Scritto da Angelo Turco
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Il problema che si pone oggi Milano è quello di definire o ridefinire la propria identità. Un tale problema non può che portare ad una vasta opera di studio, ad una riflessione collettiva. In palio non vi è solo la necessità di pensare la Milano del domani, ma anche di evitare il rischio di perdere la propria “anima”, la propria memoria storica, il proprio capitale civico, che va al di là della distinzione tradizionale tra corpo urbano e abitanti. La città europea come corpo compatto, una visione abituale del nucleo urbano che ha caratterizzato l’immagine stessa della città nel corso dei secoli, lascia ormai spazio ad una nuova realtà, quella della “città mondiale”, che ridisegna le grandi conurbazioni dal Brasile alla Cina, dal nord al sud dell’Europa: è una città fatta di spazi grigi e frontiere interne, sacche di emarginazione e violente gentrificazioni, nuovi apartheid urbani e focolai di tensione più o meno latenti. I vecchi confini della città europea, la dicotomia città/campagna, risultano obsoleti: è sufficiente guardare una carta di Milano del 2015 per rendersi conto della labilità dei confini amministrativi. Dove termina un comune, prosegue senza soluzione di continuità la città reale e si mescolano aree di sviluppo impetuoso ed esclusivo (o escludente) con aree di abbandono, ghettizzazioni etniche, incuria, mancanza generalizzata di servizi pubblici che comporta, a sua volta, l’impossibilità dell’investimento privato e la mancata fioritura del terziario e del commercio. Imparare a conoscere questo territorio, magari esplorandone i margini, i confini (sia quelli cartografici che quelli reali) sarà sempre più importante per comprendere le dinamiche sociali e trovare una risposta al bisogno di cura della città. E sarebbe necessaria, impellente, una mappatura sociale della città vasta. Capire chi la abita, quali sono i lavori, i settori produttivi che la animano, come si muovono le persone all’interno di essa, con quali mezzi e verso quali direzioni. Sappiamo molto della Milano futura ma non la conosciamo ancora abbastanza per poterne dare una descrizione politica. Sappiamo solo che, nella sua anima, è la stessa Milano di sempre, con la sua violenta aspirazione al nuovo e la sua rete di solidarietà che ha radici antiche, nel socialismo municipale e nel mutualismo, le cui forme cambiano ma ancora intessono e irrigano i meandri della città di oggi e quella futura.
Milano nella storia del Novecento italiano.
Il 14 giugno 1914 il Partito Socialista Italiano conquista il Comune di Milano, con il 45,6% dei voti. Le giunte di Emilio Caldara (1914-1920) e Angelo Filippetti (1920-1922) amministrano la città in un momento drammatico, durante la Prima Guerra Mondiale e nel difficile Dopoguerra sino all’avvento del fascismo.1 Caldara e Filippetti godono del consenso dei lavoratori milanesi e mettono la propria solida cultura riformista al servizio di una idea di profondo rinnovamento della società, coniugando spesso valori socialisti con valori patriottici, fornendo assistenza all’intera cittadinanza colpita dalla sofferenza della guerra (i soldati, le vedove, i mutilati e feriti, i ciechi), ma sapendo anche gettare le basi per un nuovo ruolo del cittadino, ponendo i consumi al centro dell’azione politica municipale, con una preziosissima azione di rifornimento di merci alla città a prezzi calmierati. Caldara vince le forze conservatrici conquistandosi anche il sostegno, grazie all’assistenzialismo di guerra, delle forze interventiste antisocialiste, tra cui il direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini che riconosce nel sindaco, dopo averlo paragonato al Barbarossa in campagna elettorale, una figura solida e concreta al servizio della città. In questo contesto si colloca la municipalizzazione dei trasporti pubblici, la realizzazione di comitato centrale di tutti gli enti di beneficienza col fine di meglio coordinare le opere assistenziali presenti nel tessuto cittadino, la municipalizzazione degli asili infantili, l’avvio della refezione scolastica estesa a tutti gli alunni indistintamente, il finanziamento comunale alle scuole professionali (come la Società Umanitaria, fiore all’occhiello del mutualismo milanese, ancora oggi operante) e vasti e articolati programmi di opere pubbliche, lasciando un segno indelebile nella società e nello sviluppo futuro delle reti sociali, solidaristiche e mutualistiche. Il messaggio dei socialisti milanesi guarda all’Italia intera e proclama di essere all’altezza della sfida del Dopoguerra: senza rinunciare ai propri ideali di fratellanza universale, si pone come forza nazionale dedita al progresso del Paese in un avvenire di profonde trasformazioni sociali. Milano ha sempre saputo unire, nei momenti cruciali, le proprie forze ed esprimere al meglio le proprie virtù: umanità, generosità, inventiva, concretezza, capacità di lavoro e organizzazione. Così è stato nei duri anni del conflitto, così avviene nel Secondo Dopoguerra, quando Antonio Greppi2 diventa sindaco di Milano nel 1945. Figura straordinaria, socialista cristiano, animato dai limpidi valori dell’aiuto ai meno abbienti, dell’emancipazione dei lavoratori con l’affermazione dei propri diritti, della conquista di una società più libera e giusta attraverso la formazione e l’educazione del popolo, senza violenza e senza prevaricazioni e nella tolleranza, Greppi è il sindaco della ricostruzione della città dalle macerie, è il sindaco della Liberazione. Assume l’incarico il 27 aprile lanciando un appello per la cessazione delle violenze, organizzando una prima squadra di vigili per prevenire ogni forma di giustizia sommaria. Da questo momento e sino al 1951, l’azione municipale si misura con i milioni di metri cubi di detriti da rimuovere e le migliaia di poveri, sbandati e disoccupati che popolano la città. Greppi provvede all’alimentazione della popolazione attraverso mense collettive e ristoranti del popolo, rimettere in sesto i servizi di assistenza sociale e sanitaria, ricostruisce le scuole, ripristina l’illuminazione pubblica. Ma accanto a questo meticoloso impegno nella ricostruzione urbanistica e sociale della città, Greppi indica una strada che da questo momento in avanti Milano non abbandonerà più, quella della cultura e dell’emancipazione attraverso lo sviluppo culturale. Vengono alacremente eseguiti i lavori di restauro della Scala, che riapre nel maggio del 1946 con un concerto di Artuto Toscanini che segna anche simbolicamente la rinascita di Milano, che ha intanto premiato il PSI nelle urne con il 36% dei voti. Sono gli anni del primo Piano Regolatore, che disegna anche l’avveniristico quartiere QT8, emblema della simbiosi tra cultura e finalità sociali: un quartiere sperimentale nato dalle idee dell’architetto Pietro Bottoni e riferimento centrale dell’esposizione al Palazzo dell’Arte del 1947 dedicata al tema della casa in ogni suo aspetto, dall’urbanistica all’arredo. La cultura è una scelta programmatica per la città, lo dimostra la creazione del primo teatro stabile, comunale, un pubblico servizio necessario al benessere dei cittadini: il Piccolo Teatro, diretto da Giorgio Strehler e Paolo Grassi e ancora oggi riferimento internazionale di ineguagliata tradizione sperimentale.
Milano, lo si ricorda spesso, precorre le fasi politiche nazionali. A Milano nasce il centro-sinistra con la Giunta di Gino Cassinis, socialdemocratico, nel 19613, precedendo di quasi tre anni la formazione del Governo Moro-Nenni, prima realizzazione concreta dell’alleanza politica nazionale tra democristiani e socialisti. Anche nel periodo precedente del centrismo, Milano svolge una funzione di distinzione rispetto al quadro nazionale dominato dalla Democrazia Cristiana, e infatti la guida della città rimane per dieci anni appannaggio del Partito Socialdemocratico e del sindaco Virgilio Ferrari. Con Ferrari Milano completa la ricostruzione post bellica ed affronta le impellenti necessità di una metropoli in espansione, con un ritrovato ruolo di capitale economica del paese. L’Amministrazione svolge un ruolo di indirizzo per lo sviluppo industriale, accompagnando quest’ultimo con una costante attenzione alla tutela sociale della cittadinanza e al problema abitativo. Sono gli anni della realizzazione di vasti progetti di edilizia popolare e di implemento dei pubblici servizi, tra cui il trasporto urbano (progettando già dal 1953 la prima linea della metropolitana). Nella municipalizzazione del gas4, di proprietà della Edison, attuata nel 1960, a Milano si misura lo scontro più forte tra le istanze progressive di una classe politica lungimirante e una delle forze più retrograde del capitalismo italiano del tempo. Ma la nascita della Giunta PSI-DC-PSDI non si concretizza sul piano dell’ideologia, bensì attraverso l’individuazione di precise soluzioni operative finalizzate alla trasformazione progressiva delle strutture economico sociali milanesi: lotta ai monopoli privati, nuove municipalizzazioni, valorizzazione dell’autonomia del Comune e del suo ruolo di intervento nell’ambito della programmazione pluriennale, incremento dei lavori pubblici.
Gli anni Sessanta sono caratterizzati dall’immigrazione di massa, a fatica incanalata in un tessuto urbano in espansione rapidissima. Sorgono quartieri nuovi, interamente abitati da immigrati provenienti dal Mezzogiorno, e l’offerta di servizi pubblici fatica a tenere il passo dell’esplosione urbana. Anche in questo Milano fornisce una prova esemplare, seppur con contraddizioni e difficoltà. Diventa città dell’integrazione per antonomasia, la città delle opportunità per tutti, ma al prezzo di tensioni sociali e urbane, condite da fosche tinte di razzismo. Una teoria5, conservatrice, sostiene che l’integrazione delle masse operaie meridionali avvenga a Milano grazie al modello di lavoro della fabbrica, nella quale l’operaio meridionale “accetta” i valori culturali della società industriale settentrionale. Anche la tesi di una “integrazione radicale”, favorita dalla sindacalizzazione, rafforzata dalle lotte operaie che divampano in città e vedono sfilare nei cortei meridionali e milanesi a partire dal 1960-61, appaiono a distanza di mezzo secolo una semplificazione. Certamente i cambiamenti sul posto di lavoro e la tarda ma veloce industrializzazione italiana spinsero i lavoratori a unirsi e favorirono l’integrazione, pur dovendo constatare il permanere per tutto il decennio di fenomeni di emarginazione e discriminazioni anche in seno alla classe operaia. Quello che ancora oggi possiamo imparare da quella che, a tutti gli effetti, è stata una gestione di immensi flussi migratori, è che una vera integrazione può essere favorita solo da un preciso impegno delle classi dirigenti in tal senso, anche spinte da necessità di tipo elettorale: gli immigrati meridionali erano elettori, gli immigrati che arrivano oggi nel nostro paese no, ed è più semplice per una classe politica miope ignorare il problema o sfruttarlo per generare paure e rancori che dividano i ceti popolari piuttosto che porsi il tema dell’estensione dei diritti di cittadinanza per favorire uno sviluppo sociale progressivo.
A metà degli anni Settanta il panorama politico nazionale viene sconvolto dall’impetuosa affermazione del Partito Comunista nelle elezioni amministrative del 1975. Non fa eccezione Milano, che per la prima volta vede una alleanza tra PSI e PCI al governo della città. Dopo i lunghi anni dell’amministrazione del socialista e partigiano Aldo Aniasi, durante i quali la città affronta la drammaticità del terrorismo, l’attentato di Piazza Fontana, il lutto collettivo, il disorientamento, a Palazzo Marino viene eletto Carlo Tognoli nel 19766. Il PCI, che a Milano vedeva già dagli anni Sessanta affermarsi una forte componente riformista e amendoliana, che non aveva mai nascosto il proprio interesse per le esperienze di governo di centrosinistra, avvia negli anni Settanta una interlocuzione sempre più costante e proficua con i socialisti, fino alla nascita della Giunta di sinistra. Non si può scindere questa esperienza amministrativa dalla concomitante ascesa del milanese Bettino Craxi, autonomista come Tognoli, alla guida del Partito socialista: il successo nazionale del PSI sarebbe inevitabilmente passato dal successo dell’azione di governo socialista del Comune di Milano. Nei dieci anni della Giunta Tognoli Milano si risveglia dalla cupezza del terrorismo, scopre una vocazione al terziario e ai servizi, abbatte sensibilmente i fenomeni di emarginazione sociale, imposta una programmazione nel corso dei primi anni Ottanta sulla fondamentale riconversione delle aree industriali via via dismesse, potenzia i servizi di trasporto pubblico, accende le luci della cultura e dell’innovazione, coniugando ancora una volta la vocazione alla creatività (sono gli anni in cui Milano diviene capitale europea e mondiale della moda, traendo linfa dalla propria plurisecolare esperienza industriale tessile e manifatturiera) con i principi della solidarietà e della giustizia sociale. Non fa eccezione l’esperienza successiva, quella della Giunta Pillitteri, che eredita un quadro politico modificato dalle elezioni del 1985 (anno in cui a Milano, per la prima volta, governa il Pentapartito) e che ben presto abbandona per ricostruire l’alleanza con i comunisti e con il neonato movimento dei Verdi. Una giunta sperimentale, innovativa, dedita alla liberazione dalla città dalla congestione dell’inquinamento e del traffico (risalgono alla seconda metà degli anni Ottanta le pedonalizzazioni delle strade del centro storico e la chiusura dello stesso al traffico durante determinate fasce orarie) e la pianificazione urbanistica di grandi interventi di rigenerazione urbana, come la Bovisa, o la realizzazione della terza linea della metropolitana e del passante ferroviario. Questa esperienza amministrativa, stroncata dalle inchieste giudiziarie del 1992-1993, disegna la città di oggi, votata ad una dimensione metropolitana che travalica i confini amministrativi del Comune. La destra, che in varie forme governa la città dal 1993 al 2006, incide nella carne viva del tessuto sociale le proprie ferite, che lasciano aperti ancora oggi alcuni significativi problemi: la gentrificazione selvaggia che espelle dal centro e dal semicentro della città le classi popolari, la ghettizzazione dei flussi dell’immigrazione incanalati in alcune specifiche zone periferiche, i tagli lineari ai servizi pubblici e al welfare. L’era politica di Forza Italia assume Milano come proprio punto di riferimento, ma non può essere Milano la città simbolo dell’ideale politico “berlusconiano”: troppo forte la borghesia liberale e riformista per cedere il passo a una classe dirigente improvvisata, troppo solida la cultura democratica dei ceti urbani, troppo radicato lo spirito solidaristico nei ceti popolari per accettare le logiche individualiste della destra e razziste della Lega (che, a Milano, ancora oggi, ottiene percentuali nettamente inferiori che nel resto del Nord Italia).
Milano domani, Milano futura.
Affrontare oggi il tema della diseguaglianza a partire dalle condizioni abitative è una delle sfide più difficili per la politica dei prossimi decenni, e si avverte il bisogno di ritrovare il senso più stretto del termine “politico”, quello di arte del dialogo tra i cittadini. Questa sfida, che vede impegnata in particolare modo la sinistra di nuovo al governo, deve fare propri i concetti di cura, custodia e rammendo del sempre più sfilacciato tessuto urbano e sociale, che sono due rami dello stesso albero. La “bellezza” della città (dal 1309 elevata con il “Costituto senese” a massimo compito di chi governa), perennemente aggredita da cementificazione e speculazione, deve essere tutelata come si tutela il paesaggio. Bisogna rammendare, ricostruire tessuti e legami tra le parti della città e nella città stessa. La cultura, dal 2011, è di nuovo al centro della progettazione della città, la vitalità sociale di Milano è nuovamente pulsante ed evidente. Il tema di fondo, tuttavia, è più vasto: la città è il luogo della costruzione e fabbricazione del futuro. Il diritto alla città è il diritto a cambiare noi stessi cambiando la città. Essa infatti, da sempre, riflette le forme della società, ed è un dovere delle generazioni presenti restituire a quelle future uno spazio vivibile, uno spazio in cui sia salvaguardata la bellezza e sia intessuta con la solidarietà sociale, la mescolanza, l’interculturalità e l’interclassismo (in Francia, per fare un esempio, ogni nuova area edificata con destinazione residenziale di lusso prevede una quota fissa molto alta di alloggi popolari). Questo modo di costruire la città futura è l’unico che sia eticamente sostenibile: esiste una immortalità collettiva della città, fatta dai sui spazi urbani e dal suo patrimonio civico, che si contrappone e trascende la mortalità individuale. La città è memoria storica, quindi deve essere aggiornata e ammodernata salvaguardandone la coerenza, ma è anche fabbrica del futuro stesso: i cittadini creano il futuro con il proprio lavoro quotidiano. Anche per questo chi vive nella drammatica condizione della precarietà e della disoccupazione è privato della possibilità di partecipare alla costruzione collettiva del futuro della società.
L’identità di Milano è da ricercare su una scala più ampia, pensarla rinchiusa nel piccolo e infinite volte stravolto centro storico è fare un’offesa alla milanesità stessa. Milano è già cambiata, è già nella città metropolitana, non ha aspettato soluzioni amministrative arrivate in grande ritardo, già in affanno con bilanci esangui, limitate dall’ostilità politica delle forze che governano enti superiori, come la Regione. Gli spazi grigi di Milano, i non-luoghi, i ghetti sono i problemi che si pongono davanti a chi vuole dare una risposta politica e amministrativa che vada al di là dei confini del Comune. Le capacità di una classe dirigente si misurano nella progettazione della città futura e nella capacità di garantire l’efficienza e la funzionalità dei servizi nel tempo presente. La visione in prospettiva della città deve marciare allo stesso passo del tram in orario. I servizi pubblici e i sistemi municipali di welfare dei comuni della prima fascia dell’hinterland milanese sono più sviluppati ed efficienti dei servizi offerti ai cittadini che abitano l’estrema periferia del territorio amministrativo del Comune di Milano, e questo genera ulteriori frontiere sociali interne. In questo senso, la giunta di sinistra forse non ha fatto abbastanza, nonostante gli interventi urbanistici di pregio che sono stati portati a compimento sia in zone centrali sia in periferia. Milano ha un desiderio di cambiamento, di renovatio urbis, che non è figlio di nostri “tempi interessanti”, ma è assai più radicato. I milanesi sono da sempre ansiosi di novità e al tempo stesso nostalgici del passato, un passato per ampie parti ormai distrutto. Almeno dal XIX secolo il tessuto connettivo della città è in completo stravolgimento, dalla chiusura dei Navigli alle bombe della Seconda Guerra Mondiale sino all’edilizia popolare del boom economico. Anche i più nuovi quartieri, come l’area Garibaldi con Piazza Gae Auleti e la Torre Unicredit, certo discutibili nelle dinamiche economiche che ne hanno consentito la realizzazione, contengono un principio che è prettamente milanese: quello di voler agganciare forme di modernità nate altrove. Per un milanese, camminare a Milano e sentirsi in una grande città straniera è una forma di orgoglio, e lo è almeno da quando è stato aperto il Foro Bonaparte e da quando Corso Sempione punta dritto verso Parigi. L’identità di Milano non abita solo il suo centro storico, ma pulsa vitale nei quartieri periferici, in cui vivono più pugliesi che a Bari e che sono milanesi a tutti gli effetti. Perché Milano è la città che ha dato pane e lavoro a tutti quelli che si sono rivolti ad essa con buona volontà, e sono diventati milanesi per diritto di lavoro. Anche nella Milano futura la domanda rivolta a chi arriva da terre lontane non sarà mai “da dove vieni?”, ma continuerà ad essere “che cosa sai fare?”.
1 Per approfondire l’esperienza amministrativa della Giunta Caldara si veda PUNZO. M., “Un Barbarossa a Palazzo Marino”, Edizioni L’Ornitorinco, Milano, 2014.
2 Una raccolta di scritti e pensieri di Antonio Greppi, utile per ricostruirne il pensiero e l’esperienza alla guida della città: PERAZZOLI J., “Novant’anni di socialismo”, Edizioni L’Ornitorinco, Milano, 2012.
3 Si veda LANDONI E., “Il laboratorio delle riforme”, Lacaita Editore, Bari, 2007.
4 Vicenda dettagliatamente ricostruita in FIORINI S., “Il potere a Milano (1959-1961)”, Mondadori, Milano, 2006.
5 Si veda FOOT J., “Milano dopo il miracolo”, Feltrinelli, Milano, 2001.
6 Si veda LANDONI E., “Il comune riformista”, M&B, Milano, 2005.
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