“Maniac” di Benjamín Labatut
- 12 Gennaio 2024

“Maniac” di Benjamín Labatut

Recensione a: Benjamín Labatut, Maniac, Adelphi, Milano 2023, pp. 361, 20 euro (scheda libro)

Scritto da Otello Palmini

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La tradizione narra che il gioco del Go sia stato inventato dal leggendario imperatore Yao per il figlio Danzhu. Yao era l’emblema della perfezione morale mentre Danzhu si ribellava all’ordine del mondo e amava la violenza sopra ad ogni cosa. Con l’aiuto delle divinità, Yao divise il cosmo intero in una griglia simbolica di diciannove linee per diciannove ottenendo il terreno su cui giocare il Go. Un gioco in cui i due contendenti devono posare pietre, rispettivamente bianche e nere, sulla tavola conquistando più spazio possibile e circondando le pietre dell’avversario. La posta in gioco della partita tra i due era il controllo del mondo.

Benjamín Labatut racconta questa leggenda nel prologo dell’ultima parte del suo Maniac (Adelphi), quella in cui si focalizza sulla partita di Go appunto tra il grande maestro coreano Lee Sedol e un’intelligenza artificiale di nome Alpha Go. La posta in gioco appare minore rispetto a quella dello scontro tra Yao e Danzhu; tuttavia, per capire il peso di questo prologo dobbiamo ripercorrere il senso complessivo del libro. È difficile individuare l’oggetto dei lavori di Labatut che mettono insieme fatti realmente accaduti, finzione letteraria e fulminanti esposizioni di concetti scientifici decisivi per l’epoca in cui viviamo. Quello che resta al lettore può essere definito come un’immagine della scienza, una direzione di senso complessiva che è vera anche se il suo corpo è, in parte, costituito da componenti inventate. Anche la finzione letteraria, allora, diventa reale perché messa al servizio della costruzione di un’immagine che vuole comunicarci qualcosa di quell’enorme assemblaggio di teorie, pratiche, emozioni e materiali che chiamiamo scienza. In Maniac la forza portante che detta i confini della definizione di questa immagine è la mente di János Neumann (1903-1957), meglio conosciuto come John von Neumann dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti nel 1937. La ricostruzione della sua traiettoria di vita diventa la strada su cui disseminare i concetti che puntano ad illuminare una certa concezione della scienza e della tecnologia. I meriti scientifici di von Neumann sono difficilmente riassumibili, ma con il ritmo di Labatut possiamo dire che parliamo dell’individuo che «aveva partorito il moderno computer, formulato le basi matematiche della meccanica quantistica, scritto le equazioni di implosione della bomba atomica, concepito la teoria dei giochi e del comportamento economico, preconizzato l’avvento della vita digitale, delle macchine autoreplicanti, dell’intelligenza artificiale e della singolarità tecnologica». Chi scrive crede sia possibile caratterizzare l’immagine di scienza che viene plasmata attraverso il racconto della vita di von Neumann attraverso tre aggettivi: pura, meccanica, vitale. Nella narrazione queste tre caratteristiche si susseguono intricandosi l’un l’altra tratteggiando il profilo di una delle figure più influenti del secolo scorso e che forse, come vedremo, può essere anche interpretato come profeta di un possibile futuro.

Pura. Labatut nel tentativo titanico di trasmettere anche ai non specialisti la portata dell’intelligenza del suo protagonista focalizza la sua attenzione sulla sua capacità di «affrontare una questione, ridurla ai suoi assiomi e trasformare ciò che stava analizzando, qualunque cosa fosse, in un problema di logica pura» (p. 95). Il genio di von Neumann è caratterizzato dalla capacità di purificare i problemi fino alla loro struttura fondamentale per indagarne gli elementi strutturali cercandone la soluzione ad un livello di astrazione puramente logico. Un potere semidivino che non solo ne farà una delle menti più richieste dagli apparati governativi dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, ma che, nella narrazione di Labatut, portava tutti i dipartimenti attivi a Los Alamos – il luogo di progettazione e realizzazione della bomba atomica diretto da J. Robert Oppenheimer a partire dal 1942 – a sottoporre i problemi più spinosi a questa arma matematica umana proveniente dall’Europa centro-orientale. Tuttavia, prima di attraversare l’oceano, la mente di János venne inevitabilmente attratta dal progetto di David Hilbert volto ad assicurare l’intero universo della matematica su un unico insieme di assiomi. Un’intuizione pura finalizzata ad eliminare il potere delle contraddizioni che sembravano scuotere il mondo della scienza. Una prospettiva di costruzione di un’armatura logica a protezione della verità che non poteva non ammaliare la giovane mente di von Neumann che, già nella sua tesi di dottorato, mirava a rintracciare «Le verità matematiche più pure e basilari, ed esprimerle sotto forma di assiomi incontestabili, affermazioni che non potessero essere negate, smentite o contraddette, certezze che non potessero mai venir meno o essere distorte, e che quindi – come divinità – sarebbero rimaste senza tempo, immutabili ed eterne» (p. 87). Come è noto, il programma hilbertiano naufragò per mano di un giovane ricercatore proveniente ancora dall’Europa centro-orientale. Dopo Kurt Gödel, dal 1930, del sogno della ragione di Hilbert restò poco o nulla. Ci si potrebbe aspettare che la mente di von Neumann – che incarnava il sogno del maestro – fosse destinata alla stessa fine, ma l’esigenza di purezza, di un mondo sotto controllo e in cui l’irrazionalità doveva essere domata era troppo forte per crollare insieme alla possibilità di una sua realizzazione puramente matematica. La prima caratteristica che emerge, quindi, dalla narrazione di Labatut è questa doppia purezza che caratterizza la traiettoria di von Neumann: da una parte la sua capacità di purificare i problemi fino alla loro forma logica elementale per poi affrontarne la risoluzione; dall’altra la sua brama di una razionalità pura, di un’armatura logica inscalfibile, capace di sorreggere la realtà della conoscenza.

Meccanica. Labatut mette in bocca a Julian Bigelow (1913-2003) – coautore nel 1943 con Norbert Wiener e Arturo Rosenblueth dell’articolo che ha dato il via al pensiero cibernetico – il compiacimento per il disprezzo con cui gli ingeneri furono accolti dai matematici all’Institute for Advanced Study di Princeton a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta: «I matematici erano disgustati. Uomini luridi con dita luride avrebbero insozzato il loro sacro recinto. […] Perché noi saldavamo davvero le cose, ci ustionavamo le mani, mentre loro non facevano che vagare come dinosauri con la testa tra le nuvole cercando di dipanare i misteri dell’universo. E noi? Noi stavamo costruendo qualcosa. Qualcosa che avrebbe cambiato il mondo» (pp. 163-164). È strano pensare che questo “golpe” contro la matematica pura sia stato organizzato proprio da János, ormai definitivamente Johnny, von Neumann. Il Mathematical Analyzer, Numerical Integrator And Computer, ovvero il MANIAC, costruito dall’orda di ingegneri capeggiata da Bigelow avrà al suo centro un’architettura logica progettata ovviamente da von Neumann, un’architettura che regola ancora il funzionamento dei computer. Ecco allora che la purezza della scienza del genio ungherese rivela non solo una strana alleanza con la materialità rappresentata dagli ingegneri, ma anche una commistione con programmi governativi, ambizioni militari, dinamiche geopolitiche. Non è un caso che il primo compito assegnato al MANIAC nel 1951 sia stato quello di svolgere i calcoli per la fattibilità della bomba all’idrogeno. Un’impresa scientifica, logistico-materiale, geopolitica e militare resa possibile anche dall’efficiente purezza dell’architettura di von Neumann. La bomba, che esplodendo nel 1952 nell’oceano Pacifico con una potenza cinquecento volte maggiore di quelle usate in Giappone nel 1945 fece rabbrividire i suoi stessi creatori, non era però al centro dei pensieri di von Neumann. Il calcolatore che aveva reso possibile quell’arma costituiva ai suoi occhi la vera rivoluzione. L’idea che l’umanità per evolvere avrebbe dovuto appoggiarsi ad una protesi esterna in grado di risolvere ogni problema, un’arma matematica più efficacie di von Neumann stesso. Dalla ricerca ossessiva di una struttura logica incontrovertibile della conoscenza, la mente pura di von Neumann si è concentrata sul design dell’architettura logica di una macchina capace di affrontare e risolvere qualunque problema. Dalla stabilità derivante dalla scoperta di una verità inscalfibile si passa alla forza bruta del calcolo come elemento capace di assicurare la razionalità della conoscenza e il controllo sulla realtà. L’ideale di purezza di von Neumann deve passare dai pensieri celestiali di Hilbert alle saldature e alle componenti di Bigelow, deve incarnarsi in una materialissima meccanizzazione per poter sopravvivere anche se mutata di senso.

Vitale. Se il compito diurno del MANIAC fu di rendere possibile la più formidabile delle macchine di morte prodotte dall’essere umano il suo compito notturno era del tutto opposto. Labatut racconta di come von Neumann sia stato affascinato dalle idee del matematico italo-norvegese Nils Aall Barricelli (1912-1993) fino al punto di concedergli l’accesso notturno alla macchina per far girare i codici che tanto lo ossessionavano. Barricelli voleva dimostrare che attraverso delle interazioni tra numeri casuali sarebbe stato possibile assistere in un universo digitale ad un processo evolutivo non dissimile a quello che aveva portato allo sviluppo dell’essere umano. L’ipotesi era quella di poter avviare digitalmente un processo evolutivo di cui gli esseri umani sarebbero stati semplicemente spettatori o curatori, un processo di vita artificiale. Per Barricelli non si trattava di modelli di vita ma di vita vera e propria, di «una particolare categoria di strutture autoreplicanti» (p. 190). Questa ossessione per la vita digitale contagiò profondamente von Neumann. Infatti, nel suo lavoro sugli automi capaci di replicarsi concepito già negli anni Quaranta e uscito postumo nel 1966 teorizzò le condizioni logiche di auto-riproducibilità di un organismo sia esso naturale o artificiale. In questo caso la capacità di individuare la pura struttura logica di un problema – che era stata decisiva per costruire un calcolatore – fu messa al servizio dell’individuazione della struttura dell’auto-riproducibilità degli organismi. Una struttura logica che secondo Sydney Brenner, premio Nobel per la medicina nel 2002, anticipò di molto la scoperta del modo di funzionamento di DNA e RNA. L’anelito verso la purezza, passato attraverso una meccanizzazione nella costruzione del MANIAC, sembra ora trascendere la meccanica stessa tendendo alla vita. Labatut racconta un von Neumann, ossessionato dalla prospettiva di Barricelli, lavorare fino allo sfinimento agli universi di vita digitale che il matematico faceva girare nella macchina. Dalla forza bruta del calcolo asservita al progetto di controllare la realtà poteva nascere qualcosa di incontrollabile? Qualcosa di radicalmente nuovo come una differente forma di vita. Si trattava solo dei sogni febbrili di un matematico ritenuto pazzo dai più che avevano finito per intaccare anche la mente di von Neumann?

Come anticipato, l’ultima parte del libro di Labatut ci porta direttamente nel 2016 nel bel mezzo della celebre partita di Go tra Lee Sedol e l’intelligenza artificiale Alpha Go, parto della mente di Dennis Hassabis che, durante il suo dottorato all’University College di Londra, aveva sviluppato una vera e propria ossessione per alcuni lavori di von Neumann. Il maestro coreano perderà, come noto, quattro partite su cinque riuscendo a prevalere solo una volta grazie ad una mossa (la pietra 78) che nel mondo del Go è considerata semidivina. Tuttavia, i programmatori di Alpha Go hanno dimostrato che esiste una macchina in grado di giocare meglio di qualunque umano al gioco più complesso che l’uomo abbia progettato. Ad oggi è sostanzialmente impossibile battere un’intelligenza artificiale al gioco del Go e Lee Sedol si è ritirato prematuramente con la consapevolezza dell’esistenza di un’entità che non è possibile battere. Alpha Go usa meccanismi di machine learning che non permettono di comprendere neppure ai suoi programmatori la logica attraverso cui prende le decisioni. Una macchina capace di assicurare un controllo assoluto nell’universo del Go sfugge al controllo umano, facendo riemergere alcuni dei fantasmi che il lavoro di Barricelli aveva impiantato nella mente di von Neumann.

Tornando alla storia di Yao e Danzhu forse dovremmo iniziare a preoccuparci perché, se il Go è davvero quel gioco in cui la posta in palio è il controllo del mondo l’umanità ne sta uscendo sconfitta. Ma è questo il paradigma più sensato per pensare l’intelligenza artificiale? Un paradigma in cui gli entusiasti la vedono come un infallibile Yao capace di portare il mondo verso la moralità e la giustizia e gli scettici intravedono un inesorabile Danzhu che ci trascinerà in una spirale di violenza. Utopie e distopie che forse dimenticano troppo in fretta quanto dice Lee Sedol: «Ho cominciato a giocare a cinque anni. A quell’epoca il Go era imperniato sulla cortesia e sulle buone maniere. Era come imparare una forma d’arte, più che un gioco. […] il Go era un’opera d’arte realizzata da due persone» (p. 352). Il Go è una forma d’arte millenaria che ha plasmato una cultura, una partica per la mente che ha prodotto un corpus di conoscenza da studiare. Davanti a questa immensa avventura del sapere i concetti di vittoria e sconfitta perdono alquanto di senso. Forse sarebbe più interessante pensare, come in parte ha fatto Lee Sedol, che Alpha Go ha mostrato agli umani nuove possibilità di gioco, ha generato mosse che hanno arricchito la tradizione e ha stimolato Lee ad innovare profondamente la sua strategia e, successivamente, a adottare uno stile di gioco completamente nuovo. Le pagine finali di Labatut gettano una nuova luce sul suo ritratto di von Neumann inteso come progenitore dell’intelligenza artificiale. Un’intelligenza acutissima ma miope che, sacrificando i dettagli dei problemi all’isolamento della loro struttura logica fondamentale, finiva per perderne spesso il senso. Certamente l’intelligenza alla von Neumann è una parte indispensabile per il progresso umano, ma forse non è solo di intransigenza, volontà di controllo ed esigenza di oltrepassare sempre e comunque ogni limite che l’umanità ha bisogno: «Jancsi [Von Neumann] pensava che, se intendeva sopravvivere al Novecento, la nostra specie avrebbe dovuto colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa degli Dei, e la sola e unica candidata a riuscire in questa strana trasformazione esoterica era la tecnologia» (p. 228).

Questo lavoro di Benjamín Labatut è estremamente interessante perché affronta un corpo a corpo serrato, seppur letterario, con uno dei padri dello sviluppo tecnologico contemporaneo a cui certamente dobbiamo molto di ciò che oggi muove la nostra realtà. Tuttavia, questo ritratto di von Neumann, in pieno stile Labatut, intesse una delicata relazione tra genio e follia, visione nitida e cecità, creatività e ossessione che ci permette di discutere criticamente l’eredità del genio ungherese. Quali codici valoriali devono guidare lo sviluppo scientifico e tecnologico e come devono relazionarsi tra loro? A questa, che sembra la domanda aperta nel mondo che abbiamo ereditato da von Neumann, dobbiamo ancora cercare delle risposte, non accontentandoci né della purezza meccanica e vitale di questo padre nobile, né delle storie di opposizione titanica tra bene e male.

Scritto da
Otello Palmini

Dottorando in Architettura e Pianificazione urbana all’Università di Ferrara (IDAUP). Laureato in Scienze filosofiche all’Università di Bologna. Membro fondatore del gruppo Prospettive Italiane. Tra gli ambiti di ricerca: Filosofia della tecnica e della tecnologia; intersezione tra tecnologia digitale e pianificazione urbana.

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