Recensione a: Guido Carpi, Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924), Carocci, Roma 2023, pp. 184, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Paolo Missiroli
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Il libro di Guido Carpi, Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924) narra la vita Vladimir Il’ič Ul’janov (nome da esule e poi di battaglia, Lenin), di quest’uomo immediatamente inter-soggettivo (o transdividuale, come dicono alcuni), cioè fin dall’adolescenza legato a doppio filo all’esperienza della vita collettiva, alla dimensione sociale dell’esistenza umana. Si tratta di un volume agile e di facile lettura, ma che racconta con dovizia di particolari (raccolti anche dagli scambi personali, dalle battute e dai discorsi di Lenin) l’avventura di un uomo nel fuoco di fine Ottocento e inizio Novecento e le sue doti da rivoluzionario assoluto. Non si tratta, è bene sottolinearlo sin d’ora, di un’agiografia. Innanzitutto, Carpi non ha alcuna difficoltà a sottolineare gli errori contingenti di Lenin, che peraltro egli ben riconosceva, come mostra l’esperienza storica della NEP, a cui Carpi dedica un capitolo citando alcune righe di un discorso di radicale autocritica di Lenin. Ammettere il riconoscimento dei propri errori da parte di Lenin, in sé, non sarebbe molto: la vita del rivoluzionario, come ogni vita individuale e ogni esperienza storica, non è che un processo di trial and error. La grandezza di Lenin (come mostra il passaggio rapido dal comunismo di guerra alla NEP) sta in parte anche in una certa capacità di tornare sui propri passi, nel cambiare la tattica qualora il vecchio modo di procedere non funzioni più. Carpi evidenzia anche le responsabilità leniniane nell’ascesa di Stalin, i suoi oggettivi errori di valutazione (soprattutto nella fase finale), la sua incapacità di cogliere alcuni movimenti, il suo scarso grado di sopportazioni delle lungaggini burocratiche connaturate alla gestione di uno spazio politico immenso come l’Unione Sovietica. Errori, cioè, che solo in piccola parte Lenin comprese, sbagli infecondi nella sua attività rivoluzionaria. Se il rivoluzionario assoluto è stato tale, non è necessario lo rimanga in ogni istante e in ogni caso esso non è un santo. Questo atteggiamento santificatorio non solo allontana dalla verità storica, ma impedisce l’azione, perché terrorizza di fronte all’errore. Già Marx, nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte, insegnava che la storia delle rivoluzioni (rigorosamente al plurale) non è lineare, ma procede per salti, arretramenti, corse in avanti, arresti. Una lettura terrena di Lenin come quella di Carpi ce lo rende al contempo più vicino e ci insegna che l’errore è la legge della vita.
Come sempre, lo spazio della recensione non è sufficiente (guai se lo fosse!) a restituire l’interezza di un libro, per quanto agile. Vorremmo qui soffermarci su due punti fondamentali che ci paiono emergere dal lavoro in oggetto. In primo luogo, il significato del titolo e dunque dell’espressione “rivoluzionario assoluto”. In che senso Carpi usa questo termine in riferimento a Lenin? In secondo luogo, dal lavoro dello studioso la grandezza di Lenin emerge anche per la sua capacità di mantenere una linea al contempo originale, ambiziosa e realista (non senza problemi) riguardo alla questione del rapporto tra nazioni-impero-internazionalismo. Questione fondamentale oggi (si tratta, in fondo, del tema della geopolitica) e allora, anche e soprattutto riguardo allo spazio russo in relazione a quelli confinanti.
Lenin, è noto, ha attraversato questa terra per un tempo tutto sommato breve (54 anni). Non gli è stata concessa una vita particolarmente lunga per dispiegare la propria potenza di agire. Tuttavia, difficilmente si troverebbero, nella storia dell’umanità intera, vite individuali altrettanto pesanti e influenti, avventure in grado di trasformare il corso degli eventi nella sua complessità e nel suo fluire ininterrotto, com’è proprio della storia degli umani. D’altra parte, come la storia di Lenin insegna, nessuna vita individuale basta a sé stessa. Il corso della storia non ha come protagonisti il coraggio di qualcuno o il valore di qualcun’ altro, ma l’interezza dei movimenti collettivi che vi si dipanano, vengono respinti, riemergono con foga. Solo qualora la vita del singolo sappia collegarsi a questo suolo più fondamentale e magari, in qualche modo, condizionarlo e indirizzarlo (facendosene sommergere), allora essa assume valore storico e potenzialità politiche. Non si tratta di raccontare la vita di un uomo isolato, ovvero di un individuo, ma quella, per l’appunto, di un rivoluzionario assoluto. Questo non significa certo che Lenin pensasse di sé di non avere un ruolo, come sottolinea in apertura del suo libro Carpi: piuttosto, che egli cogliesse sé stesso come una funzione, decisiva certo, ma legata al contesto più generale. Rivoluzionario assoluto è colui che è capace di cogliere l’attimo nel flusso della storia, di collocarsi nei rapporti di forza sociali mentre si modificano (giacché il divenire differenti è la loro stessa essenza) e di agire nel momento determinato. Ogni rivoluzionario efficace è un Abramo, avrebbe detto Kierkegaard: la sua dimensione temporale non è il passato, il futuro e nemmeno il presente nella sua distensione generale, ma è l’attimo. Certamente, non l’attimo atomico, isolato dagli altri, bensì l’attimo come sintesi del moto generale che il rivoluzionario sa analizzare; vi è tuttavia qualcosa di istintivo nel rivoluzionario che l’esperienza di Lenin insegna a non sottovalutare. Il volume di Carpi, che riassume una dilogia sulla vita del rivoluzionario pubblicata negli scorsi anni e la proietta sui primi anni di vita dell’URSS, si divide in 18 brevi capitoli, i quali raccontano la vita di Lenin dall’adolescenza alla morte. In ogni capitolo, per i motivi sopraesposti, la vita del rivoluzionario e la storia prima dell’organizzazione bolscevica e poi dell’Unione Sovietica e del Partito Comunista si intrecciano, si separano, si annodano e si riallontanano. È poi interesse di Carpi mostrare la radicale unità dell’esperienza storica leniniana. Non esiste, cioè, un Lenin filosofo da contrapporre a un Lenin storico o a un Lenin politico. Il rivoluzionario assoluto sviluppa la capacità di avvilupparsi al flusso degli eventi storici per trasformarli dall’utilizzo di una teoria che diviene prassi effettiva e da una prassi che produce una teoria che le è adeguata; allo stesso tempo, questi due elementi divengono complementari e funzionali l’uno all’altro solo all’interno di una specifica forma di organizzazione. Il pensiero si fa realtà solo mediante l’azione collettiva organizzata: l’hegelismo leniniano, su cui Carpi non manca di tornare lungo tutto il corso del suo lavoro, consiste più in questo che in una visione destinale della storia. Quanto va sottolineato è che, anche nell’azione del rivoluzionario, che a questo punto si capirà bene essere uno studioso del proprio tempo, è presente una dose di istinto, niente affatto irrazionale, che fa sì che fosse lo stesso Lenin, sottolinea Carpi, ad avere assunto come proprio motto l’esclamazione napoleonica: “on s’engage et puis… on voit!”. La vita del rivoluzionario non è né puro studio, né azione immediata. È connessione (intellettuale e pratica) con il processo storico e capacità di cogliere il momento. Questo istinto rivoluzionario, questa fede nella possibilità di trasformare il processo storico a patto che si sia capaci di coglierne i momenti di rivolgimento e le trasformazioni dei rapporti di forza, è caratteristica di Lenin e non ha nessun rapporto con l’intuizione irrazionale. Essa è piuttosto il sesto senso che lo studio e la pratica sorreggono.
Relativamente al secondo punto, non si potrebbe sottovalutare l’importanza della posizione di Lenin relativamente alla questione nazionale. Innanzitutto, perché essa è connaturata alla contingenza di ogni processo rivoluzionario, che è per questa ragione (il suo essere inserito in un tempo storico non lineare e unico, ma su più livelli) sempre da declinarsi al plurale. La rivoluzione, il salto in avanti dell’Ottobre del 1917 non avviene nel nulla, ma nella Russia imperiale: un enorme Stato multinazionale e multietnico in cui l’identità russa e la religione ortodossa sono artificialmente, attraverso un sistema repressivo dispiegato attraverso tutto l’Impero, mantenute sopra le altre. D’altra parte, questo enorme Impero si colloca in un sistema globale in cui alcuni Stati gestiscono una serie di rapporti di forza a tutto vantaggio del modo di produzione capitalistico. Non esiste un manuale per la rivoluzione proprio perché essa è sempre storica e dunque sempre differente. Soprattutto è importante sottolineare la modalità di porsi di Lenin a proposito del rompicapo in oggetto. Il capo rivoluzionario, infatti, rischia fin da subito di trovarsi schiacciato tra due posizioni opposte. Da un lato, l’ala ultra-internazionalista del partito e in generale del movimento operaio, attiva soprattutto negli anni immediatamente precedenti all’Ottobre, che vorrebbe ignorare completamente il piano nazionale e i diritti delle minoranze etniche in quanto tali; dall’altro, perlopiù negli ultimi anni di vita, la corrente staliniana “granrussa” che si attiva per costruire uno stato centralizzato e russocentrico, al di là delle minoranze etniche. Inoltre, come è noto, Lenin si trova nel fuoco della Prima guerra mondiale, con una Seconda Internazionale quasi interamente schiacciata sull’appoggio ai relativi Paesi (fa rilevante eccezione, oltre ai bolscevichi, il Partito Socialista Italiano). Eppure, a partire da questa selva di problemi, Lenin non solo si svincola, ma costruisce la grandezza e la rilevanza del bolscevismo stesso. Il giudizio di Lenin, le sue linee guida, sono alternative sia alla parte guerrafondaia del movimento operaio sia a quella ultrainternazionlista che a quella granrussa e soprattutto sono chiare. 1) Sul primo conflitto mondiale: la guerra è imperialista e non vi è nessuna differenza tra le parti in guerra; la sconfitta della Russia zarista sarebbe il male minore per il proletariato russo. 2) Le rivendicazioni dei popoli oppressi nell’Impero e la loro emancipazione dal dominio russo sono un principio irrinunciabile e una loro conquista sarebbe immediatamente progressiva: da questo punto di vista l’ultrainternazionalismo non coglie la dialetticità del processo rivoluzionario (la sua necessaria gradualità) e soprattutto è incapace di comprendere che lo sviluppo capitalistico, così come le lotte che si strutturano globalmente contro di esso, è ineguale, si muove cioè su più livelli temporali. Anni più tardi, ricorda Carpi al lettore, Lenin scriverà con la sua proverbiale ironia (a cui l’autore ci fa a più riprese attenti): «Il decreto secondo il quale tutti i Paesi dovrebbero vivere secondo il calendario rivoluzionario dei bolscevichi non è ancora stato emanato, e anche se lo fosse non verrebbe applicato». Si capisce come la grandezza della posizione di Lenin consista non nel suo essere una via di mezzo, ma nello spingere a una radicalità inedita una parte che, altrimenti, sarebbe stata obbligata a seguire l’andamento generale in due modi opposti ma complementari: l’appoggio senza condizioni agli Stati-nazione nella forma in cui si davano nel 1914-18 oppure il rifiuto totale della questione nazionale e di conseguenza un velleitarismo cieco alle infinite differenze, identità, culture di cui era composto l’Impero russo. D’altronde, sottolinea Carpi, Lenin ha molto da insegnare oggi, in un momento in cui da più parti si sottolinea un ritorno della geopolitica. Il capo bolscevico ragiona in termini geopolitici solo per sovvertire i rapporti di forza tra Stati, per mutare il terreno stesso dello scontro: l’intera vicenda della pace di Brest-Litovsk è indicativa di questo. Da un lato, infatti, Lenin è consapevole del rischio che corre, ci dice Carpi, nel trasformare l’ex Impero russo in una semicolonia germanica; d’altra parte, egli scommette sulla sconfitta futura degli Imperi centrali e quindi su uno squassamento degli equilibri generali dell’Europa. Non sono, nel 1918, gli Stati al centro della particolare “geopolitica” di Lenin, ma la rivoluzione proletaria su scala globale. Certo, questa ambizione non ebbe poi una realizzazione effettiva nell’Unione Sovietica. La prospettiva tracciata dal rivoluzionario, tuttavia, ci pare interessante per mostrare cosa significhi cogliere il proprio tempo e vedere in esso delle possibilità. Il rivoluzionario assoluto, sostiene Carpi, non ha che il compito di pensare l’impensato, di colpire laddove non era previsto.
Un ulteriore punto, che Carpi affronta in modo trasversale è il rapporto di Lenin con la classe dirigente bolscevica. Il nucleo del leninismo, si vedeva, è una determinata teoria dell’organizzazione politica come ambito di un rapporto virtuoso ed efficace tra teoria-prassi. La costruzione del partito è dunque un compito inevitabile, come la costruzione di una classe dirigente di cui Lenin è da un certo momento in poi il capo indiscusso (fino all’idolatria, negli ultimissimi anni della sua vita). Nel momento rivoluzionario, tra il 1917 e il 1920, il dibattito interno non solo al partito bolscevico ma alla parte rivoluzionaria della società russa, diviene acceso e radicale. Alcune delle più profonde critiche a Lenin, al suo scarso interesse per la libertà di espressione (che Carpi ritiene radicato nel disprezzo per la “società civile liberale” che Lenin sviluppa sin da ragazzo) e soprattutto la violenta accusa che Bogdanov rivolge a Trockij e al suo vecchio amico Il’ič: la rivoluzione, per ragioni legate alle modalità in cui si è verificata, ha presto assunto un carattere soldatesco, da caserma, che poco ha a che fare con la logica di fabbrica (permeata dall’intelligenza collettiva volta all’organizzazione). I militari ragionano in termini di distruzione dell’avversario, non di costruzione del nuovo, non di produzione di nuove istituzioni per la società rivoluzionata: essi ricevono dall’alto gli ordini e li applicano. Questo, cioè una caserma, dice Bogdanov, collaboratore e amico bolscevico di Lenin dal principio (a differenza di Trockij, di cui non bisogna dimenticare le ascendenze mensceviche, rigettate solo nel 1917), è diventato il partito e rischia di diventare l’Unione Sovietica. D’altra parte, Bogdanov ebbe un ruolo di primo piano nel Movimento per la cultura proletaria che tanta influenza ebbe nell’Unione Sovietica dei primissimi anni.
Anche in questo caso, forse, si mostra come l’errore sia parte della storia, e non tentare per sua paura significa rifiutare la storia (e la vita) en tant que tel. La comprensione degli errori di Lenin è impossibile senza prendere in considerazione l’assoluta contingenza dell’agire dei bolscevichi. Non è improbabile che i discorsi deliranti sulla fine della storia (che è evidentemente il coté nascosto di una supposta fine della politica) che ancora oggi godono di una qualche diffusione, abbiano qualcosa a che fare con questa paura di sbagliare, che il Lenin presentatoci da Guido Carpi sicuramente non condivideva. Una certa fede laica, al contrario, caratterizzava la sua azione, che reggeva anche nei momenti più complessi e incerti. È forse questa fiducia radicale nella possibilità dell’azione collettiva debitamente organizzata di trasformare l’esistenza comune, nonché la consapevolezza della finitezza di questa stessa azione, che ancora oggi ci stupisce e ci può forse insegnare qualcosa.