Economics», 33, (2020), pp. 133-142.

[21] R. Ganguli e D.R. Cook, Rare Earths. A Review of the Landscape, «MRS Energy & Sustainability», 5 (2018), p.9.

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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