Note su: Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Roma-Bari 2016 (nuova edizione 2020), pp. 400, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Lorenzo Cattani
14 minuti di lettura
A 10 anni dall’inizio della crisi, appare ormai chiaro come l’economia del settore pubblico rappresenti sempre di più la chiave di volta per quei problemi, rimasti sopiti o ignorati fino alla recessione iniziata nel 2007, che stanno affliggendo i paesi occidentali. Negli ultimi l’opinione comune circa l’intervento statale era che questo avrebbe dovuto mantenersi ai margini dell’azione di governo, limitandosi alla garanzia della legalità ed alla “stabilizzazione” del mercato in momenti difficili.
Come sostiene brillantemente Mariana Mazzucato nel suo libro Lo Stato innovatore, il pubblico non è un’entità inerziale, un carrozzone di poco valore che soffoca le forze del mercato, i cui eventuali “fallimenti” sono l’unica cosa di cui debba occuparsi. Lo Stato è invece il principale promotore dell’innovazione, un processo fondamentale per la crescita economica, caratterizzato però da una fortissima incertezza, la cosiddetta “incertezza di Knight”[1]. L’innovazione è quindi un processo su cui il capitale privato sarà disposto ad investire solo in una fase finale, quando saranno chiaramente visibili i ritorni finanziari. Il problema quindi è che, senza gli iniziali investimenti dello Stato, unico attore a sapersi realmente accollare grossi rischi e fornire “capitali pazienti”, non si potrebbe nemmeno dare il via a quel processo cumulativo e rischioso che è l’innovazione. Mazzucato su questo punto è molto chiara: le innovazioni tecnologiche più importanti degli ultimi decenni sono frutto di deliberate scelte pubbliche di investimento su determinate aree (una su tutte, l’informatica, come avremo modo di vedere).
Lo Stato, nonostante l’attuale retorica dominante, deve “scegliere”, deve guidare lo sviluppo elaborando strategie per il progresso tecnologico in aree ritenute decisive. Affinché le aziende investano in un determinato settore, le variabili di interesse più importanti non sono tanto i potenziali profitti, ma le opportunità tecnologiche e di mercato, legate a doppio filo al volume di investimenti pubblici effettuati in quel dato settore.
Come sostiene Mazzucato “intorno alla crescita trainata dall’innovazione si sono creati molti miti, fondati su presupposti sbagliati riguardo ai fattori chiave dell’innovazione, dalla R&S alle piccole imprese, dal venture capital ai brevetti”, li riproponiamo di seguito.
L’innovazione è la chiave della crescita. La R&S è la chiave dell’innovazione
Il primo di questi miti è l’idea secondo cui l’innovazione dipenda unicamente dalla R&S e che vi sia un legame diretto fra innovazione e crescita. La letteratura scientifica al riguardo non mostra infatti risultati omogenei, anche rilevando una correlazione negativa fra R&S e crescita. Se, ad esempio, le aziende non disponessero di risorse complementari sufficienti, la R&S sarebbe solo un costo. È quindi cruciale osservare “le condizioni specifiche, che devono essere presenti perché la spesa in R&S produca effetti positivi sulla crescita”: ad esempio, nel settore farmaceutico si nota una correlazione positiva fra spesa in R&S e crescita solo per quelle aziende che depositano brevetti per cinque anni consecutivi e che stringono alleanze con altri settori. Elementi del genere varieranno da settore a settore, ma fanno capire che non ci si può limitare ad analizzare la crescita e l’innovazione come semplice funzione del volume di investimenti in R&S. L’innovazione è un processo incerto e questo vuol dire che ogni successo è stato preceduto, e verrà seguito, inevitabilmente da molti insuccessi, anche se caratterizzati da importanti volumi di R&S.
Dimensioni aziendali. Le piccole imprese sono il motore dell’innovazione
Un’altra idea ampiamente condivisa è che la crescita sia legata alle dimensioni aziendali e che le piccole imprese siano fondamentali per tale processo. La conseguenza di questo ragionamento è che sia importante mettere in piedi una serie di politiche per sostenere le PMI se si vogliono stimolare innovazione e crescita. L’autrice cita l’esempio del Regno Unito, il cui governo ha speso quasi 9 miliardi di sterline in aiuti diretti e indiretti alle PMI. I dati però mostrano che non sono le PMI ad essere importanti, ma bensì le imprese giovani e ambiziose che hanno intrapreso un percorso di crescita graduale, fino a raggiungere la fase di decollo. Più che spendere soldi in sovvenzioni alle PMI nella speranza che queste crescano è meglio “concedere appalti ad aziende giovani che hanno già dimostrato di avere ambizione. Le commesse pubbliche di tecnologie che richiedono innovazione sono più efficaci dei sussidi elargiti nella speranza che l’innovazione arrivi”. Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è che in un capitalismo dinamico, con fitti collegamenti pubblico-privato, dove il primo si occupa della ricerca di base e il secondo di quella applicata, giocano un ruolo fondamentale i grandi centri di ricerca aziendali, che è sicuramente più probabile vedere nelle grandi aziende piuttosto che nelle PMI, inoltre nella commercializzazione di un prodotto le grandi aziende hanno un capitale reputazionale più solido, che aiuta ad abbassare il rischio. Detto ciò, imprese giovani, start-up innovative, sono cruciali per la crescita economica, ma non si può pensare che questo sia un fenomeno che si consumi all’interno delle PMI.
Il venture capital ama il rischio
Anche questo è un mito da sfatare: il venture capital non è disposto a investire durante la fase di avviamento di un’azienda, poiché il rischio è molto più elevato. Il venture capital punta invece a maturare i profitti di un collocamento in borsa redditizio e predilige investire su aziende con forti potenzialità di crescita, bassa complessità tecnologica e bassa intensità di capitale, che farebbero alzare troppo i costi dell’investimento. Mazzucato sottolinea giustamente che anche i finanziamenti di venture capital si muovono su un orizzonte temporale di 10 anni, tendenzialmente preferiscono uscire prima dall’investimento, puntando su progetti che prevedono la commercializzazione dei prodotti entro 3 o 5 anni. Il posizionamento in borsa è l’obiettivo principale: i fondi di venture capital vendono le aziende su cui hanno investito, maturando profitti per milioni di dollari. Questo, purtroppo, non fa bene ad aziende giovani che ancora devono affrontare molta incertezza, e molti insuccessi nel proprio percorso, il rischio è quello che nel lungo periodo queste non riescano a sopravvivere mentre i fondi di venture capital riescono a maturare profitti enormi, costruendosi anche una reputazione positiva. Sicuramente per quanto riguarda gli USA, il venture capital è anche protagonista di una sorta di “crowding out” inverso: facendo pressioni sul governo affinché implementi riduzioni delle tasse, il venture capital sottrae risorse alle casse pubbliche, risorse che potrebbero essere usate per finanziare un importante sostegno alle aziende, specialmente in quelle fasi in cui il venture capital non è disposto a investire.
Il numero dei brevetti è indice di innovazione e crescita
Mazzucato cita nuovamente il caso del settore farmaceutico per quanto riguarda il tema dei brevetti. Se i brevetti sono aumentati nel tempo lo si deve ai “cambiamenti legislativi che sono stati introdotti e ad un incremento delle ragioni strategiche per fare ricorso a questo strumento”. Più che guardare al numero totale di brevetti sarebbe consigliabile guardare certe tipologie di brevetti, per esempio quelli più citati da altri brevetti. Nel 2010 George Osborne, ex Cancelliere dello Scacchiere britannico, ha proposto una patent box, che dal 2013 dovrebbe ridurre del 10% la tassazione sui redditi societari derivanti da brevetti. Gli incentivi, i crediti d’imposta e i bonus non bastano per incentivare la R&S, poiché non tengono conto del tempo e dell’incertezza necessari per creare nuove tecnologie e la proposta di Osborne non si rivolge a R&S ma al reddito prodotto da tecnologie brevettate. L’effetto più probabile che questi interventi produrranno sarà quello di rendere più difficile per lo Stato il drenaggio di risorse, tramite la leva fiscale, per finanziare investimenti pubblici in innovazione.
Il problema dell’Europa è la commercializzazione
È opinione comune che il problema europeo, circa l’innovazione, sia quello del trasferimento di conoscenza, che rende molto difficile la commercializzazione di nuovi prodotti o processi di produzione. Tuttavia, il problema non sta nella “mancanza di parchi scientifici o nella scarsità di interazioni tra l’industria e l’università” come molti credono, ma sta invece in una ricerca scientifica troppo debole e in una maggiore presenza di aziende fragili e poco innovative. Bisogna quindi “concentrarsi meno sulla creazione di reti di innovazione e dedicare più attenzione a misure finalizzate a rafforzare la ricerca di «avanguardia»; o, se vogliamo metterla in altri termini, una migliore divisione del lavoro tra università e aziende, in cui le università si concentrano sulla ricerca di alto profilo e le aziende sullo sviluppo delle tecnologie”.
Gli investimenti aumentano con meno tasse e meno burocrazia
Il sesto e ultimo mito è sicuramente il più rilevante nel dibattito pubblico attuale. L’idea per cui pagare meno tasse permetta all’economia di crescere significativamente è ormai molto diffusa. Tuttavia, non vi sono elementi che facciano credere che i crediti d’imposta per R&S abbiano avuto un effetto positivo sulle decisioni di un’azienda di investire in ricerca. Le riduzioni fiscali effettuate dagli anni Ottanta in poi hanno avuto solo l’effetto di aumentare le disuguaglianze, non gli investimenti, con l’infelice conseguenza di aver tolto ulteriori risorse allo Stato. Per dirla con le parole di Mariana Mazzucato “è essenziale che la autorità guardino con diffidenza a quelle aziende che si lamentano per «l’eccesso di tasse e burocrazia», quando è evidente dalle loro azioni a livello globale che tendono a preferire proprio quelle aree del mondo dove lo Stato spende su cose in grado di creare fiducia e «spiriti animali» rispetto alle potenzialità di crescita future”. Un ulteriore effetto poco gradito è infatti che, di fronte ad uno Stato poco intenzionato ad investire, determinate aziende decidano di spostare le proprie attività in altri paesi che invece si adoperano in importanti piani di investimenti pubblici, la proverbiale beffa oltre il danno.
Si è parlato di investimenti pubblici, ma in cosa consistono esattamente? E in che modo avrebbero influenzato così pesantemente una delle ondate d’innovazione più importanti degli ultimi anni, ovvero la rivoluzione informatica? Mazzucato prende l’esempio statunitense per mostrare come anche in una delle patrie della “rivoluzione conservatrice” neo-liberista, sono state implementate politiche industriali di ampio respiro, che purtroppo tendono ad essere trascurate, financo ignorate, dall’opinione pubblica e dai mezzi di comunicazione.
Per esigenze di sintesi verrà proposto di seguito solo uno, il più significativo, di alcuni casi di successo: la Darpa[2].
La Darpa nacque in seguito alla necessità di sviluppare tecnologie all’avanguardia in campo militare. Tuttavia, questo organismo pubblico avrebbe svolto un ruolo fondamentale per le politiche dell’innovazione[3], che si sarebbero estese ben oltre all’applicazione militare e avrebbero portato, specialmente nell’informatica, ad alcune delle innovazioni più importanti degli ultimi anni. La Darpa non si limita al finanziamento della ricerca di base ma orienta anche le risorse verso aree e direzioni specifiche, apre nuove finestre di opportunità, regola interazioni fra operatori pubblici e privati e facilita la commercializzazione. Dispone di un budget di oltre 3 miliardi di dollari e al suo interno trovano lavoro circa 240 dipendenti. Nonostante sia un’agenzia governativa agisce in maniera autonoma e gestisce progetti su orizzonti temporali molto lunghi, per cui si debbono aspettare anche dieci o vent’anni prima di osservare dei risultati. Le caratteristiche distintive del “modello Darpa” sono le seguenti:
Come sostiene Mazzucato, il ruolo dello Stato è cruciale ed è un riferimento importante per le aziende, in quanto “i funzionari pubblici lavorano direttamente con le aziende per individuare e seguire i percorsi innovativi più promettenti”.
Quando si parla di Steve Jobs e della Apple, è facile indugiare nell’idea secondo cui il geniale fondatore di quest’azienda fosse un genio visionario, partito dal proprio garage e asceso al successo solo grazie alla bontà delle sue idee rivoluzionarie. Steve Jobs è stato senza dubbio un genio ma, come ricorda giustamente Mariana Mazzucato, è sicuramente più facile essere “hungry” e “foolish” quando ci si muove in un settore che è stato oggetto di una massiccia politica di investimenti pubblici. Soprattutto quando si parla di iPod, iPod touch, iPhone e iPad, quello che si tende ad ignorare è che se il design e l’integrazione sono merito di Jobs e dei suoi collaboratori, le tecnologie più importanti dei prodotti iOS invece “sono il frutto di decenni di sostegno all’innovazione del governo federale”. La Apple basa il suo successo sull’integrazione di tecnologie e componenti già esistenti (tendenzialmente inventate grazie a fondi pubblici) all’interno di un’architettura innovativa.
Altro elemento di interesse è che prima del lancio dei prodotti iOS, la Apple è stata fortemente sostenuta dallo Stato in tre importanti aree:
Come anticipato, le tecnologie di base, anche per i primi prodotti della Apple, erano già state scoperte grazie ad una fitta rete pubblico-privato, che vedeva la collaborazione fra alcuni dei più importanti laboratori di ricerca come quello della Darpa, i Bell Labs, lo Xerox Parc o quelli della Fairchild. Prendiamo ad esempio internet, il protocollo di trasferimento di ipertesti http e il linguaggio di marcature html, una tecnologia che ha dato un enorme contributo al successo degli smartphone. Internet nasce dalla preoccupazione, da parte dell’esercito, che le reti di comunicazione potessero collassare in seguito ad un attacco militare. L’idea era che un sistema di comunicazioni decentralizzato potesse sopravvivere anche dopo un attacco nucleare. Negli anni la Darpa creò, insieme alle Poste britanniche, una rete fra diverse stazioni dislocate sia sulla costa occidentale che su quella orientale degli USA. Allo stesso tempo, Tim Berners-Lee sviluppò i linguaggio di marcatura per ipertesti html e insieme a Robert Cailliau implementò il primo http sui computer del Cern. Allo stesso modo, anche il GPS e Siri nascono da ricerche in campo militare. Il primo fu pensato per migliorare il coordinamento e l’accuratezza di armi e mezzi sul terreno tramite una più sofisticata tecnologia di posizionamento, mentre Siri nacque quando la Darpa chiese allo Stanford Research Institute (Sri) di condurre un progetto che avesse il compito di pensare ad una sorta di “segretario virtuale” per il personale militare. Lo Sri coordinò il progetto Calo, che coinvolgeva 20 università degli Stati Uniti e da cui sarebbe nata, una volta comprese le implicazioni per un utilizzo civile, una start up chiamata, per l’appunto, Siri. Nel 2010 la Apple avrebbe acquisito Siri. Gli esempi tuttavia non si fermano qui. Non vi è modo di passarli in rassegna approfondita ma derivano da investimenti pubblici anche tecnologie fondamentali per i prodotti iOS come la memoria dram, la rotella cliccabile, lo schermo multitouch, le batterie al litio-ione, la compressione del segnale, lo schermo a cristalli liquidi, il micro disco rigido, il microprocessore e la tecnologia cellulare[4].
Il ruolo dello Stato è fondamentale per innescare processi innovativi, eppure questi successi vengono ridimensionati da una retorica che enfatizza i meriti del settore privato mentre, allo stesso tempo, gli insuccessi (come il caso del Concorde) vengono usati per argomentare la necessità di un ruolo statale più ridotto. Questa retorica, che si è affermata soprattutto negli ultimi 30 anni, ha fatto sì che in un settore critico come quello delle tecnologie verdi non si sia registrato un impegno costante nel tempo come per il settore ITC da parte dello Stato. Come afferma Mazzucato, mentre la Cina, con il suo XII piano quinquennale per il 2012-2015, ha puntato ad un investimento di 1500 miliardi di dollari in settori per il risparmio energetico e l’ambiente, le biotecnologie, l’informatica di nuova generazione, il manifatturiero avanzato, nuovi materiali, combustibili alternativi e auto elettriche, in Occidente la risposta non è stata altrettanto efficace[5], preferendo invece biasimare i cinesi per il supporto nazionale profuso in questi investimenti.
Non bisognerebbe quindi avere dubbi su che ruolo assegnare all’intervento pubblico nell’economia. La storia mostra chiaramente che le innovazioni più importanti sono nate innanzitutto dopo che lo Stato ha scelto di investire in determinati settori, implementando politiche industriali importanti. Naturalmente vi sono stati anche dei fallimenti, ma questo fa parte del processo di innovazione che va avanti per tentativi ed errori e lo Stato è il soggetto più preparato per accettare la possibilità di un insuccesso. Semmai, il vero nodo da risolvere è quello dell’equità nella redistribuzione dei profitti di tale innovazione all’interno delle aziende. Solo nel 2011 i nove top manager della Apple hanno guadagnato 440,8 milioni di dollari: questo significa, in sintesi, che 9 persone hanno guadagnato la stessa quantità di denaro di circa 17600 dipendenti dei loro negozi negli USA, se poi si fa il confronto con i dipendenti della Foxconn, l’azienda taiwanese appaltatrice della Apple, si nota che i 9 top manager hanno guadagnato quanto 95mila lavoratori nel solo 2011. Allo stesso modo, il problema redistributivo esiste anche fra l’azienda e lo Stato. La Apple, al pari di molte altre aziende come Google o Amazon, è sempre alla ricerca di mezzi per pagare meno tasse, ad esempio sfruttando la possibilità di trasferire i diritti di proprietà intellettuale di un prodotto ad una controllata estera[6], risparmiando così molti soldi. Questi sono casi di “socializzazione dei rischi e privatizzazione dei profitti”. La grave conseguenza è che in questo modo si hanno aziende che continuano ad arricchirsi, mentre l’economia intera attraversa fasi di debolezza e difficoltà, soprattutto perché lo Stato fa più fatica a drenare risorse per finanziare l’innovazione e, soprattutto, per recuperare quei soldi investiti su tecnologie che non hanno avuto successo. Bisogna pensare nuovi strumenti per assicurarsi che lo Stato abbia un ritorno tangibile dagli investimenti in innovazione.
Il nostro Paese è stretto in una morsa che Mariana Mazzucato ha saputo descrivere molto bene: da un lato, l’UE chiede innanzitutto il pareggio del bilancio ed un contenimento del debito pubblico, dall’altro vi è una dinamica di biasimo “interno”, per cui lo Stato deve ritirarsi dalla vita degli individui, con meno tasse e una burocrazia più leggera. In generale il pubblico è sottoposto a forti critiche, cosa che rende ancora più difficile stimolare l’innovazione e attrarre le menti migliori all’interno dello Stato. Eppure se si vuole riportare l’Italia su un percorso di crescita stabile, ridiscutere il ruolo dello Stato è cruciale, forse più che in altri paesi.
L’elemento più importante da tenere a mente è che se gli investimenti pubblici sono più efficaci di strumenti come i crediti d’imposta, che dovrebbero essere mezzi ancillari della politica industriale, in Italia non bastano neppure quelli. Il problema principale è che il capitalismo privato italiano non è vivace come quello che si può trovare nei paesi dell’Europa Continentale, Nordica o in paesi anglo-sassoni come Stati Uniti e Gran Bretagna. In Italia lo Stato innovatore è necessariamente “Stato Produttore”. La domanda che bisogna porsi è: c’è stato un tempo in cui lo Stato italiano ha “scelto” quali investimenti strategici fare? La risposta è sì. Negli anni del secondo dopoguerra lo Stato ha scelto la meccanica quale settore di interesse strategico su cui orientare gli investimenti e i risultati sono noti a tutti. Tuttavia, senza la presenza attiva dello Stato nel regime di produzione tramite l’IRI, molto probabilmente non si sarebbero potuti raccogliere gli stessi benefici che invece, grazie allo Stato produttore, hanno caratterizzato il nostro miracolo economico. Se lo Stato decidesse di scegliere di investire su nuove tecnologie[7], sarebbe consigliabile creare un organismo pubblico ispirato al “modello Darpa”, ma sarebbe ancora meglio se, oltre a questo, lo Stato si impegnasse nella produzione di beni e tecnologie all’avanguardia, nello specifico tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Sempre per mezzo di CDP sarebbe anche utile pensare ad una sorta di fondo sovrano per l’innovazione, che possa essere finanziato anche in maniera diretta tramite golden share sui diritti di proprietà intellettuale, ovvero incassando una royalty quando le aziende impiegano tecnologie finanziate dallo Stato per lo sviluppo di un prodotto nuovo[8], al fine di finanziare nuova innovazione e recuperare eventuali perdite derivate da investimenti non di successo. Pensare una “nuova IRI”, slegata dal fardello dei salvataggi e libera di funzionare come autonomo meccanismo nell’economia del Paese (argomento che Pandora ha trattato in precedenza), faciliterebbe la costruzione di collegamenti pubblico-privato, con conseguente espansione della base di conoscenza che contribuirebbe ad abbassare i costi di R&S[9].
Vi è infine la questione delle PMI. In Italia si guarda sempre più alle PMI come al vero motore di eccellenza della nostra economia, eppure non si prende in considerazione che se un’impresa di successo piccola o media non cresce significa che c’è un problema. Come suggerisce Pierluigi Ciocca, la scarsità di imprese piccole che diventano medie e di medie imprese che diventano grandi è indice di “appannamento” di un sistema economico. L’innovazione procede a singhiozzo, le tecnologie di avanguardia stentano a diffondersi, cala la produttività e l’economia ristagna. Non è un caso che i grandi laboratori aziendali di R&S, la cui importanza è fondamentale per costruire legami importanti fra pubblico e privato, fra ricerca di base e applicata, abbiano maggiori probabilità di esistere e funzionare in modo efficace in presenza di grandi imprese sane e robuste, capaci di fare economie di scala[10]. Non si può quindi pensare che l’orizzonte dell’innovazione si consumi nella dimensione aziendale delle PMI. Bisogna investire assolutamente sulla creazione di un sistema dove l’innovazione sia trasversale alla dimensione aziendale: ricordiamoci che le grandi imprese hanno molti vantaggi nel gestire i rischi dell’innovazione di cui invece le PMI non godono.
Per poter creare organismi come la Darpa, integrandoli in un “nuovo IRI”, il problema non è tanto la fattibilità concreta, cioè le spese da affrontare per creare strutture del genere, quanto quello del consenso politico, consenso da costruire sia in Europa che in Italia. Cambiare la cultura politica in materia è quindi il primo obiettivo da raggiungere per poter indirizzare nuovamente il nostro Paese verso un percorso di crescita trainato dall’innovazione, che sia però anche “inclusiva”, come suggerito dal rapporto Europa 2020, motivo per cui il tema della redistribuzione dei profitti discusso da Mazzucato è fondamentale per far sì che la crescita stimoli anche una diminuzione delle disuguaglianze. Il rischio è quello di proseguire con una crescita trainata dai bassi salari e dal contenimento dei costi, che molto probabilmente aumenterà ulteriormente la forbice della disuguaglianza e minerà le potenzialità innovative del Paese.
[1] L’incertezza di Knight occorre quando un operatore economico non è in grado di associare una probabilità ad un determinato evento. In questo senso rischio e incertezza sono due concetti distinti: nel primo caso l’operatore sa con certezza che un evento può presentarsi, per esempio, una volta su tre, nel secondo invece questa certezza non la si ha.
[2] Non vi è modo di illustrarli, ma l’autrice analizza anche i casi del programma Sbir per le PMI, la legge sui farmaci orfani e la NNI, l’iniziativa nazionale per le nanotecnologie.
[3] In seguito la sua “missione” sarebbe cambiata: non sarebbe più stata prettamente “bellica”, ma si sarebbe riorientata su come “convertire gli investimenti precedenti in tecnologie capaci di rendere più competitiva l’economia”.
[4] I principali enti promotori nella R&S di queste tecnologie sono stati la Darpa, il Dipartimento dell’Energia, l’Ufficio ricerca dell’Esercito, il Dipartimento della Difesa, le Forze armate statunitensi, la Fondazione Nazionale per la Scienza, gli Istituti nazionali di Sanità degli Stati Uniti, il Cern e l’Istituto reale per il radar del Regno Unito.
[5] Si va da un approccio “ondivago” e ambiguo da parte degli Stati Uniti ad un approccio discontinuo della Gran Bretagna che ha tagliato fondi ai programmi esistenti in materia di tecnologie verdi.
[6] Nel caso della Apple, i diritti di proprietà sono stati assegnati a delle controllate irlandesi, la cui proprietà è in comune con un’altra controllata che ha sede nelle Isole Vergini Britanniche, un altro paradiso fiscale.
[7] Un esempio potrebbero essere le tecnologie relative ad Industria 4.0.
[8] Si potrebbe anche pensare ad una soglia minima in termini di fatturato al di sotto della quale lo Stato non percepisce alcuna royalty. Sostanzialmente vorrebbe dire aspettare che la tecnologia prodotta da una determinata azienda entri in fase di “maturità” prima che lo Stato percepisca guadagni diretti.
[9] Un’ipotetica soluzione sarebbe quella di costruire, analogamente al caso statunitense, consorzi di ricerca con un importante di mix pubblico-privato, che includano anche aziende in competizione fra loro, in modo da evitare ridondanze nei progetti di ricerca.
[10] Questo non fa altro che ribadire la necessità di una “nuova IRI”. In Italia, infatti, la grande impresa si è quasi interamente identificata con l’IRI.