Per noi, oggi ma più in generale nella modernità, il potere si presenta come un problema. Certo, dobbiamo riconoscere come l’ambito della possibilità, che il concetto “potere” definisce per noi in quanto tale[1], implichi il conflitto; se non attuale quantomeno sempre potenziale. Resta tuttavia un abisso tra il corretto riconoscimento di questa problematicità polemica, intrinseca al potere, e la riduzione di quest’ultimo ad un concetto pressoché esclusivamente negativo. Considerando come l’opposto del potere sia ovviamente l’impotenza – e come d’altronde non si possa dare libertà, in senso pratico-politico, senza che i soggetti di questa libertà siano al contempo dotati, almeno in qualche misura, di potere – appare strano che il nostro concetto sia perlopiù considerato negativamente. Eppure, nulla è più comune della concezione del potere come dominazione, oscura presenza oppressiva variamente opposta alla libertà, anziché come una condizione alla quale legittimamente aspirare.
Perché, dunque, ci è così facile ridurre il potere alla dominazione come opposto della libertà? L’identificazione tra potere e dominazione è, per noi, radicata nella concezione liberale di tali questioni. Con l’aggettivo “liberale” non si pretende di definire alcuna unità essenziale, ma soltanto indicare in senso lato quell’insieme di dottrine che, variamente centrate sul valore della libertà, sono state nel tempo comprese entro tale etichetta[2].
Il liberalismo, così largamente inteso, rappresenta una peculiare famiglia di dottrine politiche. La sua ragion d’essere è difendere gli individui da ogni eccessiva interferenza esterna, cosicché essi – non lo Stato né alcuna altra autorità – possano decidere cosa fare delle proprie vite[3]. Secondo l’influente teoria di John Rawls, nessuna “dottrina comprensiva” – sia essa morale, religiosa, o politica – dovrebbe essere imposta; ciascuno dovrebbe essere libero di scegliere la propria concezione del bene, purché essa sia “ragionevole” nel senso di riconoscere reciprocamente la stessa libertà ad ogni altro individuo[4]. Ci si potrebbe aspettare che da tale rinuncia all’imposizione di una determinata visione del bene segua una posizione relativista. Tuttavia, pur con notevoli eccezioni[5], i liberali sono quasi tutti moralisti[6].
Sinteticamente, possiamo dire che i vari liberalismi hanno perlopiù seguito l’esempio di Locke nel concettualizzare la libertà individuale come un diritto al contempo morale e naturale. Certo, la maggior parte dei liberali non difenderebbero più la legge naturale come oggetto metafisico; tuttavia i diritti sono ancora oggi prevalentemente concepiti come esterni al potere politico – a sua volta perlopiù centralizzato nello Stato – e azionabili contro di esso. Partendo dalla libertà come valore morale, «il liberalismo ha un solo imprescindibile obiettivo: assicurare le condizioni politiche necessarie all’esercizio della libertà personale»[7]. Questa prospettiva, necessariamente, interpreta il potere come una qualità negativa. Ciò è evidentemente vero nel caso del potere come dominazione sfrenata; ma ogni potere rischia sempre di oltrepassare argini e confini, o semplicemente di essere esercitato malevolmente. Relativamente all’insieme dei diritti dati – morali e/o naturali, ma comunque pre-politici – il potere può essere esercitato in due soli modi: per imporne il rispetto oppure per lederli.
Nel primo caso, il potere che difende i diritti è normativamente encomiabile; e però dal punto di vista liberale corrisponde alla doverosa attualizzazione di verità stabilite “all’esterno” del potere e della politica. Entro lo schema che assegna la libertà agli individui in quanto tali, considerandola come proprietà da proteggere da interventi esterni, al potere – che qui vale anche a dire: alla libertà esercitata in pubblico, alla politica – non resterebbe altro spazio legittimo che quello di eseguire l’ordine moral-legale di far rispettare i diritti. Comprenderemo facilmente come un “potere” che può solo obbedire a uno specifico comando non sia propriamente tale. D’altro canto, un potere arbitrario, “libero” d’infrangere i diritti, potrebbe dirsi propriamente tale, ma con ciò sarebbe anche normativamente condannabile per definizione.
In astratto, si potrebbe pensare esista una terza possibilità, quella di un potere che non si esercita né nel ledere né nel proteggere i diritti individuali – un potere, per così dire, indifferente. Stanti le premesse liberali, tuttavia, non c’è spazio per questa possibilità. Da un canto, le stesse relazioni che sono condizione per la presenza del potere fanno anche sì che ogni suo esercizio abbia ripercussioni tendenzialmente infinite. In linea di principio, la famosa formula “la libertà di ognuno finisce dove inizia quella degli altri”, in un pianeta affollato come il nostro, non lascerebbe spazio per alcun esercizio della libertà che produca qualche effetto (libertà effettuale che, di nuovo, non è altro che il potere). Tendiamo, certo, a non pensare così letteralmente, e implicitamente adottiamo varie soglie di rilevanza per giudicare cosa leda la libertà altrui e cosa no. D’altro canto, è facile osservare come l’elenco dei diritti considerati rilevanti tenda sempre ad allungarsi, restringendo perciò anche nella prassi, oltre che in linea di principio, lo spazio legittimamente disponibile per il potere[8]. Per queste ragioni, il sospetto verso il potere – che è per noi assieme ovvio, eppure così paradossale se solo riflettiamo sulle implicazioni – è profondamente intrinseco al liberalismo. Il potere, nella forma di uno Stato che si faccia garante dei diritti, può essere tutt’al più un male necessario[9], oppure semplicemente un male da eliminare appena possibile.
Due note sono qui necessarie. Da un lato, ragionamenti analoghi valgono non solo per il liberalismo, ma per qualsiasi teoria che pensi la politica come fondata su valori esterni al potere e alla politica stessa. Potremmo risalire all’indietro almeno fino a Platone, ma lo stesso schema si ripete attraverso visioni teologiche della politica e della storia fino anche all’utilitarismo contemporaneo. Quando la politica è pensata come serva di valori altrove stabiliti, il potere è da ridursi, alternativamente, a necessità impotente o potenza demoniaca. Tuttavia, il liberalismo resta l’esempio più rilevante non solo perché rappresenta l’ideologia egemone nella tarda modernità, ma anche perché il fatto che il suo valore specifico sia la libertà eleva il sospetto verso il potere ad un vero e proprio paradosso, come non accadrebbe per altre prospettive filosofiche o religiose.
D’altro canto, dobbiamo anche notare come il tratto distintivo del liberalismo non stia nella libertà in quanto tale, ma nella sua opposizione al potere, derivante appunto dall’essere essa concepita come valore pre-politico. Se, infatti, la tradizione filosofica non è mai stata molto favorevole alla libertà pratica (non parliamo qui di libero arbitrio o altre difficili astrazioni), al contrario l’esaltazione della libertà caratterizza il pensiero propriamente politico dall’antichità fino ad oggi. Ma, benché sia sempre stato chiaro come l’essere in potere d’altri fosse incompatibile con la libertà propria, il pensiero che i concetti stessi di potere e libertà possano essere opposti è fondamentalmente moderno.
Il liberalismo, sempre inteso in senso lato, corrisponde, sia pur ad un alto livello d’astrazione, alla paradossale politicizzazione della medesima tendenza antipolitica che ha percorso tanto la filosofia occidentale quanto la teologia cristiana. Dalla, comune, pretesa di fondare la politica su valori “esterni” discende il giudizio negativo sul potere; ma il liberalismo si fa erede della tradizionale esaltazione politica della libertà. Da ciò l’impossibile domanda normativa di libertà senza potere.
Impossibile non solo perché, come ogni buon realista farebbe notare, il potere non può essere rimosso dalla politica, ivi comprese le pratiche necessarie a determinare e difendere i diritti liberali. Ciò non fa una piega dal punto di vista pratico, ma il problema più profondo è concettuale. Se anche potere e libertà possono non coincidere integralmente[10], è chiaro che non si può essere liberi senza essere anche potenti nell’ambito volta a volta rilevante. Quest’ultimo varia attraverso diversi registri. Così, essere legalmente liberi significa avere un insieme di poteri legalmente riconosciuti, mentre si potrebbe argomentare come per essere “davvero” liberi ci voglia molto di più, come ad esempio il potere di condursi secondo ragione, o l’accesso alle risorse necessarie a fare effettivamente uso dei suddetti poteri legalmente riconosciuti. Così, essere libero nel ruolo di un imprenditore non è la stessa cosa, e non implica gli stessi poteri, dell’essere libero in quanto cittadino, artista, lavoratore e così via. Nondimeno, entro il medesimo contesto semantico l’essere libero implica avere potere, perché sarebbe insensato dire che sono libero di fare qualcosa che non posso fare – a meno che, di nuovo, libertà e potere non si riferiscano a differenti contesti[11].
Si potrebbe rispondere che la questione sia meramente terminologica. Magari i liberali si esprimono talvolta confusamente, ma ciò che avversano è il potere esercitato come controllo sugli altri, il “potere-su” o la dominazione, non il più generale “potere-di”[12], che è il concetto direttamente implicato dalla libertà. Da un punto di vista logico, il primo è un sottoinsieme del secondo; perciò, l’assenza di potere-su è almeno concettualmente possibile, per quanto difficile da realizzare nella prassi. Dunque, l’appiattimento del potere in generale sul potere-su potrebbe essere considerato un errore veniale, perché una condizione di libertà/potere priva di potere-su/dominazione potrebbe pur sempre funzionare come ideale normativo, se non proprio come immediato progetto politico. Qui, però, dobbiamo fare attenzione a mantenere la distinzione concettuale senza omettere di considerare la relazione tra i due concetti.
Infatti, benché potere-su e potere-di restino distinti, e il primo denoti un sottoinsieme del secondo, nelle nostre condizioni pratiche, ogni rilevante esercizio del potere implicherebbe un potere-su-altri, violando perciò il valore morale della libertà come concepito dai liberali. Banalmente, è difficile immaginare un effettivo esercizio del potere politico che non comporti un qualche effetto su una o più persone diverse da coloro che tale potere hanno esercitato. Questa nota di buon senso non ci porta tuttavia al cuore della questione; come già osservato, se il problema fosse puramente pragmatico l’assenza di potere-su potrebbe comunque funzionare come ideale normativo, per quanto impossibile da realizzare compiutamente (ma in ciò non diverso da molti altri, e perfettamente validi, ideali).
Piuttosto, è il significato stesso del concetto di potere a implicare una relazione necessaria – benché non l’identità – tra potere-di e potere-su. Qualsivoglia potere implica la presenza di possibilità, disponibili e rappresentate come tali da persone nel mondo. In solitudine, senza un linguaggio condiviso e senza l’interazione con altri, non avremmo rappresentazioni, non avremmo un mondo, non avremmo dunque potere. È poi ovvio come ogni potere influenzi il mondo. Non soltanto l’esercizio del potere, ma anche la sua mera esistenza contribuisce a definire il mondo in cui viviamo, e dunque ciò che ci appare possibile. Ne consegue come il mero essere di alcuni in condizione di potere interferisca con le possibilità disponibili agli altri, possibilità che definiscono la loro libertà, che è poi a dire il loro potere.
In termini un poco più concreti, è evidente come il mero fatto dell’esistenza di persone e gruppi dotati di potere, anche quando questi non lo esercitino o lo esercitino in modi che non ci toccano direttamente, contribuisca a disegnare le prospettive che ciascuno di noi ha sul mondo[13]. Non è perciò possibile separare praticamente, come lo è concettualmente, il “potere-di” dal “potere-su”, e questo non soltanto per ragioni empiriche ma anche perché sono le condizioni stesse del potere a costituire queste co-implicazioni. Nelle parole di Hannah Arendt: il potere è limitato da «… l’esistenza di altre persone, ma questa limitazione non è accidentale, perché il potere umano corrisponde in primo luogo alla condizione della pluralità»[14]. In questione non è dunque l’impossibilità di realizzare compiutamente una visione utopica, che in quanto tale potrebbe pur sempre essere legittima. Piuttosto, il dato è che soltanto il completo annullamento del potere consentirebbe di eliminare ogni traccia di potere-su, da cui appunto la paradossale, spesso inconsapevole, esaltazione dell’impotenza che possiamo osservare in tanti liberalismi.
Ora, criticare le tendenze anti-politiche del liberalismo non è di per sé cosa nuova. Dai reazionari dell’ancien régime al marxismo, passando per Carl Schmitt e tanti radicali di destra e di sinistra, molti hanno avvertito come problematico l’atteggiamento del liberalismo verso la politica. Tuttavia, queste critiche tendenzialmente dipendono da una visione del mondo sostanziale, complessivamente diversa da quella liberale, esponendosi così alternativamente all’essere ignorate per principio o all’impelagarsi in infinite questioni sia di fatti sia di norme. Viceversa, qui abbiamo cercato di mostrare come il fondamentale problema di un approccio liberale alla politica non dipenda né dal diverso apprezzamento di fatti empirici, né da diversi presupposti normativi. Piuttosto, è l’analisi concettuale che da un canto ci rende comprensibile la tendenza liberale ad appiattire il potere in generale sui suoi aspetti di controllo e dominazione, e quindi ad avversarlo, mentre dall’altro evidenzia l’assurdità paradossale di tale tentativo.
È l’idea stessa della libertà come condizione moral-naturale, anziché come creazione politica, a rendere il liberalismo – perlomeno nelle sue versioni egemoniche – intrinsecamente avverso al potere e, perciò, alla politica. Certo, i liberali non sono sempre perfettamente tali, le loro teorie non sono identiche alle loro prassi, e il mondo che abitano è lungi dall’essere integralmente determinato dal liberalismo. Perciò, i tanti attori politici, singoli e collettivi, che nel senso più lato si possono identificare con il liberalismo, certamente creano ed esercitano potere, benché incapaci di comprenderlo nel proprio schema teorico. Non sempre la mancanza di chiarezza concettuale ha dirette implicazioni pratiche; ma è nei momenti di crisi, quando le teorie politiche devono essere ripensate e le pratiche ch’esse informano adeguatamente riorganizzate, che i nodi vengono al pettine.
A parere di chi scrive, le questioni più concrete con le quali ci affliggiamo, specie in questi ultimi anni – si potrebbero fare molti esempi, ma pensiamo soltanto alla diffusa tendenza verso un elitismo tecnocratico, cui poi si contrappongono irrazionali e violente reazioni populiste – non si possono affrontare, o davvero neanche porre in modo intelligibile, senza chiarire i concetti fondamentali che, a partire proprio dal potere, usiamo in maniera distratta e confusa, tanto nell’accademia quanto nel discorso pubblico. Per essere in grado anche solo di pensare coerentemente la politica, dobbiamo smantellare l’opposizione tra potere e libertà. Questo, però, senza perdere contatto con la realtà delle condizioni del potere, che non ci consentono d’immaginare libertà prive di effetti sugli altri e sul mondo che condividiamo. Il compito certo eccede la dimensione di queste poche parole, che hanno solo tentato di inquadrare il problema.
[1] Non è possibile qui dilungarsi sulla definizione del concetto e sulle numerose implicazioni, che sono state affrontate estesamente in: G. Parietti, On the Concept of Power. Possibility, Necessity, Politics, Oxford University Press, Oxford 2022. In breve: per “potere” intendiamo la condizione di una persona che abbia a disposizione possibilità effettuali e che allo stesso tempo se le rappresenti come tali (anziché come esse stesse necessitate).
[2] Sulle difficoltà e le diverse strategie disponibili per definire il liberalismo si veda: D. Bell, What is Liberalism?, «Political Theory», 42, n. 6 (2014).
[3] «La sola libertà che meriti questo nome è quella di perseguire il nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro o li ostacoliamo nella loro ricerca»: J.S. Mill, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 1991, p. 16.
[4] J. Rawls, Justice as Fairness. Political not Metaphysical, «Philosophy & Public Affairs», 14, n. 3 (1985); J. Rawls, Liberalismo politico. Nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2021.
[5] Pensiamo ad Hans Kelsen o, più recentemente, a Bernard Williams, la cui polemica anti-moralista ha negli ultimi anni ispirato vari tentativi di formulare teorie politiche più realistiche: B. Williams, In principio era l’azione. Realismo e moralismo nella teoria politica, Feltrinelli, Milano 2007.
[6] Questa distinzione può corrispondere a due diverse interpretazioni della tolleranza, come ideale morale o come accomodamento pragmatico alla realtà del pluralismo: J. Gray, Two Faces of Liberalism, Polity, Cambridge 2000. Sulla tolleranza da un punto di vista liberale si veda anche: P. Maffettone, International Toleration. A Theory, Routledge, Londra 2020, capp. 1-2.
[7] J.N. Shklar, The Liberalism of Fear, in N. L. Rosenblum (a cura di), Liberalism and the Moral Life, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1991, p. 21, traduzione dell’autore.
[8] Il fatto che un gran numero di diritti proclamati in teoria non siano esigibili nella pratica non contraddice il nostro argomento, ma può semmai essere preso a ulteriore illustrazione dell’impotenza che tende a discendere dalla contrapposizione concettuale fra potere e libertà.
[9] Thomas Paine: «Society in every state is a blessing, but government even in its best state is but a necessary evil …», T. Paine, Rights of Man, Common Sense, and Other Political Writings, Oxford University Press, Oxford 2009, p. 5.
[10] Si vedano in proposito: P. Pansardi, Power and Freedom. Opposite or Equivalent Concepts?, «Theoria: A Journal of Social & Political Theory», 59, n. 132 (2012); P. Morriss, What is Freedom if it is Not Power?, «Theoria: A Journal of Social & Political Theory» 59, n. 132 (2012).
[11] Molte discussioni attorno alla relazione tra libertà e potere sono riducibili al disaccordo riguardo l’appropriato contesto per i due concetti. Così, i poveri sono “liberi” di partecipare al libero mercato, benché in pratica non possano farlo; ma questo significa semplicemente che sono liberi da un punto di vista legale, e infatti il loro potere di compiere transazioni economiche è legalmente riconosciuto, ma non da un punto di vista pragmatico o economico. Sulla possibilità di essere “né liberò né non libero” si veda anche: M.H. Kramer, The Quality of Freedom, Oxford University Press, Oxford 2003, cap. 2.
[12] Sulla distinzione tra “power-over” e “power-of” si vedano: P. Morriss, Power. A Philosophical Analysis, Manchester University Press, Manchester 2002; A. Allen, Rethinking Power, «Hypatia», 13, n. 1 (1998); P. Pansardi, Power to and Power Over. Two Distinct Concepts of Power?, «Journal of Political Power», 5, n. 1 (2012); A. Abizadeh, The Grammar of Social Power. Power-to, Power-With, Power-Despite and Power-Over, «Political Studies», 71, n. 1 (2021).
[13] Che la mera presenza del potere, e non soltanto il suo esercizio, costituisca un fenomeno politicamente e socialmente importante è stato ampiamente riconosciuto dai precedenti dibattiti su questo concetto, si veda in particolare: S. Lukes, Il potere. Una visione radicale, Vita e Pensiero, Milano 2007. Tuttavia, le implicazioni di questo riconoscimento non sono state tratte, perché è mancata finora una chiara comprensione del potere in termini di possibilità e loro rappresentazione.
[14] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2000, §28.