Scritto da Emanuele Felice
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Il liberalismo si articola in rami diversi, fin dalle origini. Per certi aspetti può essere paragonato all’albero evolutivo del genere homo, che si compone di diverse specie che hanno a lungo convissuto, per centinaia di migliaia di anni, e si sono anche mescolate fra loro, prima che una prendesse il sopravvento. Chiarendo però che, nel caso del liberalismo, siamo ancora nel pieno della lunga epoca di differenziazione, come se tagliassimo la chioma dell’albero evolutivo a circa tre o quattrocentomila anni fa – e non è detto che si arriverà mai a un’unità –; e con l’ulteriore avvertenza che nella genesi delle prime correnti liberali confluiscono a loro volta, e non sempre per intero, tradizioni di pensiero diverse, dalla sofistica al tomismo, dallo stoicismo repubblicano al costituzionalismo medievale, all’umanesimo dei riformatori cristiani. Pur tenendo conto di queste varietà, già a partire dal Settecento, dopo essersi affermato in Inghilterra, il liberalismo si presenta però sulla scena europea e nelle Americhe innanzitutto come «una teoria dei limiti del potere»[1], o una «cultura del limite»[2], che poggia su due pilastri ideali: la libertà – a partire da quella indagatrice della ragione, che rifiuta il dogma – e i diritti dell’uomo. La libertà e i diritti possono però confliggere fra loro, e per la verità sono concetti talmente estendibili che linee di frattura si osservano anche al loro interno, nel senso che se ne possono dare accezioni diverse anche in opposizione.
Le dichiarazioni sui diritti sono i lasciti testuali più noti, nella memoria collettiva, delle rivoluzioni americana e francese. E non è un caso che forme embrionali di queste enunciazioni si ritrovino già nel Seicento inglese, in quel turbolento periodo che farà da gestazione all’affermazione del liberalismo in Inghilterra sul finire del secolo (The True Levellers Standard Advanced e A Declaration from the Poor Oppressed People of England, rispettivamente dell’aprile e giugno 1649), brevi testi dove peraltro sono molto forti i motivi sociali (il diritto alla terra, a adeguati mezzi di sostentamento). John Locke, il filosofo inglese che per primo dà al liberalismo una forma “compiuta” (cioè la struttura di una filosofia politica), e il cui pensiero accompagna non a caso il consolidarsi della monarchia costituzionale in Inghilterra dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688-89, nel Secondo trattato sul governo (1690) definisce in opposizione all’assolutismo hobbesiano un assetto di divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e federale), perfezionato poi da Montesquieu, e lo pone a servizio dei «diritti naturali» dell’uomo, che nessuno Stato può negare ai suoi cittadini: la vita, la libertà, l’uguaglianza di fronte alla legge e la proprietà (a quest’ultima, il «terribile diritto» come lo avrebbe chiamato Cesare Beccaria, viene dedicato un intero capitolo del trattato, peraltro centrale, il quinto).
Nel 1776, il celebre secondo paragrafo della Dichiarazione di indipendenza americana pone però, fra i diritti inalienabili dell’uomo (unalienable rights), la vita, la libertà e la «ricerca della felicità» (the pursuit of happiness). Il testo, redatto da Thomas Jefferson influenzato anche dai discorsi sulla felicità pubblica propri dell’Illuminismo europeo, fa propria una visione dei diritti umani molto più estesa di quella di Locke, come è in effetti l’espressione sfuggente e ampia della ricerca della felicità, e al contempo mutevole, sia perché la felicità è naturalmente soggetta ai condizionamenti dell’epoca, sia perché assieme alla vita e alla libertà è solo uno dei possibili diritti inalienabili (among these there are; quali sono gli altri che non vengono menzionati?). Da notare però che l’uguaglianza di fronte alla legge non è formulata con chiarezza: benché si dica, all’inizio di quella stessa frase, che all men are created equal, ci si ferma qui, a una stesura un po’ vaga e anche discutibile (in che senso gli uomini sono creati uguali?). E vale la pena aggiungere che i rivoluzionari americani non aboliranno la schiavitù (sarà necessaria una sanguinosa guerra civile, ottantacinque anni dopo) e nemmeno ovviamente la segregazione razziale (in alcuni Stati del Sud bisognerà attendere un secolo dopo la fine della schiavitù).
I rivoluzionari francesi, che invece avranno il coraggio di abolire la schiavitù nelle loro colonie (ad Haiti), di dichiarazioni dei diritti ne lasciano ben tre. La prima, quella più nota, del 1789, ha un’impostazione á la Locke: nell’articolo 2, i «diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo» (droits naturels et imprescriptibles de l’homme) sono «la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione». All’articolo 1, il testo sanciva che «tutti gli uomini nascono e rimangono uguali nei diritti» e che «le distinzioni sociali non possono che essere fondate sull’utilità comune». L’articolo 4 chiarisce poi che «la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri; così l’esistenza dei diritti naturali di ciascun uomo non ha altri limiti che quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti»; la libertà, in altri termini, non deve tradursi in oppressione.
La successiva dichiarazione dei diritti, nel giugno 1793, data al periodo della Prima Repubblica, sotto il governo giacobino: dopo aver chiarito, articolo 1, che «scopo della società è la felicità comune», nell’articolo 2 si specifica che i diritti naturali e imprescrittibili sono «l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza e la proprietà»: l’uguaglianza è ora posta per prima, senza specificare peraltro se si tratta solo di uguaglianza formale (di fronte alla legge) o anche sostanziale (subito dopo, articolo 3, si aggiunge che «tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla legge», ma questo non necessariamente definisce il concetto di eguaglianza dell’articolo precedente). La proprietà c’è ancora, collocata per ultima, e dalla sua sfera viene poi esplicitamente esclusa la persona umana (articolo 18: «nessun uomo può vendersi, né essere venduto»). Soprattutto, si stabiliscono qui per la prima volta i principi che porteranno al riconoscimento dei diritti sociali, nell’articolo 21 («La società deve la sussistenza ai cittadini sventurati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di sussistenza a chi non è in età per poter lavorare»), sia nel 22 («La società deve fare tutto quanto in suo potere per promuovere il progresso della ragione pubblica e mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini»). Quanto alla libertà, si spiega adesso, articolo 6, che questa «è il potere che spetta all’uomo di fare tutto ciò che non lede i diritti altrui». Aggiungendo: «il suo principio è la natura; la sua regola è la giustizia; la sua salvaguardia è la legge; il suo limite morale è in questa massima: non fare a un altro ciò che non vuoi sia fatto a te». Oltre che limitata dai diritti altrui, la libertà viene quindi adesso fondata sulla natura, condizionata dalla giustizia, vincolata a un principio morale di reciprocità.
La terza dichiarazione dei diritti francese, la meno nota, è quella “termidoriana” del 1795 che segue alla caduta di Robespierre ed è, per la prima volta, una «dichiarazione dei diritti e dei doveri». Qui scompaiono gli embrioni dei diritti sociali e il riferimento alla felicità pubblica. Nell’articolo 1 si proclama che «i diritti dell’uomo in società» sono la libertà, l’uguaglianza, la sicurezza e la proprietà. Nell’articolo 2, subito dopo, si specifica che la libertà «consiste nel poter fare ciò che non nuoce ai diritti altrui». Nell’articolo 3, si chiarisce che l’uguaglianza, messa ora per seconda dopo la libertà, «consiste nel fatto che la legge è uguale per tutti». È quindi un’uguaglianza meramente civile, o formale. Questa parte sui diritti è scarna, ma molto precisa. Di contro, le enunciazioni sui doveri sono molto vaghe: si tratta in sostanza dei doveri verso la patria che dovrebbero dare significato, a quel tempo, alla terza parola della Rivoluzione francese, la fraternità (e fra questi vi è anche il rispetto della proprietà, sul cui mantenimento «riposano la coltura delle terre, tutte le produzioni, tutti i mezzi di lavoro e tutto l’ordine sociale»). Benché un testo meno conosciuto, per molti versi sarà la sua impostazione a divenire poi il riferimento ideale per il «liberalismo classico», durante tutto l’Ottocento.
Già dalla Gloriosa Rivoluzione inglese, e poi con le due rivoluzioni borghesi del Settecento, quella americana e quella francese di dimensioni ben maggiori (la Francia aveva allora circa dieci volte gli abitanti degli Stati Uniti, oltre a trovarsi al centro dell’Europa), la riflessione sui diritti dell’uomo si accompagna quindi alla rivendicazione e all’affermazione della libertà, intesa essenzialmente come protezione dal potere politico. Ma quali siano i diritti e quali siano i limiti alla libertà (e quali i doveri) non è definito in modo uniforme, né univoco.
Sul piano economico – non l’unico, certo, anche se molto importante –, possiamo dire che gli ideali del liberalismo si traducono innanzitutto nella rivendicazione della libertà e dignità del proprio lavoro: il riconoscimento del lavoro dei borghesi, che peraltro non devono essere tassati ingiustamente (in John Locke la loro proprietà è sacra proprio perché fondata sul lavoro, e per questo privare una persona della sua proprietà o di una parte equivale a ridurla in schiavitù), ma anche la liberazione del lavoro dai vincoli medievali (le corporazioni, il servaggio; o addirittura la schiavitù), che i francesi in particolare faranno propria e metteranno in pratica sul Continente; una liberazione peraltro funzionale allo sviluppo capitalistico e all’emergente rivoluzione industriale, e favorita a sua volta dal progresso tecnologico. Sul piano politico-istituzionale, libertà e diritti si possono conquistare, assieme, superando l’assetto assolutista, a favore di uno costituzionale fondato sulla separazione dei poteri, dove appunto i poteri si bilanciano l’uno con l’altro (il giudiziario, con il legislativo e l’esecutivo) in modo da lasciare intatta una sfera di diritti, e libertà, propria di ogni singolo individuo. Si pongono però subito contraddizioni, che peraltro esplodono in maniera anche violenta, e plateale, già nel corso della Rivoluzione francese. La libertà può opprimere i diritti? O viceversa? E quali sono le diverse libertà, in particolare? Ed esistono diritti più importanti di altri?
Napoleone, per dire, che amò fino all’ultimo definirsi liberale, fu a ben vedere il primo a mettere in pratica, dopo i turbolenti anni della Rivoluzione e del Terrore, un compromesso che poi verrà più volte riproposto, in contesti diversi: sì alla libertà economica e ai diritti cari ai borghesi, la proprietà su tutti (e questo anche al netto dei vincoli alla libertà di commercio, il blocco continentale, che furono dettati da esigenze geopolitiche, così come delle restrizioni dovute ai numerosi periodi di guerra); ma limitazione delle libertà e dei diritti politici, forieri ai suoi occhi di caos e quindi di abusi; e una concessione moderata di libertà e diritti civili. Una soluzione hobbesiana, per certi aspetti[3]. Abbiamo quindi libertà più importanti di altre, diritti “fondamentali” e altri che non lo sono. Filoni portanti del liberalismo, quello che muove dal bonapartismo e nell’Ottocento europeo verrà chiamato “liberalismo classico”, o quello che a metà del Novecento prenderà il nome di neoliberalismo, pongono in cima alla scala la libertà economica e il diritto di proprietà, considerati a fondamento di tutte le altre libertà e diritti; seguono i diritti e le libertà civili; il prezzo è il sacrificio dei diritti e delle libertà politici; i diritti sociali non vengono contemplati. Il Leviatano di Hobbes, cioè il potere politico assoluto che si fa carico del benessere dei cittadini – di quello che egli considera tale, ovviamente –, preferibilmente appoggiandosi alle forze, e alle istituzioni, del capitalismo di mercato, ma sollevando i cittadini dall’incombenza di occuparsi delle faccende politiche, è a ben vedere il modello di questa impostazione, ben più di altre che immaginano un impegno attivo ed egalitario dei cittadini nella res publica, cioè nella vita politica e sociale oltre che in quella economica.
Questa però è solo una variante. Quella inglese di John Locke, e poi sul piano economico anche di Adam Smith, ha un afflato diverso, e si propone di tenere insieme il diritto di proprietà con la libertà politica. Da una prospettiva lineare della storia, siamo in apparenza su un terreno più avanzato, come più avanzata è infatti l’Inghilterra dell’epoca, la prima metà dell’Ottocento, rispetto al Continente (sappiamo però oggi che è un’illusione, la storia non è mai lineare: la fascinazione di una libertà economica senza diritti politici tornerà più e più volte, anche nella nostra epoca, e anche in alcuni fra i Paesi più ricchi del mondo). Comunque sia, pure l’aspirazione di John Locke incontra un limite, ben presto, o una contraddizione: i diritti sociali. Le condizioni di lavoro della prima rivoluzione industriale – lo sfruttamento – sono durissime, a volte quasi inimmaginabili. La libertà economica opprime i diritti sociali di molti e, a ben vedere, anche la loro libertà fondamentale: esemplare è il caso del lavoro minorile, popolarizzato anche nella letteratura dal romanzo di Charles Dickens Oliver Twist (uscito a puntate fra il 1837 e il 1839), cui seguì in Inghilterra l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul lavoro infantile nel 1840 (la cui relazione verrà pubblicata nel 1842) e, sul versante della saggistica sociale (e socialista), Le condizioni della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels, nel 1845. La limitazione dello sfruttamento minorile, la sua graduale abolizione almeno in Occidente, e con essa la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, sono le prime forme di argine a una libertà economica assoluta, che apriranno poi la strada alla conquista di più ampi diritti sociali (il lavoro e una equa retribuzione, la casa, l’istruzione, la sanità). Tutti, a ben vedere, pongono il problema di regolare e governare l’iniziativa economica privata, pur libera, affinché essa non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», come recita ad esempio la Costituzione italiana del 1948 (articolo 41; nel 2022 verranno aggiunti anche «alla salute» e «all’ambiente»).
Sia chiaro che l’inclusione e progressiva estensione dei diritti sociali, a limitare la libertà economica, e poi anche dei diritti ambientali, non è pacifica, né frutto di una sorta di deterministico divenire della storia. Piuttosto l’esito di uno scontro sociale e culturale, anche all’interno del campo liberale, lì dove i concetti di libertà economica e diritti umani si erano generati. Spesso, peraltro, in modo contraddittorio: la più sfacciata, e feroce, delle contraddizioni è il trattamento che i liberali europei riservano per secoli ai popoli colonizzati, ancora nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, e che non trova giustificazione nel loro paradigma ideale (ma semmai, in una sua distorsione razzista o “darwinista”), mentre è in larga parte un prodotto dei meccanismi di sfruttamento capitalistico. Altrettanto grave è la contraddizione che inizialmente esclude le donne dall’uguaglianza formale, palesata anche dal linguaggio di quelle prime dichiarazioni (e difatti nell’inglese si parlerà a lungo di Rights of Man, non di Human Rights). Il superamento, parziale, di entrambe queste contraddizioni è frutto di un processo storico successivo all’Ottocento, e che vede come momenti determinanti quelle due immani tragedie che sono state le guerre mondiali.
La tensione fra la libertà e i diritti, e fra le diverse espressioni della libertà così come dei diritti, appare irrisolvibile sul piano meramente teorico. Si determina però nei processi storici, a partire dalle condizioni economiche e sociali: l’esito è il frutto di un conflitto e di un confronto, da cui scaturiscono le scelte della politica (e, per quel che vale, del pensiero liberale, come di quelli democratico, nazionalista, socialista). Sin dal Settecento e dall’Ottocento, come abbiamo brevemente ripercorso, è stato così. E così è anche adesso, nel Ventunesimo secolo, nella sfida forse decisiva della nostra epoca: riuscire a indirizzare e ancorare lo sviluppo economico, e quello tecnologico che ne è alla base, sui diritti umani nella loro accezione più ampia, vale a dire civili e politici, sociali, ambientali, e sui doveri che con essi si determinano.
[1] N. Riva, La pluralità delle tradizioni liberali e la dimensione economica del liberalismo, «Notizie di Politeia», vol. XXXVIII, n. 146, 2022, pp. 25-29, p. 25.
[2] C. Ocone e N. Urbinati, Introduzione, in Idd. (a cura di), La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. VII-XVI, p. X.
[3] Cfr. D. Runciman, Politics. Ideas in Profile, Profile, Londra 2015; trad. it. Politica, Bollati Boringhieri, Torino 2015.