Recensione a: Alberto Zanconato, L’Iran oltre l’Iran. Realtà e miti di un Paese visto da dentro, Castelvecchi, Roma 2016, pp. 142, 14,50 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Ciancimino
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Alberto Zanconato, nel suo libro L’Iran oltre l’Iran, racconta della sua diretta esperienza personale nel paese integrandola con numerosi elementi della storia, della politica, della religione e della cultura iraniani. I suoi ricordi e le vicende personali che lo hanno riguardato, gli eventi ed i fatti storici che hanno contraddistinto il paese fin dall’antichità sono mescolati in un “intreccio” che si discioglie lungo le pagine del volume con semplicità e chiarezza.
Alberto Zanconato è stato giornalista dell’Ansa, per tredici anni corrispondente da Teheran, capitale iraniana. Dopo il lungo periodo vissuto nel paese, fra le righe del testo traspare chiaramente un forte attaccamento all’Iran, quasi fosse un secondo paese d’origine. Laggiù ha trovato l’amore per la donna che ha sposato, iraniana, ma anche per la vastità degli spazi che si aprono di fronte agli occhi dei viaggiatori che attraversano le sue strade, per la maestosità dei rilievi montuosi intervallati da sconfinati deserti che si stendono fino al Golfo Persico. Un contrasto stridente, che si ritrova quasi per naturalezza nelle vicende personali e collettive di chi vive in quelle terre da migliaia di anni.
Il libro si apre con una breve nota sulle traslitterazioni dalla lingua nazionale, il farsi: è un persiano moderno, che utilizza l’alfabeto arabo accompagnato dall’aggiunta di quattro lettere e che mutua molte parole dalla lingua del Corano. Questo primo elemento, all’apparenza non degno di nota, è invece significativo. Gli iraniani parlano un idioma particolare, arricchito da parole e concetti appartenenti alla cultura araba, diffusasi dopo l’islamizzazione del paese avvenuta a partire dal VII secolo d.C. con la sconfitta della dinastia Sassanide (III-VII secolo) per mano degli eserciti seguaci di Maometto. La civiltà persiana pre-islamica è molto più antica e un gran numero di cittadini iraniani vi è profondamente legato. “Norouz: il nuovo giorno. Il capodanno di origini pre-islamiche, che rimane anche oggi la festa più sentita da ogni iraniano, è celebrato all’inizio della primavera, e con il risveglio della natura porta il ritorno della speranza in una vita migliore.”, così si apre il primo capitolo del libro. L’inizio del nuovo anno, celebrato secondo le antiche usanze e condiviso con i popoli dei paesi vicini, insieme al Ramadan e ad Ashoura (giorno di commemorazione del martirio del terzo Imam sciita Hossein, ucciso insieme a decine dei suoi seguaci a Karbala nel 680 d.C. dalle truppe del califfo Yazid) costituisce il momento più importante nella vita della comunità. E ancora una volta dimostra la complessità della cultura persiana che non può essere identificata (e semplificata) con una cieca adesione al dettato dell’Islam secondo la rigida interpretazione del regime degli ayatollah. Nelle parole di alcuni dei suoi più famosi poeti ritroviamo questa consapevolezza, come riporta il celebre romanziere iraniano Sadeq Hedayat, che per la raccolta di liriche persiane da lui curata scelse il titolo taraneh (canto), anziché robaya (quartina, in arabo). La parola Iran, scelta non a caso come nome della nazione nel 1935 da Reza Shah al posto del classico Persia, ha la stessa radice di “ariano”: in questo elemento non vanno ricercate particolari connivenze tra la corona e il Terzo Reich, quanto piuttosto l’orgoglio delle proprie origini nei confronti delle popolazioni semite, ebrei e arabi allo stesso modo, ed una precisa volontà di distinguere la propria millenaria storia da quella dell’Islam. Uno degli appellativi del sovrano all’epoca era infatti Shahanshah ariamehr: “Re dei Re, luce degli ariani”. Persino lo Zoroastrismo, antica religione diffusa nella regione, trova spazio nella cultura popolare, tanto che nel 1996 la Repubblica Islamica permise alla comunità internazionale dei fedeli di tenere un congresso in Iran. Una sorta di ritorno nella terra delle origini.
Secondo una leggenda popolare, l’Imam Hossein dopo l’invasione araba della Persia sposò la figlia dell’ultimo sovrano Sassanide, la principessa Shahrbanou. La dinastia dei Safavidi impose lo sciismo come religione nazionale nel XVI secolo, con l’intento di contrapporsi al sunnismo di Ottomani e arabi e per riallacciare i fili con quella tradizione. Fu in quel momento che la religione, nello specifico lo sciismo, divenne strumento di controllo politico: una volta convertito il paese e saldata l’alleanza con il clero, la monarchia ne uscì rafforzata. La corona, le guide religiose ed i mercanti del bazar rappresentano i tre poteri che hanno governato l’Iran nei secoli successivi. Ancora oggi, sotto il paravento della “guerra di religione” tra le due più importanti fazioni dell’Islam, si nasconde il conflitto per il dominio geopolitico dell’area tra turchi, arabi e persiani. L’autore passa poi ad illustrare la genesi del grande movimento popolare che ha portato alla nascita della Repubblica Islamica dopo la Rivoluzione del ’79. Le prime crepe nel rapporto tra corona, clero e bazar risalgono al XIX secolo, a causa della manifesta incapacità a governare della dinastia Qajar: le casse pubbliche versavano in condizioni disastrose e l’economia ristagnava, dunque furono assunti tecnici stranieri per la gestione finanziaria e furono concesse ampie concessioni per lo sfruttamento delle risorse ed il controllo delle infrastrutture del paese a molte società straniere occidentali. Tutto questo fu percepito come una cessione di sovranità ed un’ingerenza delle “potenze imperialiste” negli affari del paese. Il culmine delle proteste fu raggiunto nel 1906, quando le fazioni laiche e molti leader religiosi unirono le forze e coinvolsero la popolazione in grandi proteste, che portarono all’emanazione di una Costituzione sulla falsa riga di quelle europee. Da qui ha inizio un lungo periodo di durissimi conflitti interni che attraversarono tutto il ‘900 e che videro il clero sciita spesso diviso tra la fedeltà alla tradizione monarchica, la scelta di non prendere parte attiva nelle vicende politiche e la sentita necessità di arginare l’invadenza occidentale e russa in ogni aspetto della vita del paese. La dinastia dei Pahlavi si inserì in queste dinamiche in modo prepotente, conquistando il potere con la forza ed imponendo un’occidentalizzazione della società e dell’economia che fu da subito mal digerita dai quadri religiosi: prima Reza Khan e poi il figlio, Muhammad Reza, sfideranno apertamente la tradizione, sfruttando le sempre più ricche risorse finanziarie derivanti dalle rendite petrolifere per sconvolgere la geografia sociale ed economica del paese, in nome di una modernizzazione capitalistica imposta dall’alto e fondata su gravi soprusi ai danni della popolazione, sulla repressione violenta della protesta e sulla corruzione.
Attorno alla metà del novecento si crearono le effettive condizioni che portarono ad una sempre maggiore preponderanza della sfera religiosa prima nella radicalizzazione delle tensioni contro la corona, poi nella conquista del potere politico. Il governo nazionalista e laico di Muhammad Mossadeq, leader del Fronte nazionale, nei primi anni ’50 sfidò apertamente l’egemonia geopolitica statunitense e inglese nazionalizzando l’industria petrolifera (fino a quel momento in mano alla Anglo-Persian Oil Company), per poi essere destituito dal colpo di Stato ordito da CIA ed MI6 in favore dello Shah Muhammad Reza, che riportò il paese sotto l’egida delle potenze occidentali ed in cambio ricevette enorme sostegno finanziario. A Qom, città non distante da Teheran in cui alcuni anni prima era nato un importante centro di studi teologici, nacque il primo gruppo terroristico di matrice religiosa, i Fadayan-e Eslami (combattenti dell’Islam) e la città divenne il luogo in cui si concentrò la testa dell’opposizione religiosa alla monarchia dei Pahlavi, corrotta e asservita agli imperialisti. Da qui cominciò la vicenda politica di Ruhollah Khomeini, che ben presto divenne la figura di riferimento del clero politicamente più attivo, fino a che nel 1963 in occasione della proclamata Rivoluzione Bianca dello Shah (che prevedeva diritti politici per le donne ed una profonda riforma agraria come provvedimenti principali) pronunciò un infuocato discorso di accusa, a cui seguì il suo arresto e la sua incarcerazione, che provocarono vibranti proteste popolari e la sanguinosa repressione da parte del regime. Un anno dopo, in seguito al suo rilascio, poiché Khomeini riprese le sue attività “sovversive” come se nulla fosse accaduto, fu esiliato, prima in Turchia, poi in Iraq, per finire il suo pellegrinaggio a Parigi, da dove guiderà le sollevazioni che porteranno alla Rivoluzione. Nel frattempo le fazioni nazionaliste e marxiste, anch’esse in opposizione al regime e violentemente represse dallo Shah, decisero che per vincere la guerra al sovrano e conquistare l’indipendenza dalle potenze straniere era necessario saldare l’alleanza con Khomeini ed il suo moviemento, Moutalefeh, alleato ai mercanti del bazar. Tra il 1978 ed il 1979, manifestazioni oceaniche e scontri di piazza costrinsero alla fuga lo Shah, al grido di Esteqlal, Azadi, Jomhouri–ye Eslami (Indipendenza, Libertà, Repubblica Islamica). “Il 5 febbraio 1979, quattro giorni dopo il suo ritorno dall’esilio, Khomeini nominò il primo governo rivoluzionario, guidato da Mehdi Bazargan. Affermò che aveva preso questa decisione esercitando il potere del velayat-e faqih e del suo esecutivo disse: ‘Opporsi a questo governo significa opporsi alla sharia. […] La ribellione contro il governo di Dio è una ribellione contro Dio’.”. Letteralmente velayat-e faqih significa “governo tutelare del giureconsulto”: è il principio fondante della dottrina khomeinista, secondo cui a guidare la comunità spirituale e politica dev’essere “un’alto esponente religioso esperto della legge islamica, il vali-ye faqih, fino alla comparsa del dodicesimo Imam”.
Gli anni subito successivi alla Rivoluzione, oltre ad essere fortemente condizionati dalla necessità di ricostruire l’economia del paese avendo perso il sostegno del mondo occidentale e di difendere i propri confini dalla guerra offensiva scatenata dall’Iraq di Saddam Hussein, furono utili al regime per regolare i conti in sospeso con tutte le altre fazioni politiche interne: fu dato il via a tribunali sommari e ad una lunga sequela di espropri, incarcerazioni ed esecuzioni capitali contro coloro che erano ritenuti sostenitori o complici del decaduto Shah, contro le classi dirigenti delle organizzazioni liberali, socialiste e marxiste, e contro tutti coloro che non dimostravano un’immediata adesione al nuovo corso politico o fornivano ai Guardiani della Rivoluzione anche il minimo sospetto. Tra i più colpiti furono i gruppi terroristici rivoluzionari dei Mojaheddin, che mescolavano principi marxisti alla fede nell’Islam, ed i Fadayan-e Khalq (Combattenti del Popolo), anch’essi marxisti. Non bisogna pensare che essere “fedeli musulmani” fosse sufficiente per essere al sicuro: infatti, coloro i quali tra le fila dello stesso clero sciita non accettavano la commistione tra religione e politica voluta dai khomeinisti finivano anch’essi nelle prigioni di Evin, un enorme complesso carcerario sito a Teheran noto fin dai tempi dello Shah, in cui venivano rinchiusi ed eliminati gli oppositori politici e i criminali più pericolosi. Uno dei racconti più agghiaccianti a proposito delle condizioni di detenzione, riguarda il trattamento riservato alle donne prigioniere su cui pendeva la condanna all’impiccagione: prima di eseguire la pena capitale, i secondini usavano stuprarle per impedire che giungessero nell’aldilà come “vergini”, coprendo queste nefandezze con matrimoni fasulli.
Il sistema politico che si sviluppò a partire da quegli anni è caratterizzato dalla competizione tra diverse visioni per quanto riguarda la legittimazione delle nuove istituzioni e la partecipazione popolare: da un lato i conservatori, fedeli all’interpretazione più rigida del concetto di “governo frutto del dettato divino”, dall’altra i riformisti ed i pragmatici, convinti invece che vada posta al centro l’eguaglianza ed il coinvolgimento delle masse popolari nello sviluppo democratico dell’Iran. Di qui, l’architettura istituzionale (definita talvolta come “dualistica”) che vede in cima la Guida Suprema (Rahbar), il vali-ye faqih, carica senza limiti di tempo eletta dal Consiglio degli Esperti, a loro volta eletti dal popolo ogni otto anni e scelti tra i più influenti membri del clero. A fianco, il Presidente della Repubblica, nonché capo del governo, ed il Parlamento eletti dai cittadini. Esistono poi diversi altri organi di garanzia costituzionale (come il Consiglio dei Guardiani o il Consiglio per il Discernimento) ed amministrazione dello Stato (come il capo delle forze armate, dei Pasdaran e della polizia, nonché dell’apparato giudiziario, tutti nominati dalla Guida Suprema) che spesso si sono rivelati come veri e propri freni al cambiamento a guida riformista. Nel corso dei primi trent’anni dalla nascita della Repubblica, le diverse fazioni si sono alternate al governo senza produrre cambiamenti significativi nelle modalità di gestione del potere politico e della sfera economica: i personaggi più discussi sono senza dubbio Rafsanjani, da poco deceduto, leader della fazione dei pragmatici e personaggio politico di primo piano fino alla sua recente morte; Moussavi e Khatami, riformisti che in diversi momenti hanno guidato l’ala “sinistra” dello schieramento politico; Ahjmadinejad, mina vagante della fazione conservatrice, fortemente anti-israeliano, lo spauracchio agitato dai politici occidentali più ostili alla Repubblica Islamica e principale oggetto delle feroci proteste di piazza dell’ultimo decennio, in particolare all’epoca della sua rielezione a capo del governo nel 2009, a seguito di elezioni pesantemente viziate da brogli; infine le due figure istituzionali attualmente al governo: la Guida Suprema succeduta a Khomeini, Ali’ Khamenei, e il Presidente della Repubblica riformista Rouhani, eletto nel 2013 e fautore dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano del 2015.
La coesione della comunità, la necessità di porre al centro la collettività anziché il singolo individuo, è una caratteristica della cultura iraniana. Così come la convinzione che lo Stato, oggi modellato ad immagine e somiglianza della volontà di Khomeini e dei suoi seguaci, debba essere una guida, un “buon padre” che, per quanto severo, non va mai tradito. Il dovere di accoglienza e riguardo verso il qarib, lo straniero appena giunto nel paese, riconoscibile per l’aria confusa mentre tenta di orientarsi, va di pari passo con il forte attaccamento per la propria cultura e le proprie tradizioni. Di fronte alle critiche e agli attacchi provenienti dall’esterno, potrebbe capitare di sentire anche il più fiero oppositore al regime minimizzarne le responsabilità. Aberou, letteralmente “l’acqua della faccia”, equivale al nostro detto popolare “i panni sporchi si lavano in casa”. È una questione di dignità e decoro.
Il fulcro della società iraniana è ancora oggi la famiglia, con la sua vasta rete di legami e rapporti. Le mura domestiche donano un po’ di intimità ai singoli individui che vogliano evitare il controllo pervasivo del clero e dei suoi funzionari. Nei loro appartamenti privati, molti cittadini iraniani continuano a bere alcolici, consumare droghe di ogni genere (soprattutto tra i giovani, a causa della vicinanza con l’Afghanistan, oggi principale produttore di oppio al mondo), ballare, ascoltare musica, vedere i film proibiti, non indossare l’hijab (velo femminile che lascia scoperto solo il volto) e non rispettare la separazione tra uomini e donne appartenti a famiglie diverse, esattamente come accadeva ai tempi dello Shah. A Teheran le feste con gli amici, in cui la trasgressione alle norme morali del regime è la prima fonte di divertimento, sono consumate esclusivamente lontano da occhi indiscreti, ma qualche volta capita di essere sorpresi dall’irruzione dei Basiji, i miliziani islamici che vigilano sul rispetto delle regole e scortano i trasgressori (quelli che riescono a catturare) alla famosa stazione di polizia di via Vozara.
Il recente pragmatismo che sta contraddistinguendo l’elettorato e le classi dirigenti iraniane, e che ha portato all’elezione di un “riformista” a capo del governo nel 2013, si riconosce anche nel rapporto quotidiano dei singoli cittadini con il regime: una stanca rassegnazione, a volte ironica a volte insofferente, che però lascia un piccolo spazio alla fiducia ed alla speranza. Inestinguibile e che si rinnova ogni qual volta la scena politica subisce uno scossone, ogni volta che, grazie agli strumenti democratici di cui si è dotata, la Repubblica Islamica pare cogliere l’umore popolare contingente, cercando di interpretarlo a suo modo. Prima di tutto per sopravvivere. Nonostante ciò il pugno di ferro rimane lo strumento prediletto, che contraddistingue la modalità di controllo della popolazione e contenimento dei conflitti.
Lo sguardo e la penna del cronista si riconoscono nella cura dei particolari, nell’accuratezza delle ricostruzioni storiche, nell’efficacia delle citazioni tratte dalle interviste e dai dialoghi informali avuti nel corso degli anni con alcuni dei protagonisti della storia del paese. Ci racconta delle semplificazioni di cui è oggetto l’Iran da parte degli occidentali, che pensano di poter ridurre tutto all’Islam sciita, al leader di turno, al (mancato) rispetto dei diritti umani o alle impiccagioni di piazza, ma in realtà hanno continuato a fare affari con il paese in maniera assolutamente ipocrita. E ci spiega quanti errori vengono fatti, errori che consegnano troppo spesso un’immagine caricaturale delle vicende e dei suoi principali attori. L’Islam è il collante ideologico, è la dottrina che fornisce rigore e forza al regime figlio della Rivoluzione del ’79. Uno strumento nelle mani della classe al potere per giustificare regole severe e controllo pervasivo della popolazione. L’Islam oggi è funzionale a marcare le differenze rispetto alla secolarizzazione occidentale: essa è percepita come pericolosa non perché considerata simbolo di infedeltà religiosa, ma perché è il frutto di un abbandono delle proprie radici tradizionali agli occhi dei più devoti musulmani, ma non solo.
L’Iran è un paese molto legato alla propria tradizione, estremamente antico e complesso: complessità che l’autore tenta di trasmettere lungo tutto il suo racconto. Quello che ci restituisce è un resoconto chiaro, lucido, quanto più possibile distaccato nel momento in cui tratta le questioni spinose della gestione politica interna nel regime degli ayatollah, dei rapporti con l’Occidente, del ruolo che l’Iran interpreta nella regione, ma al tempo stesso sognante e a tratti nostalgico nel descrivere paesaggi, costumi, ritualità e contraddizioni della società iraniana. Sono proprio le contraddizioni che catturano l’interesse del lettore. Mescolando la storia e la cronaca al racconto delle sue vicende personali, Zanconato ci fornisce gli elementi più importanti delle vicende contemporanee del paese da una prospettiva più intima, interna alla società. Molto eloquenti, non a caso, sono le frasi conclusive del libro: una volta entrati nella sua quotidianità, una volta superato il fascino per l’esotico tipico dello sguardo di un turista, si finisce per scoprire che l’Iran è una nazione come tante altre, un luogo in cui non è facile vivere ma molto più simile alla nostra realtà di quanto crediamo.