Scritto da Giacomo Bottos
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Se la storia del concetto di libertà in Occidente è stata lungamente approfondita, molto più raramente ci si chiede se nella cultura cinese vi siano idee e concezioni che possano esservi in un qualche modo accostate. In questa intervista a Simone Pieranni – giornalista e fondatore dell’agenzia di stampa «China Files», ha a lungo scritto per «il manifesto» e «L’Espresso» e oggi lavora a Chora Media dove è anche autore, insieme a Matteo Miavaldi, del podcast Altri Orienti – si approfondisce il modo in cui nella cultura cinese siano o meno concepibili idee come libertà, individuo, dissenso, nonché la capacità di adattamento ed evoluzione del sistema politico e istituzionale.
Come si traduce libertà in cinese? Quali concetti propri della cultura cinese possono essere accostati all’idea di libertà?
Simone Pieranni: 自由, ziyou. Ovviamente, questo concetto in Cina si è sviluppato soprattutto sulla base dell’idea che ne abbiamo noi in Occidente. Dato che è molto complicato anche dire che cosa sia per noi la libertà, intesa in senso ampio, diventa ancora più difficoltoso farlo per la Cina. Dobbiamo semplificare: il termine è usato per la prima volta dai confuciani, nel periodo successivo alla dinastia Qin, prima stando agli storici cinesi non era mai apparso. Parliamo del periodo successivo al 200 a.C. E qui già dobbiamo specificare una cosa: il termine libertà è associato a quella che oggi chiameremmo governance o comunque gestione del governo (all’epoca era dell’Imperatore), non tanto alla libertà in quanto azione individuale contraria allo status quo. In realtà, secondo alcuni storici e filosofi cinesi, il confucianesimo, così come prevede la revoca del mandato per l’Imperatore se questi non assicura il benessere della popolazione, prevede anche che l’intellettuale abbia la libertà di dire cosa non va bene. Ma il fine di questa libertà è sempre il bene comune e l’armonia della governance. Se vogliamo, al confucianesimo si contrappone sempre il taoismo, considerato più “libertario”. Ma anche in questo senso, la libertà è soprattutto intesa come un processo di sottrazione più che come partecipazione: sono libero di sottrarmi alle dinamiche politiche, cercando una mia libertà interiore attraverso una vita “fuori” dai meccanismi di governance. Mi viene in mente a proposito una cosa: il sinologo Joseph Needham, che si è occupato della storia della scienza in Cina con una produzione enciclopedica, distingue ad esempio confucianesimo e taoismo in relazione proprio alla scienza, o meglio all’intervento umano sulla natura. Il confucianesimo, per semplificare, era contrario (seppur contrario alla “superstizione”) alla modifica dell’uomo sulla natura, i taoisti no e furono loro, più di altri, a contribuire allo sviluppo della scienza in Cina.
Nello specifico quale posto ha l’idea di libertà nella concezione del Partito Comunista Cinese?
Simone Pieranni: Per il Partito Comunista Cinese la libertà individuale è totalmente sottomessa a quella collettiva e la sua applicazione individuale è integralmente gestita dal Partito. Il Partito Comunista ha ripreso il concetto di armonia confuciano, diventato una specie di linea guida dai tempi di Hu Jintao (leader del partito tra il 2002 e il 2012), finendo per inserire il concetto di libertà come le intendiamo noi all’interno di un perimetro nel quale alcune cose sono consentite e altre no. In pratica, si consente l’esercizio della libertà individuale all’interno di uno specifico campo “concesso” dal Partito. E, se guardiamo alla storia cinese degli ultimi cinquant’anni, questa libertà è quella di arricchirsi, di partecipare alla vita economica del Paese e niente più. Su questo pesa anche lo scontro con l’Occidente, cresciuto negli ultimi anni. Ad esempio Wang Huning, considerato l’ideologo di tre leader, Jiang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping, negli anni Ottanta compie un viaggio negli Stati Uniti e in seguito scrive America Against America, un libro che secondo alcuni analisti americani è utile ancora oggi per capire non tanto la Cina bensì l’America, in relazione soprattutto ai fatti seguiti all’assalto a Capitol Hill. A un certo punto Wang dice una cosa di questo genere: gli Stati Uniti hanno due valori fondanti: la libertà e l’uguaglianza. Negli Stati Uniti che ha osservato, dice Wang, ormai è prioritario il concetto di libertà a discapito dell’uguaglianza. E qui si forma la recente considerazione cinese della libertà, in senso occidentale, ovvero una dinamica tossica per il funzionamento di uno Stato e soprattutto per la sua tenuta “morale” e culturale. In sostanza, per Wang, la libertà rischia di far deragliare i valori identitari di uno Stato e per questo va controllata, gestita, pilotata.
Quale idea vi è in Cina della concezione di libertà propria della cultura e dei sistemi occidentali? Come viene considerata?
Simone Pieranni: Dipende molto dai diversi contesti cinesi nei quali si è discusso di questo concetto. Nel 1989, per gli studenti cinesi il concetto di libertà occidentale era un esempio di quello che intendevano loro: libertà di partecipare alla vita politica, di criticare, di avere parola. Ovviamente per il Partito Comunista è il contrario, la libertà in senso occidentale è pericolosa. Jiang Zemin, ad esempio, che diventa segretario del Partito proprio nel 1989, quando ancora era segretario a Shanghai, di fronte alle proteste decide di prendere parola. Incontra gli studenti e gli chiede: che ne sapete della libertà in America? Recita loro a memoria il discorso di Abraham Lincoln ammonendoli: sappiamo benissimo cosa sono gli Stati Uniti e quali sono i loro valori, ma noi siamo cinesi e certe cose dobbiamo adattarle al nostro contesto. Come a dire quella libertà americana, o quella che voi pensiate sia la libertà americana, qui non è permessa. E oggi la libertà è ancora più considerata un valore occidentale e additata come una delle cause della “decadenza” delle democrazie. Che sia vero o meno che poi all’interno del Partito tutti credano davvero a questa decadenza, il concetto di libertà è assimilato allo sgretolamento dei valori condivisi di una società.
La cultura cinese come concepisce l’individuo e la persona? Con quale rapporto con la comunità?
Simone Pieranni: La persona è un ingranaggio di quella macchina collettiva che costituisce la cosa più importante per il sistema valoriale cinese. La libertà individuale è meno importante del bene collettivo. Quindi un individuo ha come scopo principale quello di non mettersi in mezzo, di non inceppare la macchina collettiva. A questo proposito mi viene in mente François Jullien, un sinologo e grecista che ha dedicato tutta la vita a comparare le due culture. Devo fare una premessa: ho apprezzato molto la sua opera all’inizio della mia conoscenza della Cina, oggi invece ho molti più dubbi al riguardo, mi sembra che alcuni aspetti dell’opera di Jullien siano eccessivamente “semplicistici”. In ogni caso, lui ricorda ad esempio come anche L’arte della guerra di Sun Tsu non sottolinei mai l’eroe, il protagonista, ma finisca per affogare anche l’arte militare all’interno di un complesso collettivo. Questo stride un po’ con i tanti eroi che ha prodotto la rivoluzione comunista, pensiamo solo a Lei Feng, celebrato di recente proprio da Xi Jinping. Ma in ogni caso nella Cina di oggi l’individuo è secondario rispetto al bene collettivo.
Quali fattori determinano la relativa incomprensione culturale tra Cina e Occidente su queste tematiche?
Simone Pieranni: Io credo che l’incomprensione ci sia, ma che sia anche utilizzata un po’ da entrambe le parti per mantenere una certa “distanza”. Se pensiamo ai gesuiti, che sono riusciti a parlare e a confrontarsi con l’Impero cinese, quando c’era una conoscenza reciproca di gran lunga inferiore a quella che abbiamo noi oggi, e addirittura a trovare elementi comuni, vuol dire che in realtà il modo per comprendersi c’è, ma oggi è ostacolato da questa contrapposizione Ovest/Est, che è soprattutto un confronto voluto per difendere i nostri spazi, dal lato occidentale, per uso interno dal Partito Comunista, dal lato cinese. Si dice spesso che i cinesi ci conoscano meglio di quanto noi conosciamo loro: può essere vero, ma questo non cambia il fatto che di recente la Cina sta spingendo moltissimo su questa “incomprensione”. Nel momento in cui Xi Jinping sostiene che la modernizzazione cinese è diversa da quella occidentale, ciò è conclamato anche politicamente. Tra i fattori che oggi determinano questa incomprensione c’è la messa in discussione da parte della Cina dell’universalità dei valori occidentali. E questo ci mette parecchio in crisi. Federico Masini – che è considerato uno dei massimi sinologi italiani – mi ha raccontato spesso un aneddoto. Lui faceva l’interprete per qualche comitiva politica che era arrivata in Cina ai tempi di Deng. E Deng ai politici italiani avrebbe detto: parlate tanto di diritti umani, ma lo sapete per noi cinesi qual è il primo diritto umano da rispettare? Permettere alla popolazione di non soffrire la fame. Dobbiamo tenere conto che questi concetti maturano, nella Cina contemporanea, dopo il cosiddetto “secolo delle umiliazioni”, quello delle occupazioni occidentali del territorio cinese, del “qui non possono entrare i cani e i cinesi” e quello di una Cina poverissima, devastata dalle carestie e dalle scelte politiche di Mao, Grande balzo in avanti e Rivoluzione culturale in primis. I cinesi contemporanei quindi partono da presupposti completamente diversi dai nostri nel secondo dopoguerra. E questi presupposti oggi diventano la radice del nazionalismo che si basa sulla “sottolineatura” dell’incomprensione occidentale della Cina. Che c’è, è innegabile, ma che la Cina di oggi fa poco per colmare. Sono distanti i tempi in cui Zhou Enlai diceva a Henry Kissinger, giunto in Cina con Nixon nel 1972, “la Cina non è più un mistero se la si studia”. Oggi ho l’impressione che la Cina, cioè il Partito Comunista Cinese, tenda a sottrarsi a un reale confronto, proprio per alimentare questa incomprensione. Al netto del comportamento occidentale, che, a mio avviso, continua a essere pieno di pregiudizi e di luoghi comuni nei confronti della Cina. Su Foreign Affairs è comparso un articolo molto interessante nel quale si dice: interpretare la Cina come interpretiamo i sistemi politici occidentali porta solo a errori. Verissimo e sono d’accordo. Ho la percezione, però, che oggi anche la Cina faccia poco per farsi capire meglio da noi. E temo che questo sia dovuto al fatto che, al di là dei rapporti economici, Xi Jinping ritenga conclusa la partita di apertura e confronto con l’Occidente, che ha ormai deciso essere un nemico della Cina.
Quali sono le forme e i canali attraverso i quali il sistema politico e istituzionale cinese rileva e reagisce alle spinte dal basso?
Simone Pieranni: Questo è uno degli aspetti che credo sia tra i più interessanti della Cina contemporanea. Il Partito Comunista fonda la sua legittimità su alcune cose: la crescita economica, con Xi Jinping si è aggiunta anche la posizione internazionale, ma soprattutto sul fatto di essere sempre in grado di cogliere i sentimenti della popolazione. In questo modo il Partito è visto dalla gran parte dei cinesi come una sorta di ago della bilancia e risolutore dei problemi. Facciamo due esempi: in Cina ci sono ogni anno migliaia di proteste, quelle che vengono chiamati “incidenti di massa”. Sono per lo più locali e hanno quasi sempre obiettivi specifici: il funzionario corrotto, la fabbrica inquinante, l’azienda che non paga gli stipendi, le requisizioni forzate di terreni o edifici, ecc. Queste manifestazioni si concentrano sull’oggetto contro il quale si protesta e al Partito viene chiesto di intervenire, di sistemare le cose. Siamo ancora al concetto di Partito come saggio confuciano che redime le controversie, perfino quelle legali. Non è un caso che a Pechino arrivino ancora oggi i “petizionisti”, cioè persone che giungono nella capitale con delle lamentele personali e chiedono al Partito di rimediare, proprio come si faceva in epoca imperiale. Ricordo che a Pechino ogni tanto andavo nelle zone dove ci sono gli uffici per la presentazione di queste petizioni e quasi tutte quelle di cui mi è capitato di occuparmi erano inerenti a indennizzi economici o a infortuni sul lavoro non pagati. Solo che con il tempo sono aumentati molto i petizionisti e il Partito ha provveduto in alcuni casi a fermarli ancora prima che partissero, mentre altri vengono rispediti indietro. Altro esempio: la recente campagna del Partito contro le piattaforme tecnologiche. A mio avviso questo è un esempio perfetto del modus operandi del Partito Comunista. Il Partito aveva bisogno di rettificare le piattaforme per riportarle all’interno di una produzione tecnologica “per l’interesse nazionale” e non più privato o privatistico. Il Partito ha analogamente registrato un “sentimento” da parte della popolazione nei confronti dello strapotere di queste piattaforme: in Cina esistono dei siti, come potrebbero essere da noi quelli dei consumatori, nei quali si pubblicano tutte le cose che le piattaforme fanno, come ad esempio raccogliere i dati senza autorizzazione o diffondere pubblicità di prodotti fake o ingannevoli. Il Partito ha preso la palla al balzo: per risolvere un problema suo, di potere, di gestione dei dati e di controllo dell’opinione pubblica, ha pubblicizzato questa campagna anche in direzione dei diritti degli utenti. E questo ha prodotto anche cose notevoli, come la legge sulla privacy (molto simile a quella europea, tranne per i pochi dettagli rispetto a quello che con i dati, ad esempio, possono fare il Partito e lo Stato) e una legge sugli algoritmi, che vieta alle piattaforme di utilizzare i dati per “customizzare” i messaggi pubblicitari. Per questo il Partito è ancora così forte in Cina, perché ha presa sulla società, ne recepisce le istanze e le richieste e, a suo modo, le “risolve”.
Esistono forme e radici culturali proprie della società e della cultura cinesi relative alla manifestazione del dissenso?
Simone Pieranni: Per come intendiamo noi queste forme culturali non esistono. Come dicevamo all’inizio, anche per i taoisti la libertà era più un esercizio di sottrazione che di antagonismo. Naturalmente, soprattutto in seguito all’avvento di Internet, oggi esistono forme di questo tipo ma che sono assolutamente contemporanee e non affondano per forza di cose in fenomeni culturali antichi, o comunque passati. Su questo aspetto una delle cose più interessanti sarebbe analizzare la storia del ruolo dell’intellettuale in Cina e come si è evoluta nel tempo, passando anche per il periodo nero del maoismo, nel quale durante la Rivoluzione culturale essere un intellettuale era particolarmente pericoloso, fino ad oggi nel quale l’intellettuale è concepito come più che mai organico al potere.
La previsione, diffusa in Occidente negli ultimi decenni, che le riforme economiche avrebbero portato necessariamente ad un cambiamento politico non si è avverata. La crescita economica ha però portato a cambiamenti sociali che nel lungo periodo potrebbero condurre a mutamenti del sistema politico?
Simone Pieranni: Non si è avverata perché era un’illusione occidentale, non perché la Cina avesse mai fatto credere che quello sarebbe stato il suo percorso. Quando Deng apre il Paese al mercato globale, dice: “aprendo le finestre entreranno l’aria e anche le mosche”. Ed era piuttosto chiaro a tutti che le mosche avrebbero avuto un trattamento particolare affinché non potessero entrare. Possiamo dire che tutta l’attività culturale del Partito Comunista dagli anni Settanta in avanti è proprio questo esercizio: prendere dall’Occidente le cose utili e lasciare fuori le cose dannose. Tornerei per un attimo a Wang Huning. Wang Huning deve molto al 1989, l’anno terribile della Cina che porta al potere Jiang Zemin. Politicamente è uno dei momenti più duri per il Partito: dopo la repressione delle proteste studentesche, la sfiducia e il sospetto per il Partito da parte della popolazione è al massimo. Una situazione analoga a quella che incontrerà Xi Jinping, che arriva al potere nel 2012 quando corruzione e favoritismi minano la credibilità del Partito di fronte alla popolazione. Prima dell’incoronazione di Jiang c’erano state le epurazioni di Hu Yaobang e Zhao Ziyang, premier e segretario. Epurazioni decise da Deng Xiaoping e il gruppetto di ex rivoluzionari con cui Deng ha continuato a controllare il Paese, in totale mancanza del rispetto delle regole dello Statuto del Partito. Jiang Zemin all’epoca ha pochi alleati (non ha una base di potere, specie tra i militari), ma parecchi consiglieri, dote di una famiglia che vanta un eroe della Rivoluzione; uno dei suoi consiglieri è Wu Bangguo (che poi diventerà vicepremier e presidente dell’Assemblea nazionale). Wu aveva notato Wang Huning all’Università Fudan a Shanghai, dove era diventato professore a soli 29 anni. Wu capisce che Wang ha le risposte giuste, proprio quelle che cerca Jiang Zemin, che è il vero esecutore del testamento di Deng e la cui principale preoccupazione è come adattare la Cina alle riforme economiche e alle soluzioni occidentali, preservando il controllo del Partito sulla “tenuta” culturale del Paese. E così gli segnala Wang. Come ha scritto il sinologo David Ownby (che ha tradotto alcuni scritti di Wang): «Wang fa parte di quella serie di intellettuali che hanno identificato la modernizzazione come un processo in permanente tensione con i sistemi di credenze condivise che tengono insieme le comunità umane. Vista dal punto di vista dell’ordine politico, la modernizzazione è auspicabile solo nella misura in cui può essere controbilanciata dalla creazione di nuovi sistemi di valori il cui ruolo funzionale è mantenere le istituzioni forti e le società governabili. Gli Stati forti sono Stati culturalmente unificati. Per un intellettuale dell’establishment nel contesto della Cina governata dal Partito Comunista, questo significa preservare e centralizzare l’autorità del Partito; rinnovare ed espandere la fede nel socialismo e ricalibrare la globalizzazione per rendere il sistema internazionale più favorevole alla sopravvivenza del Partito». Da Jiang, passando per Hu, oggi siamo a Xi Jinping e il suo recente discorso sulla modernizzazione riecheggia proprio questi ragionamenti di Wang.
Come sta cambiando il sistema cinese nel lungo periodo, segnato dalla leadership di Xi Jinping? Quali passaggi si sono determinati all’ultimo Congresso? Stanno sorgendo ora nuovi elementi di fragilità?
Simone Pieranni: Il Partito Comunista si muove sempre nel segno della continuità, di una continuità che ha ancorato al passato imperiale della Cina. Non è un caso che il recupero così forte del senso di un’origine, di una sorta di Cina eterna, sia stato sottolineato in continuazione durante questi dieci anni di Xi Jinping. Xi Jinping, e anche qui c’è lo zampino di Wang Huning, ha sviluppato una vera e propria epica, alla ricerca di quegli elementi di continuità tra grandezza cinese e ruolo storico del Partito Comunista, il veicolo odierno del “destino” della Cina: quello di essere una potenza mondiale e soprattutto di essere “diversa” dal resto del mondo, contribuendo non poco alla considerazione della Cina come “civiltà” costretta, suo malgrado, a convivere nelle sembianze di uno “Stato-nazione”. Nell’ultimo Congresso abbiamo assistito a uno scarto rispetto al passato da un punto di vista degli equilibri interni del Partito: rispetto ai precedenti quando alle minoranze politiche (come potremmo dire noi) all’interno del Partito veniva comunque consentito una “rappresentanza”, nel Ventesimo congresso Xi ha preso tutto, mandando in soffitta la cosiddetta “guida collegiale” del Partito. Se questo sarà un elemento di forza o di fragilità è molto complicato dirlo oggi. Dovremo vedere come si evolverà la situazione economica interna e anche quella internazionale. Se prendiamo però come esempio l’inversione della politica cinese sul Covid-19, da lockdown durissimi a “liberi tutti”, ci accorgiamo di una cosa: che alla fine la presa del Partito Comunista è talmente forte da potersi permettere anche una “inversione a U” di questo genere, piuttosto rara in Cina. Allo stesso tempo – dato che la politica “Zero Covid” era un marchio di fabbrica di Xi – questo potrebbe essere invece visto come un segno di “fragilità”. Questo è l’enigma cinese, dovuto al fatto che di quanto accade all’interno del Partito Comunista nessuno sa niente. Abbiamo però una certezza: per quanto completamente nelle mani di Xi, nel Partito si muovono molte fazioni, gruppi e gruppetti che al momento, magari non hanno agibilità, ma in Cina talvolta il panorama politico accelera in modo imperscrutabile.
Vi sono divari negli approcci che le diverse generazioni hanno rispetto alle questioni che abbiamo discusso?
Simone Pieranni: La generazione degli anni Ottanta ha prodotto molto sul tema, specie dal punto di vista culturale. Quella degli anni Ottanta è stata un’apertura che ha finito per avvicinare un po’ i cinesi all’Occidente, attraverso la musica, la letteratura, l’arte ecc. Ma ho l’impressione che in Cina perfino gli anni Ottanta abbiano fatto fatica a sedimentare davvero nella cultura popolare. Mi spiego: quando a fine 2022 ci sono state le proteste contro la politica di contenimento del Covid-19, siamo rimasti tutti sorpresi. Non tanto perché in Cina le proteste non ci siano, ne abbiamo parlato prima, ma perché le generazioni più giovani in Cina sono apparse per molto tempo completamente depoliticizzate, o in ogni caso poco inclini a scontri veri e propri con la leadership. In questo senso l’ultima ondata di dissidenti è quella di Liu Xiaobo, che era però una generazione che arrivava dagli Ottanta. Ecco, queste proteste sono iniziate e finite e tutti in Occidente se ne sono dimenticati. Ma in realtà sono importanti e molto, anche se non fossero state, come molti ritengono e come credo anche io, fondamentali nello shift politico sul Covid-19 dovuto più a questioni economiche che di stabilità sociale: sono il primo tassello di memoria condivisa di una nuova generazione in Cina. E non è detto che sarà l’ultimo: l’accentramento del potere di Xi, l’eliminazione dei residui spazi di dibattito e di “contrasto” seppure solo culturale, è incomprensibile per i giovani che non essendo nati in un periodo di fame e carestie faticano a capire perché sia necessaria “la stabilità” così come la concepisce il Partito Comunista. Quindi, se parliamo di un patto sociale tra Partito e popolo, fondato sulla crescita economica, credo che quel patto andrà primo o poi aggiornato. Altrimenti i più giovani – nati in un contesto di crescita che ora però rallenta – potrebbero essere il problema principale per la tenuta politica del Partito.
In che modo l’attuale fase di tensione internazionale influirà sul sistema cinese rispetto alle questioni che abbiamo affrontato? Quali le prospettive possibili?
Simone Pieranni: Purtroppo io non sono ottimista. Le recenti produzioni politiche del Partito Comunista, “il position paper” sull’Ucraina, il documento sulla “sicurezza globale” e il discorso di Xi sulla modernizzazione, credo stiano portando la Cina a cavalcare un pericoloso crinale di contrapposizione ideologica con l’Occidente che non porterà a niente di buono, né per la Cina né per il mondo. E dire che sarebbe pure un venir meno all’indicazione di Deng che a proposito era stato molto chiaro quando ai funzionari di Partito aveva ricordato di non cadere nella “trappola ideologica” di rispondere alla domanda: siamo più comunisti o siamo più capitalisti. Ecco oggi a quella domanda, che si è via via colorata di nuovi elementi, Xi Jinping sta invece rispondendo ponendo la Cina da una parte e l’Occidente dall’altra. E penso sia un grave errore.