“Il Libano contemporaneo” di Rosita di Peri
- 16 Aprile 2018

“Il Libano contemporaneo” di Rosita di Peri

Recensione a: Rosita di Peri, Il Libano contemporaneo. Storia, politica, società – Nuova edizione, Carocci, Roma 2017, pp. 228, 19 euro (scheda libro)

Scritto da Gabriele Sirtori

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Quanto può un libro sulla storia recente di un singolo Stato, il Libano, dirci qualcosa sulle dinamiche dell’intero Medio Oriente di oggi? Risposta: molto, anzi moltissimo. Già, perché il Paese dei cedri, come emerge chiaramente dal volume di Rosita di Peri, rappresenta un caso esemplare nel panorama arabo. Qui, prima di altrove, il mix fatale di diseguaglianze interne, multi-confessionalismo, debolezza istituzionale e influenze straniere ha portato alla deflagrazione dello Stato prima e alla sua ricostruzione poi. Qui il tema della rappresentanza delle minoranze etniche e confessionali, questione che oggi insanguina l’Iraq, la Siria, il sud-est della Turchia, lo Yemen e il Bahrein, è stato affrontato già a partire dalla fine dell’Ottocento con la creazione di un sistema unico nel suo genere, la cosiddetta “democrazia consociativa” che con enormi scossoni e aperte contraddizioni ha retto fino ad ora.

Il Libano da sempre è ed è stato il luogo del compromesso e del dialogo ma anche il luogo della tensione mai sopita e delle profonde spaccature sociali e comunitarie. È il luogo dove si coabita, ma non si convive, con il diverso, dove la negoziazione delle differenze è un fatto obbligato, forzato, e spesso non voluto. Un caso estremo quindi, dove la divisione su linee confessionali, così diffusa oggi in Medio Oriente, è stata nel tempo istituzionalizzata nonostante ne fosse sempre richiesta l’abolizione. Il risultato è stato quello di creare, infine, un sistema scarsamente flessibile e vulnerabile ai terremoti scatenati dall’esterno, ma al contempo a suo modo stabile e duraturo.

Il comunitarismo di stampo confessionale alla base del sistema-Libano prevede la coesistenza sullo stesso territorio di comunità quasi del tutto autonome tra loro, con un proprio statuto, dei propri organi di regolamentazione, tribunali, scuole, servizi di welfare indipendenti dallo Stato e amministrati da una gerarchia religiosa confessionale alla quale lo Stato riconosce la legittimità di applicare leggi e costumi propri e il diritto di regolamentare autonomamente le materie relative allo statuto personale, inteso nel suo senso più ampio di rete della vita familiare e spirituale. Lo scenario per certi versi è quello di mondi paralleli costretti a coabitare su uno stesso territorio: persino a livello di rappresentanza nazionale le istituzioni che contano, attribuite ciascuna ad una determinata confessione religiosa, sono ricoperte da persone scelte alla fine di percorsi interni alle gerarchie comunitarie, spesso tramite nepotismo e favoritismi. Eppure, nonostante queste profonde spaccature interne, mai si è arrivati al punto di negazione dello Stato.

Il testo ha il merito di stimolare numerose considerazioni su temi cruciali del teatro mediorientale, tra queste sì e scelto di concentrare l’attenzione su tre aspetti particolarmente significativi. Tre “lezioni” – fondamentali da cogliere sul Libano – che possono però essere estese proficuamente, con i distinguo del caso, ad altri stati mediorientali lacerati al proprio interno dalle divisioni settarie.

 

Prima lezione dal Libano: lo Stato non viene messo in discussione

Alcuni commentatori, i cosiddetti “primordialisti” o “etno-nazionalisti”, affermano, riferendosi alle spaccature etnico-confessionali presenti all’interno dei Paesi ex-coloniali, specialmente quelli mediorientali, che la pace in questi Stati è impossibile in quanto, essendo i loro confini artificiali e di recente creazione, anche il loro nazionalismo sarebbe fasullo, avendo i cittadini come prima identità quella settaria che è radicata da tempo immemore nella loro cultura. La conseguenza è che solo soluzioni federaliste o, meglio ancora, la dissoluzione di questi Stati e la creazione di nuove entità su base settaria garantirebbe la pace. Eppure, nonostante la sanguinosissima guerra civile, i continui attentati e le tensioni sempre attive, mai nessuno in Libano ha ipotizzato uno smembramento o l’applicazione del federalismo. Unica eccezione: alcune frange estremiste cristiane nei primi anni della guerra civile.

Questo si verifica perché smembrare il Libano non conveniva (e non conviene) a nessuno. Già al momento della creazione del Grande Libano, ovvero l’entità territoriale voluta dai francesi nel 1920 che comprendeva non solo le aree a maggioranza cristiano-maronita ma anche la zona costiera, la valle della Bekaa e le aree oggi a Sud del Paese tutte a forte presenza musulmana, i notabili sunniti decisero di partecipare a questo progetto perché capirono che i loro interessi commerciali sarebbero stati meglio tutelati se fossero rimasti indipendenti dalla Siria. Allo stesso tempo i cristiani (soprattutto maroniti), avevano intuito che senza le aree agricole della valle della Bekaa e senza l’apporto imprenditoriale e commerciale delle città della costa mediterranea la loro economia basata sulla montagna non sarebbe mai potuta decollare. Con il tempo la collaborazione tra queste diverse componenti, eterogenee dal punto di vista confessionale, si rafforzò, e il campo di gioco nei rapporti economici, produttivi e commerciali, finì per coincidere con i confini odierni del Paese dei cedri.

Da lì in poi questa stretta cooperazione “forzata” tra le comunità scoraggiò qualsiasi tentativo di smembramento: anche nei periodi più bui un Libano diviso avrebbe comportato uno svantaggio per tutti gli attori in campo, sia ai notabili delle gerarchie confessionali, sia agli sponsor regionali. Per questi ultimi infatti esercitare una forma di influenza su una porzione indebolita di territorio, o addirittura dover gestire una instabilità esplosiva, non sarebbe stato sicuramente uno scenario desiderabile.

 

Seconda lezione: in gioco c’è il potere e la sopravvivenza (economica e sociale)

La diseguaglianza economica e la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi sono stati due dei principali fattori che hanno portato il Libano alla tensione e a alla guerra civile. Questo è capitato negli anni Settanta e nel periodo sanguinoso precedente e subito successivo alla “rivoluzione dei cedri” (2005), due dei momenti più tesi della storia recente libanese e tra loro simili sotto diversi punti di vista.

Negli anni Settanta, cioè subito prima dell’inizio della guerra civile, si assistette al grande boom dell’economia finanziaria libanese. Grazie alle rendite petrolifere dei Paesi vicini e ad una politica fiscale favorevole all’arrivo di capitali esteri il Libano si arricchì e acquisì la sua fama di “Svizzera del Medio Oriente”. Tuttavia questo improvviso afflusso monetario non fu, anche per colpa delle decisioni delle élite dell’epoca, reinvestito adeguatamente all’interno del Paese: la produzione industriale rimase stagnante e l’agricoltura si concentrò su prodotti per l’esportazione, con la conseguente dipendenza quasi totale dello Stato dalle importazioni di beni dall’estero e un aumento del costo della vita. Allo stesso modo a ridosso del 2000 le nuove politiche volute da Rafiq Hariri (padre dell’attuale primo ministro) quasi interamente indirizzate allo sviluppo di Beirut e al ripristino del settore finanziario finirono con l’arricchire pochi e lasciare gran parte del paese vicino alla soglia di povertà.

Quando le risorse sono scarse e a disposizione di pochi la competizione si fa più intensa e si finisce per sfruttare quelle reti informali, spesso clientelari e familiari, che come abbiamo visto rientrano nella sfera dei meccanismi interni alle comunità. La percezione dei singoli cittadini di una distribuzione ineguale della ricchezza quindi finisce inevitabilmente per essere formulata su basi confessionali.

Nella storia del libano questo si è verificato per i maroniti, che negli anni Settanta si sentivano minacciati nella loro egemonia politica ed economica dalla crescente presenza demografica musulmana, e per gli sciiti, storicamente appartenenti alle classi più povere della società, “risvegliati” e chiamati all’azione dal leader del partito Amal Mousa al-Sadr. Gli sciiti si schierarono inizialmente contro le forze nazionaliste cristiane e poi, in tempi più recenti, su fronti politici opposti rispetto alla comunità sunnita progressivamente identificatasi nella figura di Hariri e nelle sue politiche economiche.

 

Terza lezione: la debolezza viene dall’interno, il pericolo da fuori

Il Libano sin dalla sua creazione è stato al centro di giochi di potere esterni, influenze e mire espansionistiche. Negli anni della guerra civile gli attori principali non libanesi erano tre: l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), lo Stato di Israele e la Siria. Il Libano dal canto suo non aveva strumenti efficaci per difendersi. L’assenza di coesione nazionale dovuta alle tensioni confessionali si rifletteva anche nell’esercito: dominato da drusi e cristiani e con una buona presenza musulmana, non riuscì mai ad imporre la propria forza contro attacchi esterni, come il bombardamento israeliano dell’aeroporto di Beirut del 1968, o nella gestione delle azioni armate condotte dai campi profughi palestinesi contro Israele che, di fatto, sfuggirono al controllo del governo. Con l’inizio della guerra civile l’esercito si dissolse lasciando presto il posto all’azione delle milizie confessionali.

Queste debolezze offrirono il fianco alle influenze straniere che, per conseguire i propri obiettivi, soffiarono sul fuoco delle divisioni comunitarie: da una parte ci fu Hafez al-Assad che cercò sempre di garantirsi il ruolo di mediatore finale appoggiando ora l’una ora l’altra milizia durante il conflitto. La Siria riuscì a mantenere fino al 2005 una presenza militare sul territorio libanese e si assicurò la presenza all’interno delle principali istituzioni beirutine di uomini scelti da Damasco denominati “gli inamovibili” (al-thawàbiq in arabo). Dall’altra parte Israele, che aveva il duplice obiettivo di difendersi preventivamente da attacchi di ampia portata da parte di eserciti arabi e da attacchi terroristici mirati provenienti dai campi profughi palestinesi, supportò con armi e finanziamenti le milizie cristiane: i cristiani erano infatti da sempre contrari alla presenza e alla naturalizzazione dei profughi palestinesi, nutrivano scarso interesse per politiche panarabe e, fino agli accordi di Ta’if del 1989, erano la prima forza politica nelle istituzioni.

Oggi la situazione è più complessa, soprattutto a seguito delle primavere arabe e della guerra civile in Siria. Il rischio oggi è molteplice. C’è innanzitutto il pericolo di una polarizzazione della società sulle due linee principali che dividono il campo siriano: l’asse filo occidentale legato alle monarchie del golfo e ai ribelli anti-Assad da un lato, e dall’altro l’asse filo-russo lealista, legato all’Iran e sostenuto da Hizballah.

Il secondo elemento di instabilità poi è quello costituito dall’arrivo massiccio di profughi siriani che rischia di mettere di nuovo in gioco l’equilibrio ottenuto con gli accordi di Ta’if (dove fu stabilita una pari spartizione del potere tra cristiani e musulmani in base alla presenza demografica delle due comunità) sulla falsa riga di quanto accadde con i profughi palestinesi prima della guerra civile.

Il terzo invece è il rischio rappresentato dall’emergere di gruppi islamici radicali sunniti, un fenomeno nuovo ed estraneo alla storia del Libano. La causa di questa radicalizzazione risiede principalmente nel ruolo sempre più forte di Hizballah nel Paese, sostenuto dall’Iran, che è riuscito nell’intento da una parte di marginalizzare i partiti sunniti e, dall’altra, di entrare in guerra a fianco delle forze governative siriane giustificandosi con l’intento di “proteggere i confini nazionali dal rischio jihadista”. La debolezza dei propri leader e un senso di abbandono diffuso soprattutto tra gli abitanti del Nord del Paese ha portato molti sunniti all’adesione a movimenti di ispirazione salafita e wahhabita che potrebbero minacciare in futuro la tenuta del sistema confessionale.

In conclusione, il sistema libano è un modello da imitare? Non proprio. La democrazia consociativa libanese, con la sua legittimazione delle spaccature confessionali, è un fattore di debolezza per le istituzioni libanesi: nel tempo ha offerto il fianco alle influenze estere, si è mostrato un modello fragile nel garantire la pace e soprattutto poco flessibile a fattori come i cambiamenti demografici ed economici del Paese. Resta tuttavia un caso esemplare di come si sia potuto gestire, in un piccolo Stato, la presenza di una molteplicità di comunità e interessi in competizione tra loro.

Scritto da
Gabriele Sirtori

Nato a Lecco nel 1996, studente di arabo e persiano, ha passato gli ultimi 3 anni tra Iran, Egitto, Libano, Kurdistan (iraniano) e il Veneto. Ha seguito corsi presso l'Università Ferdowsi di Mashhad, Iran. È studente del terzo anno presso l'Università Ca Foscari di Venezia.

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