Scritto da Michele Marsonet
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Dopo alcuni decenni di impopolarità, il pragmatismo è stato largamente rivalutato tanto in ambito europeo che americano. La riscoperta delle figure storiche del movimento pragmatista – William James, Charles S. Peirce, John Dewey – ha rapidamente preso piede, e oggi viene loro riconosciuto di aver anticipato molte delle idee che attualmente vanno per la maggiore in filosofia della scienza, filosofia del linguaggio, etica e metodologia delle scienze sociali. Si sono, per esempio, notate notevoli assonanze tra le tesi dei pragmatisti e il pensiero del secondo Wittgenstein, mentre una lettura attenta induce ad affermare che il celebre fallibilismo di Popper non è poi così originale, se è vero che lo spirito che lo informa si ritrova in opere a lungo trascurate quali Saggi sull’empirismo radicale di James e Logica: teoria dell’indagine di Dewey[1].
D’altro canto, una rivalutazione del pragmatismo in ambito americano potrebbe sembrare quanto meno strana, visto che esso viene comunemente ritenuto il “vero” (nel senso di originale) contributo degli Stati Uniti alla storia del pensiero moderno e contemporaneo. Per chiarire questo punto è necessario fare qualche passo indietro e descrivere il profondo mutamento intervenuto nella filosofia americana a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. A partire all’incirca dai tardi anni Trenta, il principale centro mondiale di irradiazione delle tesi neopositiviste e analitiche si trasferì dall’Europa agli Stati Uniti d’America. Mentre fino a quel periodo il pragmatismo aveva goduto nelle università e nei circoli intellettuali americani di una indiscussa egemonia, paragonabile al predominio esercitato dal neoidealismo nella filosofia italiana della prima metà del nostro secolo, l’avvento del nazismo in Germania determinò una diaspora verso gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dei principali esponenti del positivismo logico. Le ragioni di questa migrazione intellettuale sono facilmente spiegabili. Quello neopositivista, con la sua fiducia nella ragione, nella razionalità dell’impresa scientifica e in un costante progresso garantito dalle scoperte della scienza moderna, è un pensiero tipicamente democratico, illuministico e cosmopolita. In quanto tale, esso si scontrò immediatamente con l’irrazionalismo e con l’esaltazione della razza sostenuti dal nazismo. Vale la pena notare, tra l’altro, che la dura polemica dei positivisti logici nei confronti di Martin Heidegger era dovuta a motivi non solo filosofici, ma anche politico-ideologici. Com’è noto, lo stesso Heidegger aderì per breve tempo al nazismo e anche nel Dopoguerra non prese mai del tutto le distanze da esso; nel linguaggio delle sue opere – da essi giudicato inutilmente oscuro e confusamente allusivo – i neopositivisti vedevano l’espressione di un irrazionalismo montante, che dal terreno filosofico si stava rapidamente trasferendo a quello politico e sociale[2]. Gli stessi pragmatisti favorirono comunque l’esodo, e un ruolo fondamentale in questa operazione di “acquisizione di cervelli” fu svolto da Willard V. Quine, che negli anni Trenta era un giovane e promettente insegnante all’Università di Harvard.
Due fatti debbono a questo punto essere notati. In primo luogo, positivismo logico e pragmatismo non sono distanti in quanto ad ispirazione di fondo, e ciò certamente aiutò l’innesto degli europei nel tronco pragmatista autoctono. Tra pragmatismo da un lato e neopositivismo dall’altro esistono infatti molte affinità: comune interesse per la scienza, i suoi risultati e le sue metodologie; fede condivisa nella ragione umana e nelle sue capacità di indagare la natura; comune richiesta che il filosofo non debba limitarsi ad avanzare delle affermazioni o ad esprimere delle opinioni, ma debba anche – e soprattutto – dimostrare in modo quanto più possibile rigoroso ciò che afferma. Il requisito della intersoggettività del discorso e della conoscenza è insomma imprescindibile per entrambi, ed è questa una discriminante decisiva nei confronti di altre correnti filosofiche contemporanee che esaltano, invece, l’intuizione e la pura soggettività del discorso. Tuttavia, i neopositivisti erano scientisti e i pragmatisti no, e mentre per il pragmatismo quella scientifica è soltanto una fra le tante forme di conoscenza possibili (per quanto importantissima e centrale), per il positivismo logico tutti i tipi di conoscenza devono appunto essere ridotti a quella scientifica.
Come sempre accade per le novità emergenti in campo non solo filosofico, le tesi più radicali ebbero presto il sopravvento e, nel volgere di pochi anni, l’egemonia del pragmatismo negli atenei d’oltreoceano venne soppiantata da quella del neopositivismo. La vittoria, però, non fu totale. Le idee pragmatiste continuarono a influenzare gli esponenti più brillanti della filosofia americana, tanto che il pensiero di Quine può appunto essere definito come una sintesi di neopositivismo e pragmatismo, e la riprova è fornita dal suo celebre articolo degli anni Cinquanta Due dogmi dell’empirismo, che segna la crisi della distinzione analitico/sintetico. Dimostrare che non è possibile tracciare una distinzione netta tra proposizioni analitiche e sintetiche consente a Quine di adottare un empirismo che è al contempo privo dei dogmi neopositivisti e vicino alle concezioni del pragmatismo. Contrariamente a quanto sostenevano i positivisti logici, egli afferma che non vi sono proposizioni immuni dalle revisioni suggerite dall’esperienza.
Giunti a questo punto, era inevitabile che si tornasse a riscoprire le numerose idee feconde che il pragmatismo è tuttora in grado di offrire. Ad esempio, Hilary Putnam dà grande rilievo a questa osservazione di William James: «Per quanto mi riguarda, non posso sfuggire alla considerazione secondo la quale il soggetto conoscente non è un semplice specchio fluttuante senza alcun appiglio, riflettente passivamente un ordine in cui si imbatte e che trova semplicemente esistente. Il soggetto conoscente è un attore, il quale da un lato codetermina la verità, e dall’altro registra la verità che aiuta a creare»[3]. Si tratta di un passo che, pur risalendo all’Ottocento, è molto attuale. In esso troviamo formulata con chiarezza l’impossibilità di scindere con una cesura netta – contrariamente a quanto sostennero poi i neopositivisti – i “fatti” da un lato e i “giudizi di valore” dall’altro. Eppure, ben pochi sanno che James enunciò, con grande anticipo rispetto ai post-empiristi, la tesi secondo cui l’osservazione è sempre e comunque impregnata di teoria.
Un altro aspetto fondamentale del pensiero pragmatista è l’accentuazione del primato della prassi, tanto in ambito filosofico che scientifico. I neopositivisti ritenevano che esistesse il metodo in grado di risolvere ogni problema scientifico e filosofico, ed esso non poteva che basarsi, secondo la loro opinione, sulla strumentazione fornita dalla logica matematica. Dewey comprese con largo anticipo rispetto ai post-empiristi che un unico metodo in grado di risolvere tutti i problemi epistemologici è soltanto un’utopia filosofica. Né, infine, si possono passare sotto silenzio le profonde intuizioni dello stesso Dewey – che fu uno degli ispiratori del New Deal di Franklin D. Roosevelt – circa i rapporti tra scienza ed etica, un tema che ai nostri giorni è al centro dell’attenzione, mentre i classici del positivismo logico lo ritennero per lo più irrilevante. La scienza – ci dice il filosofo americano – ha quale compito primario la risoluzione dei problemi umani. Ne consegue che, per svilupparsi, essa deve perseguire la democratizzazione della ricerca. Non esiste a suo parere una rigida dicotomia scienza pura/scienza applicata poiché si tratta, in realtà, di attività interdipendenti.
Una tesi comune ai neopragmatisti dei nostri giorni è che l’inscindibilità di osservazione e teoria conduce alla relativizzazione di ogni discorso intorno al mondo circostante, e ciò significa che non è lecito affermare che il mondo rappresenta il criterio ultimo per distinguere il vero dal falso. In altre parole, risulta impossibile – pena la caduta nel ragionamento circolare – separare il mondo dalle teorie da noi costruite e utilizzate per parlarne; per far questo avremmo bisogno di un punto di vista superiore e neutrale, vale a dire di quella che Hilary Putnam definisce «visione dell’occhio di Dio»[4]. Il risultato, in ultima istanza, è che ogni discorso sul mondo è relativo alle teorie di cui attualmente disponiamo. Richard Rorty, per esempio, sostiene che l’intreccio continuo e inestricabile tra osservazione e teoria relativizza la nozione di “realtà” invocata dai realisti, dal che segue l’impossibilità di trovare un tribunale di tipo kantiano che ci consenta di determinare in termini assoluti che cosa è vero e che cosa non lo è. Se così stanno le cose, è evidente che non possiamo mai separare con una cesura netta la realtà da un lato e le nostre teorie sulla realtà dall’altro. Come afferma anche Putnam – per quanto in forma meno radicale –, ci è precluso qualsiasi punto di vista neutrale e assoluto, un punto di vista che ci consentirebbe di confrontare una realtà non-teorizzata con le teorie che noi costruiamo su di essa. In altri termini, il confronto è possibile soltanto fra una teoria e un’altra teoria, e mai fra una teoria e il mondo in quanto tale. Fondamentale è in questo senso la negazione quineana dell’esistenza di una “filosofia prima”, capace di collocarsi in una prospettiva che trascenda tutti i punti di vista naturali. Quine insiste sul fatto che i giudizi di verità possono essere formulati soltanto dopo l’adozione di una teoria. Simili giudizi possono essere espressi soltanto all’interno di uno schema concettuale, e sono quindi espressione di tale schema[5]. Poiché la verità è immanente a una teoria, e vive soltanto al suo interno, non è possibile parlare di “realtà” se non attraverso la mediazione di uno schema concettuale: c’è un mondo reale, ma può essere descritto unicamente nei termini del nostro schema. Abbiamo accesso alla realtà attraverso la teorizzazione, e quindi tutti gli oggetti – inclusi quelli del senso comune – sono soltanto dei postulati che acquistano senso nel contesto di una particolare teoria. Ne consegue che non possiamo parlare della realtà se non adottando una qualche cornice di tipo concettuale, e ciò che ci è consentito fare è reinterpretarne una nei termini di un’altra. Differenti teorie sono in grado di identificare differenti oggetti, ma non v’è mai modo di uscire da tutte le teorie per confrontarci direttamente con la realtà: tutto ciò che possiamo fare è rintracciare le connessioni tra le teorie e tradurle – per quanto è possibile – l’una nell’altra.
Ancora più radicale è il modo in cui Rorty affronta il problema. Egli afferma che esistono tre modi in cui una nuova credenza può aggiungersi alle precedenti, obbligandoci quindi a “ritessere” la trama delle nostre credenze e dei nostri desideri: si tratta della percezione, dell’inferenza e della metafora. La prima cambia la trama complessiva inserendo una credenza nuova nella rete delle precedenti, mentre la seconda modifica le nostre credenze facendoci capire che quelle prima sostenute ci impegnano verso qualcosa di nuovo, costringendoci così a decidere se vogliamo alterare le credenze precedenti oppure verificare le conseguenze di quella nuova. Secondo Rorty, tanto la percezione quanto l’inferenza lasciano inalterato il nostro linguaggio e il modo in cui distribuiamo il dominio delle possibilità. In altre parole, esse sono in grado di modificare il valore di verità delle proposizioni, ma non l’insieme di proposizioni a nostra disposizione. Se riteniamo che la percezione e l’inferenza siano gli unici modi mediante i quali le credenze dovrebbero essere modificate, allora assumiamo – almeno a livello implicito – che il nostro attuale linguaggio sia, come è sempre stato, “tutto il linguaggio esistente”, vale a dire tutto il linguaggio di cui abbiamo bisogno ora e di cui potremo aver bisogno in futuro. Tuttavia, aggiunge Rorty, esiste un terzo modo tramite cui le credenze possono essere modificate; si tratta della metafora: «Considerare la metafora come una terza fonte di credenze, e quindi una terza ragione per ritessere la trama di credenze e desideri, equivale a considerare il linguaggio, lo spazio logico e il dominio del possibile senza limiti predeterminati. Equivale ad abbandonare l’idea per cui lo scopo del pensiero è il raggiungimento della visione dell’occhio di Dio. L’acquisizione della verità non è sempre questione di collocare dati in uno schema predeterminato. Una metafora è, per così dire, una voce che proviene dall’esterno dello spazio logico, piuttosto che un materiale empirico di riempimento di una porzione di questo spazio, oppure una chiarificazione logico-filosofica della struttura di questo spazio. È un appello alla trasformazione del proprio linguaggio e della propria vita, piuttosto che una proposta di come sistematizzare l’uno o l’altra»[6].
Scopo della filosofia diventa dunque quello di aiutare gli esseri umani a liberarsi dal linguaggio che attualmente usano quando diventa obsoleto, e di creare linguaggi nuovi che li pongano in un rinnovato senso di sintonia con la realtà. Ecco perché non è possibile parlare di princìpi eterni o di valori assoluti. Le rivoluzioni scientifiche che hanno modificato la storia, le rivelazioni che fondano le grandi religioni diventano allora null’altro che episodi di una conversazione fluida, magmatica, inarrestabile e in perpetuo divenire. Le loro origini sono in ogni caso umane, e ciò consente a Rorty di dar vita a una riscrittura della nostra storia: «La prima volta che qualcuno disse “l’unica legge è l’amore” oppure “la terra gira intorno al sole”, in generale deve essergli stato risposto: “allora, stai parlando in senso metaforico”. Ma, cento o mille anni più tardi, le stesse proposizioni possono essere candidate a una verità letterale. Le nostre credenze, nel frattempo, sono state ritessute per fare spazio a queste verità. Considerare le proposizioni metaforiche come proposizioni che precorrono nuovi usi del linguaggio, usi che possono mettere in ombra o cancellare vecchi usi, è considerare la metafora sullo stesso piano della percezione e dell’inferenza, piuttosto che attribuirle una funzione meramente “euristica” o “ornamentale”. Più in particolare, è considerare la verità come qualcosa che non si trova già al nostro interno. Piuttosto, si tratta di qualcosa che può diventarci disponibile soltanto grazie ad un genio dotato di particolare temperamento. Una tale concezione della verità legittima le metafore dell’ascolto: una voce da lontano, una parola che proviene dall’oscurità»[7].
In questo senso il pragmatismo risulta da un lato vicino all’empirismo[8], mentre dall’altro corrisponde all’anti-essenzialismo applicato a nozioni quali “verità”, “conoscenza”, “linguaggio”, “morale”, e simili oggetti tradizionali dell’indagine filosofica. Verità e oggettività hanno infatti senso solo se vi sono creature intelligenti che le pensano e ne parlano, e sono determinate dai rapporti d’interazione che si verificano tra tali creature e l’ambiente in cui vivono. Essendo l’oggettività connessa alle nostre limitate capacità cognitive, risulta vano cercarne una definizione in termini di maggiore assolutezza. La questione venne compresa in tutta la sua portata già agli inizi del secolo scorso da William James, il quale, nel corso di una conferenza tenuta nel 1907 alla Columbia University di New York, affermò che è possibile (e lecito) immaginare universi alternativi a quello che conosciamo: ad esempio, un universo in cui l’interazione causale potrebbe non esistere. Nella medesima occasione il pensatore pragmatista definì il “vero assoluto” (vale a dire ciò che nessuna esperienza successiva potrà modificare) come il punto di fuga ideale verso cui immaginiamo che debbano convergere un giorno tutte le nostre verità provvisorie. È tuttavia ovvio che tale giorno non è specificabile, ragion per cui altro non possiamo fare che vivere nel presente, con ciò che di vero abbiamo a disposizione oggi[9]. La conclusione è che le grandi teorie scientifiche (e metafisiche) del passato sono state certamente strumenti adeguati per secoli, ma ciò non ci impedisce – o, almeno, non “dovrebbe” impedirci – di vedere che quei limiti sono stati oltrepassati dalla nostra esperienza. Le cose che in passato si ritenevano assolutamente vere si sono poi dimostrate vere soltanto in riferimento ai limiti di cui sopra, lasciandoci quindi in balia dell’inquietante sensazione che verità e relativismo, lungi dall’essere incompatibili, costituiscano in realtà due facce della stessa medaglia. Ma i limiti stessi sono, in fondo, casuali e contingenti, e nessun elemento aprioristico impediva ai nostri antenati di superarli. Se accettiamo fino in fondo queste premesse, dobbiamo anche ammettere che chiunque abbia un’esperienza della realtà sostanzialmente differente dalla nostra è, per forza di cose, portato a concepire la realtà in modo diverso. Possiamo quindi immaginare esseri intelligenti la cui cornice concettuale e categoriale conduce ad una visione del mondo che ha ben poco a che fare con la nostra. Gli oggetti e gli eventi presenti nel loro modo di esperire il mondo circostante potrebbero differire da quelli per noi usuali in misura tale che i loro predicati avrebbero domini non paragonabili ai nostri.
Il relativismo diventa inoltre un inevitabile capolinea non appena si rammenti che la scienza è sempre il risultato dell’interazione tra mondo e soggetto che vuole conoscere il mondo[10]. John Dewey usava a tal proposito il termine transazione per denotare questo interscambio dove i contributi dell’osservatore e della realtà osservata non possono essere separati con una linea di confine rigida[11]. Ogni volta che ci vien fatto di chiedere quali siano le caratteristiche della realtà che possono essere scoperte, occorre sempre rammentare di aggiungere la domanda “scoperte da chi?”. Si può senz’altro sostenere che la natura presenti delle caratteristiche di regolarità indipendenti dal soggetto che desidera indagarla. Tuttavia, l’evoluzione ci ha dotato di certe caratteristiche e non di altre, e ciò significa che siamo sensibili a certi parametri fisici e non ad altri. In altre parole, il mondo che la scienza attuale ci mostra è semplicemente il mondo così-come-viene-rappresentato dalla scienza attuale. Noi ora crediamo che esistano certe entità che svolgono un ruolo chiave nella nostra visione scientifica della realtà ma, d’altro canto, non abbiamo alcuna ragione di escludere che le nostre attuali teorie scientifiche verranno superate. Dunque, la scienza di qualsiasi particolare periodo storico non ci dà la garanzia che il mondo sia proprio come essa lo descrive: anzi, l’incessante succedersi di teorie ci mostra proprio il contrario. Noi viviamo all’interno di uno schema concettuale che ci porta a vedere la realtà secondo l’ottica di alcune teorie scientifiche di grande successo come la relatività o la meccanica quantistica, ma è ragionevole presumere che anch’esse non reggeranno alla prova del tempo. Queste schematiche riflessioni inducono a concludere che relativismo e fallibilismo, anziché essere spettri di cui avere paura, costituiscono componenti essenziali e ineludibili del nostro rapporto con l’ambiente circostante. Non si deve negare il ruolo degli enunciati esistenziali e descrittivi nella conoscenza scientifica, ma occorre altresì rammentare che essi dovrebbero sempre essere accompagnati da un atteggiamento ipotetico e consapevole della possibilità dell’errore. Se è vero che la scienza non potrebbe svilupparsi senza adottare un approccio di tipo sostanzialmente realista, altrettanto importante è il riconoscimento del suo carattere fallibile e imperfetto. L’intero sapere umano, ivi incluso quello scientifico che parrebbe possedere i caratteri della certezza, è insomma composto da congetture. Contrariamente a quanto pensa il senso comune, il mondo non ci fornisce alcuna informazione se noi non ci poniamo di fronte ad esso con un atteggiamento interrogativo; l’uomo “chiede” al mondo se una certa teoria sia corretta o errata, e in seguito deve controllare le domande da lui stesso poste in modo severo e rigoroso, pur sapendo che la certezza non potrà mai essere raggiunta. Alla verità si può bensì tendere, ma essa è destinata a restare in ogni campo un ideale regolativo. Chi si dice certo di averla conseguita, non solo nella scienza o nella filosofia, ma anche in politica e in qualsiasi altro ambito d’indagine, cade nel dogmatismo e rinuncia automaticamente alla dote più preziosa che il genere umano possieda: la capacità critica[12].
Sulla scia del secondo Wittgenstein, molti pensatori post-analitici dei nostri giorni affermano che la fonte della nozione di “verità oggettiva” altro non è che la comunicazione tra individui. Il pensiero stesso dipende dalla comunicazione poiché, se un linguaggio non è condiviso, non esiste modo di distinguere tra il suo uso corretto o scorretto, essendo la comunicazione con l’altro – o gli altri – l’unico elemento capace di fornirci un criterio per decidere che cosa siano la correttezza o la scorrettezza. E, d’altro canto, se soltanto la comunicazione può darci l’opportunità di trovare un simile criterio, è solo la presenza di un linguaggio condiviso a fornirci la chiave per comprendere la differenza tra verità ed errore da un lato, e tra soggettività, intersoggettività e oggettività dall’altro. È sufficiente un attimo di riflessione per comprendere che tutto ciò comporta conseguenze assai importanti. La nozione di “verità oggettiva” e quella correlata di “errore” si manifestano soltanto nel processo di interpretazione, vale a dire nel mondo socio-linguistico che noi stessi produciamo. La presenza di norme intersoggettive dà origine sia all’oggettività che alla soggettività: esse sorgono, per così dire, simultaneamente e non possono essere separate da una linea di confine netta, il che significa che né le cose del mondo né la mente possono vantare qualche tipo di priorità[13].
Se le cose stanno così, che cosa possiamo dire della “verità”? Senza necessariamente scivolare su posizioni estreme alla maniera di Rorty, si può conservare comunque una funzione importante al concetto di verità. Di quale funzione si tratta, tuttavia? Innanzitutto, un pragmatista è incline a sostenere che risulta scarsamente plausibile la prospettiva di raggiungere una sorta di verità definitiva (nel senso di “finale”) in ambito scientifico, né migliore sorte sembra toccare alla nozione di “progressivo avvicinamento” alla verità. Il motivo per cui la verità continua ad essere importante è che essa svolge comunque un ruolo chiave nelle nostre decisioni, dal che consegue che tale ruolo è giustificato su basi pratiche: in altri termini, la nozione di “verità” riveste una funzione preziosa nella nostra schematizzazione concettuale della realtà. La tesi per cui la scienza non è in grado – al pari di qualsiasi impresa umana – di giungere alla verità attuale delle cose è certamente corretta. Ma è pur vero che la scienza tenta costantemente di raggiungere quel risultato. Come potrebbe essere altrimenti, dal momento che si propone di rispondere alle nostre domande circa il mondo? Queste risposte, tuttavia, hanno sempre un carattere ipotetico e provvisorio, e le teorie scientifiche altro non sono che valutazioni mai definitive delle risposte che la natura fornisce ai nostri interrogativi. La storia della scienza dimostra che le nostre scoperte hanno costantemente bisogno di essere corrette o addirittura rimpiazzate. Nessuna verità “finale”, pertanto, discende da questo processo, ma una lunga e più modesta serie di verità, ciascuna delle quali è legata ad una particolare teoria e ci fornisce la “valutazione migliore” conseguibile di volta in volta, date le circostanze concrete in cui ci troviamo ad operare.
Notiamo allora che nell’intenso – e spesso concitato – dibattito sulle cosiddette fake news si dà spesso per scontato che la verità oggettiva esista e che, per di più, sia facile trovarla. Basterebbe insomma una sufficiente dose di onestà, unita a un po’ di buon senso, per farci uscire da quello che molti vedono come un vero e proprio tunnel dal quale occorre uscire a tutti i costi per restituire alla politica la dignità perduta. Eppure, a ben guardare, le fake news non sono certamente una caratteristica specifica dei nostri giorni. Al contrario, ne troviamo traccia ovunque nella lunga storia dell’umanità. La vera novità risiede piuttosto nel fatto che oggi i social network costituiscono un’enorme cassa di risonanza, in grado di far circolare le notizie – bufale incluse – a una velocità inimmaginabile in precedenza. E questo, ovviamente, complica le cose, dal momento che la diffusione iperveloce rende sempre più difficoltosa (per non dire impossibile) la difesa. Ma occorre chiedersi, prima di ogni altra considerazione, se davvero è così facile trovare la “verità oggettiva” (o, se si preferisce, la Verità con la “V” maiuscola). L’inscindibilità di osservazione e teoria conduce alla relativizzazione di ogni discorso intorno al mondo circostante, e ciò significa che non è lecito affermare che il mondo rappresenta il criterio ultimo per distinguere il vero dal falso. In altre parole, risulta impossibile – pena la caduta nel ragionamento circolare – separare il mondo dalle teorie da noi costruite e utilizzate per parlarne; per far questo avremmo bisogno di un punto di vista superiore e neutrale, vale a dire della “visione dell’occhio di Dio” putnamiana. Il risultato, in ultima istanza, è che ogni discorso sul mondo è relativo alle teorie di cui attualmente disponiamo. E va da sé che ciò vale ancor di più quando si parla del mondo umano.
I giudizi di verità possono essere formulati soltanto dopo l’adozione di una teoria. Simili giudizi possono essere espressi soltanto all’interno di uno schema concettuale, e sono quindi espressione di tale schema. Poiché la verità è immanente a una teoria, e vive soltanto al suo interno, non è possibile parlare di “realtà” se non attraverso la mediazione di uno schema concettuale: c’è un mondo reale, ma può essere descritto unicamente nei termini del nostro schema. Abbiamo accesso alla realtà attraverso la teorizzazione, e quindi tutti gli oggetti – inclusi quelli del senso comune – sono soltanto dei postulati che acquistano senso nel contesto di una particolare teoria. Ne segue che non possiamo parlare della realtà se non adottando una qualche cornice di tipo concettuale, e ciò che ci è consentito fare è re-interpretarne una nei termini di un’altra. Differenti teorie sono in grado di identificare differenti oggetti, ma non v’è mai modo di uscire da tutte le teorie per confrontarci direttamente con la realtà: tutto ciò che possiamo fare è rintracciare le connessioni tra le teorie e tradurle – per quanto è possibile – l’una nell’altra. Considerazioni di questo tipo dovrebbero indurci a comprendere che anche l’attuale invasione di fake news, oltre a non costituire affatto una novità, fa parte della connaturata imperfezione dei nostri rapporti con la realtà e del mondo umano in generale. Fatto sul quale il pensiero liberale, pur nella diversità delle sue componenti, ha sempre riflettuto, invitando a adottare un atteggiamento realista troppo spesso scambiato per ingiustificato pessimismo.
[1] William James, Saggi sull’empirismo radicale, Laterza, Roma-Bari 1971; John Dewey, Logica: teoria dell’indagine, Einaudi, Torino 1974.
[2] Per comprendere le critiche neopositiviste a Heidegger è fondamentale la lettura del saggio di Rudolf Carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, trad. it. in Alberto Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, UTET, Torino 1969, pp. 504-540.
[3] Hilary Putnam, Il pragmatismo: una questione aperta, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 24. Putnam trae la citazione dal saggio di James Spencer’s Definition of Mind as Correspondence, in William James, Essays in Philosophy, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1978, p. 21.
[4] Hilary Putnam, Ragione, verità e storia, il Saggiatore, Milano 1994.
[5] Si vedano Willard van Orman Quine, Parola e oggetto, il Saggiatore, Milano 1996, e Willard van Orman Quine, La relatività ontologica e altri saggi, Armando, Roma 1986.
[6] Richard Rorty, La filosofia come scienza, come metafora e come politica, in Richard Rorty, Scritti filosofici (I), Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 18-19.
[7] Ibid., pp. 20-21.
[8] Vedi Willard van Orman Quine, Il posto dei pragmatisti nell’empirismo, «Iride», IX, N. 17, 1996, pp. 143-158.
[9] William James, Pragmatismo, op. cit., pp. 89-90 e 126.
[10] Si tratta di una tesi sostenuta anche da numerosi scienziati. Si veda per esempio Werner Heisenberg, Fisica e filosofia, il Saggiatore, Milano 1966.
[11] John Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano 1990.
[12] Sono queste le tesi di fondo dell’epistemologia popperiana. Si veda per esempio Karl R. Popper, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1972. Risulta inoltre utile ribadire la sostanziale vicinanza tra Popper e il pragmatismo.
[13] Proprio su questa base si è verificato negli ultimi decenni un progressivo avvicinamento tra le tradizioni analitica ed ermeneutica. Si vedano Franca D’Agostini, Analitici e continentali, Cortina Editore, Milano 1997, e Sergio Cremaschi (a cura di), Filosofia analitica e filosofia continentale, La Nuova Italia, Firenze 1997.