Scritto da Alice Fill, Sofia Scialoja
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A lungo è stata prevalente in Occidente un’idea di sviluppo che prevedeva un percorso unico, in cui i Paesi “in via di sviluppo” avrebbero dovuto convergere verso quelli più “avanzati”. In questo quadro la “cooperazione allo sviluppo” prevedeva un insieme dato di politiche che col passare del tempo hanno però mostrato tutti i loro limiti. In questa intervista Mario Pezzini, Special advisor in scienze sociali e trasformazione sociale dell’UNESCO e per molti anni Direttore del Development centre dell’OCSE, affronta queste tematiche anche in relazione agli sviluppi più recenti.
Nel contesto delle relazioni internazionali, il concetto di sviluppo si è evoluto nel tempo, non di rado servendo a legittimare la costruzione dei diversi equilibri mondiali. In che modo è stato risemantizzato lungo il filo degli ultimi decenni?
Mario Pezzini: Le scienze sociali discutono di “sviluppo” da tempo, ma è dal secondo dopoguerra che le riflessioni sul tema hanno ispirato e influenzato significativamente la politica. Tuttavia, nel corso del tempo, ciò che si è inteso con il termine sviluppo è significativamente cambiato. I primi anni del secondo dopoguerra sono stati di grande fermento. Molti economisti si ispirarono allora ai successi del Piano Marshall, sottolineandone due aspetti in particolare. In primo luogo, la necessità di individuare delle strategie per lo sviluppo economico, ponendo l’accento sulla trasformazione sociale e produttiva dei Paesi detti in “via di sviluppo”. Molti pensavano che l’espansione del commercio internazionale fosse sì un motore della crescita, ma non per questo una condizione sufficiente per lo sviluppo. Reclamavano dunque strategie economiche fatte su misura per accompagnare i Paesi della “periferia” nel loro processo di decolonizzazione, di industrializzazione e di graduale apertura ai mercati internazionali. Gli sforzi si concentrano dunque sull’analisi e sull’interpretazione dei processi in corso. Si intensificano la raccolta di dati, la costruzione di modelli che identificano i fattori e le sequenze dello sviluppo, il confronto di esperienze di politiche pubbliche tra Paesi. Gli studi si moltiplicano: si pensi al lavoro di Gunnar Myrdal sui “circoli viziosi” dello sviluppo, all’idea di Albert O. Hirschman delle “connessioni”, a quella di “sviluppo equilibrato” di Ragnar Nurkse e Paul Rosestein-Rodan o al “Great Spurt” (“grande slancio”) di Alexander Gerschenkron. In secondo luogo, molti economisti auspicano una considerevole iniezione finanziaria a favore dei Paesi in via sviluppo, che spesso considerano incapaci di generare internamente i volumi di spesa necessari alle proprie politiche di crescita, di costruzione delle infrastrutture e di trasformazione dell’apparato produttivo. I riferimenti a visioni keynesiane e a modelli come quelli di Harrod-Domar sono spesso espliciti.
Uno degli strumenti più diffusi nella definizione e promozione dei diversi modelli di sviluppo è dunque quello degli aiuti. Come si è consolidato questo primato e quale concezione di sviluppo vi è alla base?
Mario Pezzini: A partire dalla fine degli anni Settanta, si apre una seconda fase che modificherà progressivamente le visioni degli anni dell’ascesa dell’economia dello sviluppo. Le interpretazioni sui fattori della crescita e sulle modalità dello sviluppo, così come le proposte sulle strategie di sviluppo, passano progressivamente in secondo piano. Il termine stesso di sviluppo subisce uno scivolamento semantico e tende sempre più a designare non tanto la trasformazione produttiva e sociale di un Paese, quanto piuttosto le politiche che i Paesi sviluppati promuovono in un contesto ritenuto “arretrato”. “Sviluppo” diviene allora sinonimo di “cooperazione”, e “cooperazione” sinonimo di “assistenza”. Detto altrimenti, si pensa allo sviluppo come ad una cassetta tecnica di strumenti che sono nelle mani dei Paesi sviluppati e che si riducono di fatto ai piani di finanziamento e alle norme che li regolano. Sono gli anni in cui si afferma l’egemonia culturale dell’economia ortodossa. Semplificando all’estremo, si può affermare che l’idea di fondo stesse nell’individuare l’origine del sottosviluppo nella colpevole resistenza delle élite locali e delle loro istituzioni nei confronti di cambiamenti indispensabili per intraprendere la via della modernizzazione e “convergere” verso i Paesi più sviluppati. In altri termini, lo sviluppo è qui concepito come l’evoluzione dei Paesi “ritardatari” lungo un percorso unico e originariamente tracciato dai first comer. Potremmo dire che qui le differenze tra i Paesi, la loro mancata omologazione, siano sinonimo non di singolarità, ma origine di arretratezza. Infatti, i “ritardatari”, i Paesi del “Sud globale”, non soffrirebbero né di colli di bottiglia strutturali e specifici, né di asimmetrie internazionali rispetto ai Paesi del “Nord” che ne penalizzano la condizione di second comer. Piuttosto, essi sarebbero rallentati esclusivamente da “ostacoli” interni, da istituzioni arcaiche, inadatte alla crescita economica, di cui dovrebbero assumersi la responsabilità e sbarazzarsi al più presto. E l’unico modo per farlo, si credeva, era l’adozione da parte di questi Paesi di standard individuati e seguiti dai Paesi sviluppati, concepiti dunque come una condizione necessaria allo sviluppo – non come un suo effetto. I ritardatari potevano comunque beneficiare di qualche forma di assistenza: di facilitazioni per inserirsi nel commercio internazionale, di “raccomandazioni” su come adottare le riforme di mercato (liberalizzazioni e privatizzazioni) e di aiuti finanziari da parte dei Paesi avanzati per superare la soglia di povertà estrema relativa a considerevoli sezioni della popolazione. Fatto ciò, i meccanismi di mercato avrebbero mantenuto stabilmente la popolazione fuori pericolo. Questa narrazione, dal forte carattere normativo, è apparsa in varie forme, che spaziano dalla propaganda, alla condizionalità, all’applicazione del cosiddetto Washington Consensus, ai programmi di diffusione degli standard nei Paesi del Sud. In questo modo sono pressoché sparite dal discorso delle istituzioni internazionali l’idea che esistano diverse traiettorie di sviluppo, l’importanza di interpretare le ragioni specifiche e contestuali per cui un determinato Paese o regione resta in uno stato definito di “sottosviluppo”, la condivisione delle strategie di sviluppo.
In questo quadro, a livello di istituzioni che si occupano di sviluppo sulla scena internazionale, come sono cambiati, e quali sono oggi, gli attori principali? Quali gli equilibri e squilibri al loro interno?
Mario Pezzini: Proprio a partire da quegli anni, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale (FMI), così come le banche di sviluppo regionali, hanno elaborato il sistema delle condizionalità per promuovere alcune riforme di mercato. In parallelo, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha giocato un ruolo particolare, mettendo a punto meccanismi per definire cosa significhi essere dei buoni donatori e soprattutto cosa vada inteso per aiuti allo sviluppo: sono da considerare ammissibili le spese condizionate all’acquisto di beni del Paese donatore? I crediti all’esportazione sono di fatto “aiuti”? E certe spese militari? Tali questioni sono esempi di un acceso dibattito che ha avuto sede privilegiata nel Comitato di assistenza allo sviluppo dell’OCSE (Development assistance committee – DAC). Molto presto, come è immaginabile, si è presentato un serio problema di legittimità. Attorno ai tavoli in cui si decide la natura e il volume dei fondi per lo sviluppo si riuniscono infatti principalmente i donatori tradizionali. La voce dei Paesi in via di sviluppo è di fatto limitata o inesistente. Per fare un esempio, del DAC non fanno parte Paesi come Cina, India o Brasile, che giocano oggi un ruolo maggiore nella cooperazione internazionale. Ma non vi fanno parte nemmeno tutti i Paesi OCSE, come Messico, Cile, Colombia, Costa Rica, Turchia o Israele. Tale squilibrio di potere è diventato sempre più incoerente con il crescente peso economico e politico di questi Paesi. Non potendo ottenere un posto nei forum multilaterali consolidati – e perseguendo modelli economici ritenuti diversi da quelli del Nord – i Paesi detti in via di sviluppo stanno sempre più creando le proprie istituzioni, a partire dalle quali operare in parallelo con i tradizionali “guardiani” della cooperazione internazionale.
La maggior parte di questi standard legati ad approcci neoliberali e centrati sul Nord globale attraversano dunque oggi una profonda crisi, anche in termini istituzionali.
Mario Pezzini: Una crisi così radicale che possiamo considerare di essere entrati in una terza fase dello sviluppo, caratterizzata dall’offuscamento del ruolo normativo dell’Occidente, e il cui inizio si può ricondurre alla crisi del 2008. Si tratta di una crisi organica, che per diversi aspetti richiama quella del ’29 nell’interpretazione che ne ha dato Karl Polanyi. Smaschera le pretese egemoniche di un’economia che si presume in grado di autoregolarsi e che in realtà fragilizza i legami sociali, frantumando la coesione nazionale e internazionale, spalancando le porte dell’interregno gramsciano: il vecchio tarda a morire, il nuovo non può nascere, e appaiono i mostri. Non solo l’Occidente sembra scoprire quasi d’improvviso l’enorme portata storica della decolonizzazione, ma inizia timidamente, in ritardo e lentamente, a realizzare che il fenomeno dei cosiddetti Paesi emergenti ha cambiato profondamente la geografia economica mondiale. Intorno al 2010, il PIL prodotto dai Paesi non OCSE ha superato quello dei Paesi OCSE a parità di potere d’acquisto. La Cina è diventata la principale locomotiva del cambiamento e il principale partner commerciale dell’Africa, dell’Asia e di diversi Paesi dell’America Latina. Ad essa si sono aggiunti Paesi come India, Brasile, Sudafrica, Turchia, Russia e le cosiddette Tigri asiatiche (Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Hong Kong). Essi hanno esercitato una profonda influenza sulle catene globali del valore e la produzione si è trasferita al Sud in proporzioni significative, creando una finestra di opportunità per molte economie in via di sviluppo. A livello sociale, la povertà estrema è stata drasticamente ridotta, anche se ora la situazione è tornata a peggiorare. Le disuguaglianze tra Paesi, regioni e individui sono state ridistribuite ed è emersa una cosiddetta “nuova classe media”. Anche le riserve monetarie e le attività finanziarie si sono spostate verso Est e, in parte, verso Sud. Queste trasformazioni si sono mosse a un ritmo relativamente lento ma inesorabile, producendo cambiamenti epocali che hanno profondamente contraddetto le narrazioni da “fine della storia”. Questi cambiamenti confermano che possono esistere modelli diversi di sviluppo. Non mancano casi di Paesi emergenti cresciuti in modo spettacolare, senza tuttavia seguire gli standard occidentali. D’altro canto, non mancano neppure i casi di Paesi “diligenti”, che hanno sofferto pesantemente per aver seguito le raccomandazioni economiche “ortodosse” dell’Occidente. Infine, gli stessi Paesi occidentali hanno seguito in passato pratiche diverse da quelle che predicano come prerequisiti per lo sviluppo nel presente.
La cooperazione Sud-Sud fa dell’assenza di imposizione di un modello normativo uno dei suoi punti di forza. Come sta cambiando, di conseguenza, la riflessione sulla condizionalità degli aiuti, secondo la quale la maggior parte dei contributi finanziari avviene condizionatamente all’approvazione di determinate riforme nelle politiche pubbliche e di mercato?
Mario Pezzini: La discussione sulla cooperazione Sud-Sud è da tempo sostenuta dalle Nazioni Unite e recentemente è stata portata avanti in particolare dall’India, che in occasione della sua presidenza al G20 ha sostenuto la richiesta dell’Unione Africana di divenire membro permanente. Vedremo ora se continueranno su questa strada anche il Brasile e il Sud Africa, che si succederanno in sequenza alla presidenza del G20. Il modello di cooperazione su cui insistono questi Paesi si richiama ad un approccio solidale, basato più sulla reciprocità che sulla carità, in cui il dialogo tra pari in tema di politiche pubbliche è centrale. Si tratta però di una discussione ancora molto di frontiera, dal momento che su questo tipo di cooperazione ancora scarseggiano dati e analisi di impatto. In ogni caso, se il volume di iniziative a disposizione, ad esempio, della Nuova banca di sviluppo (la banca di sviluppo dei BRICS) non è ancora comparabile con quello della Banca mondiale, è evidente che il credito cinese verso i Paesi in via di sviluppo abbia ormai volumi che superano di gran lunga quelli delle istituzioni di Bretton Woods, senza peraltro porre vincoli di condizionalità simili a quelli occidentali nel campo della cooperazione. Manca dunque una riflessione organica sulle implicazioni che questi nuovi modelli possono avere sulle politiche di sviluppo e sulle relazioni geopolitiche. I Paesi occidentali sembrano per ora reagire solamente a singole iniziative, specie quando portate avanti dalla Cina, non da ultima la Global Development Initiative – la versione più avanzata della Belt and Road Initiative, che aggiunge l’attenzione al soft power a quella verso le infrastrutture. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno lanciato nel quadro del G7 la Building Back Better World, con l’ambizione di mobilitare fondi pubblici insieme a fondi pensionistici e assicurativi per contenere il ruolo della Cina con la sua “nuova via della seta”. L’Unione Europea, da parte sua, ha promosso il Global Gateway, che prevede anch’esso investimenti in Paesi terzi, soprattutto nel settore delle infrastrutture, stimolando il concorso di capitale privato. Il fatto che il riferimento a Pechino sia esplicito in questi pacchetti di policy è senza dubbio sorprendente. E la competizione internazionale che ne deriva rischia di avere effetti deleteri, non solo per i Paesi coinvolti nella cooperazione, ma anche nella prospettiva di costruire una reale autonomia strategica europea.
Questo perché, per ragioni geopolitiche, la collaborazione con un Paese preclude l’accesso ad altre opzioni di cooperazione?
Mario Pezzini: Molto spesso, gli aiuti sono gestiti a livello nazionale e diventano dunque parte integrante della politica estera di un Paese, il cui interesse è non solo l’efficacia della cooperazione, ma soprattutto la capacità di esercitare un’influenza geopolitica all’estero. Inoltre, nella situazione di interregno in cui ci troviamo, molti tendono ad applicare una dicotomia grossolana, comprendendo il mondo di oggi come diviso in due blocchi opposti, ovvero il mondo “libero” e quello “autocratico”. Una spartizione che rimanda perlopiù ad un richiamo nostalgico e ideologico delle dinamiche di potere della Guerra fredda. Ad ogni modo, i Paesi del cosiddetto Sud globale appaiono poco convinti, o affascinati, da questa logica del bipolarismo e tendono a prediligere altre configurazioni, come quelle che passano sotto il nome di “multiallineamento”. D’altro canto, è evidente che i confini tra i presunti blocchi sono in ogni caso porosi e ambigui nella maggior parte dei casi. Da un lato, assistiamo ad un’erosione dei principi democratici in alcuni dei Paesi occidentali, che tendono ad adottare misure volte a limitare il pluralismo e la trasparenza. In questo senso, la logica dicotomica applicata al dover essere delle relazioni internazionali si scontra con le tensioni interne dei Paesi. Allo stesso modo, dall’altro lato, anche i Paesi “non occidentali” o “anti occidentali” presentano un grado di coesione piuttosto limitato – non si può del resto affermare che Cina e Russia costituiscano un fronte unico. In questo senso, si sta riconfigurando non solo una nuova geografia economica globale, ma anche un nuovo sistema di alleanze, rispetto alle quali nuove iniziative di dialogo internazionale sembrano essere indispensabili. Sono tuttavia iniziative che molto spesso hanno importanti difficoltà nel vedere la luce. Recentemente, nel quadro dell’Unione Africana, è stato fatto un tentativo di coordinamento degli aiuti che puntava a riunire intorno ad un tavolo i principali cooperatori dell’Africa al fine di discutere in che modo i diversi sforzi potessero essere resi maggiormente complementari al fine di rispondere meglio alle esigenze dei Paesi. Un tavolo di questo tipo resta ad oggi quasi utopico, non solo in ragione dell’organizzazione interna dell’Unione Africana, ma anche della difficoltà di portare Stati Uniti e Cina in un negoziato su questi temi.
Quali sono, o dovrebbero essere, le questioni prioritarie al centro dalle politiche di sviluppo oggi?
Mario Pezzini: Indubbiamente, le politiche di sviluppo dovrebbero transitare verso un nuovo paradigma. Diversi anni fa, con Alicia Bárcena e Stefano Manservisi, abbiamo cercato di lavorare in questa direzione lanciando il dibattito sul concetto di development in transition. Andrebbe innanzitutto riconsiderata la legittimità dei tavoli multilaterali dove le politiche vengono discusse. Allo stesso modo, gli indicatori utilizzati per elaborare tali politiche dovrebbero essere modificati. In effetti, ancora oggi gran parte dei criteri di distribuzione degli aiuti si basa su calcoli relativi al PIL, più precisamente al RNL (reddito nazionale lordo). Eppure, l’esistenza di trappole per lo sviluppo o di sfide trasversali come la crisi climatica ci spinge a riconsiderare le misure di sviluppo e i relativi meccanismi di graduazione. In terzo luogo, vanno reinventati i meccanismi per sostenere gli Stati stessi nel disegno e nell’implementazione delle proprie specifiche strategie di sviluppo, ispirandosi ai dibattiti negli anni del dopoguerra. Abbiamo bisogno di un dialogo sulle politiche pubbliche tra i Paesi che avvenga tra pari e che verta sulle strategie e le misure nazionali per lo sviluppo. In quarto luogo, dobbiamo promuovere beni globali come il clima, la salute o la sicurezza alimentare. Come suggerito dalle proposte del gruppo Global public investments, tutti i Paesi dovrebbero contribuire, tutti dovrebbero ricevere, ma soprattutto tutti dovrebbero decidere.
È lecito sperare che questo cambiamento istituzionale avvenga in modo profondo e sostanziale, oppure questi tavoli si modificano prevalentemente per ragioni simboliche?
Mario Pezzini: Torna qui utile una battuta: errare humanum est, perseverare… west. L’inerzia dei Paesi occidentali su questo è evidente, così come lo è l’effetto di lock-in, di barricamento dietro privilegi istituzionali che non hanno più alcuna ragione di essere. A ciò fa da contraltare la tendenza ad attribuire tutte le difficoltà, anche sull’inefficienza della cooperazione, a fattori esogeni: la Cina, la Russia, le policrisi che vengono dall’esterno minacciando la serenità del giardino che l’Europa pensa di essere. Muovendo da queste premesse, c’è da chiedersi quale sia il margine per comprendere la politica internazionale e i suoi mutamenti. Restiamo a bocca aperta ad esempio quando, al momento di votare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla condanna della guerra in Ucraina, i Paesi che tradizionalmente ricevono gli aiuti allo sviluppo non si schierano con i Paesi donatori. La domanda che ci si pone oggi è se sarebbe possibile, e in che modo, avere tavoli rappresentativi a livello mondiale che permettano di creare e mantenere beni pubblici globali, promuovendo una cooperazione tra pari. L’impegno di 136 Paesi a favore di un’aliquota minima globale per l’imposta sulle società è un esempio di come ciò potrebbe avvenire. Tuttavia, questo cambiamento sarà possibile solo se la logica politica del sistema internazionale non finirà ostaggio di alleanze esclusive e discriminatorie in campi opposti. In questa direzione, forse qualcosa si sta muovendo: le domande di adesione ai BRICS stanno aumentando, così come il peso specifico del gruppo e la sua agency internazionale, nonostante i punti di convergenza interni restino piuttosto limitati. Si riflette sull’adozione di monete internazionali di scambio diverse dal dollaro, si identificano in questi Paesi dei contesti multiallineati che difendono i propri interessi in modo pragmatico, senza ad esempio ricorrere allo strumento delle sanzioni. Qualcosa nella geografia mondiale degli aiuti allo sviluppo, insomma, sta lentamente cambiando.