Recensione a: Massimo Campanini, Maometto. La vita e il messaggio di Muhammad il profeta dell’Islam, Salerno Editrice, Roma 2020, pp. 260, euro 19 (scheda libro)
Scritto da Roberto Zambiasi
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Il 9 ottobre 2020 Massimo Campanini, tra i più grandi orientalisti italiani contemporanei, è scomparso prematuramente all’età di 65 anni, interrompendo così bruscamente il suo prolifico e importante percorso di ricerca e di divulgazione in materia di studi islamici. Alla luce di questo fatto, una recensione dell’ultimo testo pubblicato in vita da Campanini, Maometto. La vita e il messaggio di Muhammad il profeta dell’Islam, acquisisce un valore particolare. Sebbene, infatti, alcuni volumi a firma del docente saranno pubblicati postumi nei prossimi mesi[1], quest’opera, oltre a rappresentare per molti versi una sorta di coronamento della sua riflessione su alcuni dei temi più importanti per la storia islamica delle origini, si presta particolarmente a mettere in luce alcune delle caratteristiche fondamentali del pensiero e dell’insegnamento di Campanini.
In effetti, Maometto. La vita e il messaggio di Muhammad il profeta dell’Islam riflette, già nella dialettica tra titolo e sottotitolo, una cifra caratteristica di tutta l’opera scientifica dello stimato islamologo italiano. Da un lato, come riconosciuto dall’autore nell’Introduzione, “Maometto” è un titolo del tutto improprio, storpiatura occidentale del vero nome del fondatore e profeta dell’Islam, “Muhammad”. D’altronde, una tale concessione, spiega l’autore, risponde all’esigenza di far capire immediatamente al potenziale lettore quale sia il soggetto del libro: si tratta di una biografia della figura storica nota in Occidente come Maometto. Ciò detto, la storpiatura, inevitabile concessione a una necessità divulgativa sentita come parte integrante del proprio dovere di intellettuale da Campanini, è subito emendata dall’utilizzo del più corretto “Muhammad” nel sottotitolo.
In questa prospettiva, l’autore è estremamente attento a definire fin dall’Introduzione dell’opera (accompagnata da un prezioso Prologo sulle fonti) che il criterio secondo il quale la biografia è stata scritta è quello di consentire al lettore occidentale di conoscere la vita e il messaggio di Muhammad (e non Maometto) dal punto di vista islamico, basandosi cioè quasi esclusivamente sulle fonti interne dell’Islam, prima di tutto il Corano[2], a cui, in polemica con buona parte dell’orientalistica euro-americana[3], Campanini non esita ad attribuire un notevole grado di attendibilità dal punto di vista storiografico, senza, per questo, rinunciare a una serrata critica scientifica e filologica, a differenza di quanto accade normalmente per le opere su Muhammad scritte da autori islamici.
Letta in questo contesto, la biografia di Muhammad rappresenta prima di tutto per Campanini un’occasione privilegiata per confrontarsi col testo del Corano, la cui rivelazione costituisce d’altronde, in ottica islamica, l’unico vero e proprio “miracolo” di Muhammad, e ciò rende il libro particolarmente prezioso, in quanto frutto maturo della riflessione dell’autore su molti aspetti, sia metodologici che contenutistici, dell’esegesi coranica a cui Campanini ha così largamente contribuito nel corso della sua carriera[5].
Il corpo del testo è articolato in cinque capitoli. Di questi (e ciò non dovrebbe sorprendere alla luce di quanto detto fin qui), solo il secondo e il terzo sono dedicati alla ricostruzione diretta della biografia e del messaggio di Muhammad. Il primo capitolo svolge infatti la funzione di collocare la vita e l’opera di Muhammad nel contesto dell’Arabia pre-islamica, laddove il quarto rappresenta un momento di confronto critico con le principali ricostruzioni delle origini dell’Islam da parte dell’orientalistica occidentale più aggiornata e, infine, il quinto analizza più direttamente il problema della genesi del califfato e dunque della società islamica come soggetto politico, altro tema estremamente caro alla riflessione di Campanini[6].
L’interesse del primo capitolo è certamente da rintracciare nell’attenzione alla ricchezza e soprattutto alla varietà culturale dell’Arabia, e in particolare di Mecca nel VI secolo d.C., che emerge dalla ricostruzione storica di Campanini. Una ricchezza documentata tra l’altro dalle splendide Mu‘allaqāt, una raccolta di sette componimenti poetici caratterizzati da un grado di perfezione stilistica e linguistica che prelude a quello del Corano, oltre a testimoniare i sentimenti, le aspettative e i valori (spesso materialistici ed edonistici) della vita beduina nell’Arabia pre-islamica.
Inoltre, Campanini insiste sull’importante presenza di ebrei e cristiani a Mecca all’epoca di Muhammad. A questo proposito, anzi, l’autore evidenzia come gli stessi culti incentrati intorno alla Ka‘ba[7], la pietra sacra (di origine meteoritica) diventata poi meta del pellegrinaggio islamico, la cui venerazione era intrinsecamente legata alla vicenda di Abramo, consentissero a Muhammad di recuperare la tradizione monoteistica e profetica precedente al fine di legittimare il proprio messaggio come fondato sulla hanīfyya, la “religione naturale monoteistica” del genere umano spesso ricordata nel Corano, specialmente a proposito dello stesso Abramo[8].
Il secondo e il terzo capitolo, pur rappresentando la parte più “canonica” del libro di Campanini, non sono per questo meno originali e innovativi. Tra i punti più significativi della ricostruzione proposta dall’autore, centrale è la sua insistenza sul doppio ruolo di Muhammad come profeta. Da un lato, infatti, il Corano sottolinea come Muhammad sia meramente un latore della parola divina, in un certo senso un suo semplice ricettacolo[9]. Su questa convinzione si fonda, d’altronde, l’intero atteggiamento degli islamici rispetto alla divinità del Corano, il cui valore non è fondamentalmente diverso da quello che i cristiani attribuiscono (sebbene con ben altra connotazione ontologica e teologica) all’Eucaristia. Dall’altro lato, tuttavia, Campanini insiste ripetutamente sul fatto che l’annuncio della rivelazione coranica non possa mai disgiungersi, in Muhammad, da una funzione ermeneutica. La straordinarietà del messaggio di cui è latore esclusivo determina il fatto che la vita e il comportamento di Muhammad diventino inevitabilmente una traduzione pratica di tale messaggio, ovvero un esempio che, come d’altronde l’importanza della sunna nel pensiero islamico testimonia, possiede un valore quantomeno pari a quello dello stesso testo coranico[10].
Fondamentale è poi l’insistenza, da parte dell’autore, su una suddivisione netta (una vera e propria “frattura”, furqān) tra i due momenti della predicazione muhammadiana, ovvero quella meccana, dal 610 d.C. circa al 622 d.C., e quella successiva all’Egira, dal 622 d.C. alla morte di Muhammad nel 632 d.C. Mentre il primo periodo sarebbe caratterizzato da una sostanziale “apoliticità” del messaggio di Muhammad, che accettava passivamente di subire la persecuzione a cui i Qurayshiti[11] sottoposero lui e i suoi primi seguaci, invitando i convertiti ad attendere fiduciosi la venuta, ritenuta ormai prossima, dell’ultimo giorno e del giudizio divino, il secondo periodo rappresenterebbe invece il momento di una decisa “storicizzazione” della nuova rivelazione. In altre parole, nel periodo medinese Muhammad, a differenza di quanto aveva fatto finché predicava a Mecca, si ergerà a vero e proprio capo carismatico di una neocostituita comunità politica e sociale, la Umma dei credenti, che prenderà le armi per difendersi dagli attacchi dei meccani politeisti e dei loro alleati e per realizzare un nuovo soggetto teologico-politico.
Il quarto capitolo dell’opera è poi particolarmente importante, soprattutto nell’ottica (adottata nella presente recensione) di leggere Maometto come una sorta di “testamento” scientifico e intellettuale di Campanini. In tale capitolo, infatti, l’autore si confronta esplicitamente con buona parte dell’orientalistica occidentale degli ultimi decenni. Come già accennato, la critica principale che Campanini rivolge ad autori come John Wansbrough[12] e i suoi allievi Patricia Crone e Michael Cook[13], ma anche molti altri, è quella di negare alle fonti islamiche dei primi secoli ogni attendibilità storica, riconoscendone però al contempo alle fonti esterne coeve, soprattutto cristiane, che molto spesso (è il caso in particolare di san Giovanni Damasceno) trattano dell’Islam in chiave apertamente polemica. La critica di Campanini muove dall’evidente (e per molti versi sorprendente) sostanziale coerenza della cronaca delle vicende storiche di Muhammad fornita dal Corano con quelle attestate dalla sunna e dalle sīre, coerenza che sarebbe ben difficile spiegare se tali fonti avessero avuto origine in ambienti separati e fossero state composte secoli dopo la morte di Muhammad. Peraltro, la datazione dei manoscritti più antichi del Corano (come quello della Grande Moschea di Sana’a e quello di Birmingham) al pieno VII secolo d.C., nonché i dati delle stesse fonti esterne coeve, contribuiscono a confermare la veridicità della narrazione degli eventi della vita di Muhammad riportata dalle fonti islamiche.
Nel corso della sua critica, con un’ardita operazione di “straniamento” culturale tipica del suo metodo pedagogico e scientifico, Campanini propone una comparazione con le fonti concernenti gli altri due “capostipiti” dei monoteismi abramitici, ovvero Mosè e Gesù. Nel primo caso, l’autore sottolinea come la stessa esistenza storica di una tale figura non possa essere suffragata da elementi esterni al testo biblico. Al contrario, nel caso del secondo, egli evidenzia come, sebbene l’esistenza storica di Gesù non possa seriamente essere messa in discussione, i contenuti del messaggio e della predicazione, nonché gli eventi stessi della vita pubblica, rimangono difficili da confutare con fonti esterne ai Vangeli (canonici e apocrifi) e alle prime testimonianze cristiane, anche in questo caso databili ad alcuni decenni dopo la morte di Gesù. In altre parole, sulla base degli stessi criteri adottati dagli orientalisti contemporanei, non si vede, secondo Campanini, perché bisognerebbe attribuire una maggiore attendibilità storiografica al testo dell’Esodo o dei quattro Vangeli canonici piuttosto che a quello del Corano[14].
Nel quinto capitolo, infine, Campanini si confronta direttamente con le vicende politico-sociali che interessarono la nascente comunità islamica in seguito alla morte di Muhammad nel 632 d.C. . Tale ricostruzione rappresenta, prima di tutto, l’occasione per ripercorrere criticamente le vicende dei primi quattro “sostituti” (è questo il senso più proprio del termine “califfo”, khalīfa) di Muhammad[15] e, in particolare, l’importanza della frattura tra sunniti e sciiti prodottasi a seguito della guerra civile[16] (nel corso della quale ‘Alī, il quarto califfo e l’unico successore legittimo di Muhammad secondo lo sciismo, trovò la morte). L’attenzione di Campanini, tuttavia, è particolarmente incentrata sul tentativo di fornire al lettore una corretta comprensione della natura dell’autorità politica di Muhammad e dei suoi successori sulla Umma dei credenti. A questo proposito l’autore, fine interprete del pensiero politico islamico, è estremamente attento a non utilizzare mai il termine “Stato”. Ciò non solo per evitare ovvii anacronismi, ma anche perché, contro a un sempre più diffuso pregiudizio occidentale che vede l’Islam come una religione naturalmente “teocratica”, la rivelazione coranica non ha in sé alcun elemento che giustifichi una tale visione, e lo stesso può dirsi dell’esperienza politica di Muhammad. A Medina, infatti, il “messaggero di Dio” non edificò una struttura politica istituzionale, né tantomeno si fece capo di una gerarchia ecclesiastica (entrambi, presupposti imprescindibili di ogni teocrazia). Al contrario, rifiutò sempre di farsi chiamare “re” ed esercitò il comando politico sul modello dello shaykh beduino, un primus inter pares riconosciuto come guida dalla comunità e che prendeva le decisioni fondamentali della vita collettiva solo dopo essersi consultato con i maggiorenti, secondo il costume della consultazione (shurā; da molti intellettuali musulmani riformisti moderni visto come una prefigurazione e una legittimazione di una forma di governo democratica).
La ricchezza e la varietà dei temi trattati nell’opera sono impressionanti e ben rispecchiano la straordinaria versatilità che ha caratterizzato la ricerca e l’insegnamento di Campanini. Ciò non preclude, d’altronde, la possibilità di trarre un messaggio complessivo dal testo, utile anche come cifra interpretativa dell’intero percorso intellettuale dell’autore. Anche se non detto esplicitamente da Campanini, infatti, la preoccupazione che sembra muovere tutto il suo sforzo, ovvero (la definizione non gli sarebbe forse dispiaciuta) il suo personale jihād – termine che, come già ricordato, ben lungi da ogni connotazione bellicistica, si riferisce nel Corano primariamente e principalmente allo “sforzo” morale richiesto ai credenti nel seguire la rivelazione di Allah –, è una preoccupazione prettamente emancipatoria. Il colonialismo politico-economico delle potenze occidentali sul mondo islamico è stato (ed è tuttora secondo l’autore) accompagnato da una forma ben più subdola di colonialismo, di natura culturale e intellettuale, che impedisce agli occidentali di accostarsi senza pregiudizi negativi alla cultura, alla religione e al pensiero islamici. Proprio a questi pregiudizi si deve la costante e apparentemente inevitabile polarizzazione del dibattito occidentale sull’Islam (e ovviamente sulla figura di Muhammad in particolare) tra denigrazione e apologia, entrambi atteggiamenti che Campanini ha combattuto fermamente. Se si vuole, dunque, recuperare uno sguardo più sereno sul mondo islamico, bisogna necessariamente liberarsi di tali pregiudizi. Si tratta di uno sforzo prima di tutto individuale, evidentemente, di cui l’illustre orientalista ha fornito un esempio fondamentale, ma anche di uno sforzo sociale. Questo invito è, in fondo, l’eredità più preziosa che Massimo Campanini ci ha lasciato.
[1] In particolare, sarà pubblicato da Mondadori nel 2021 il suo Manuale di Teologia islamica, scritto insieme a Francesca Bocca Aldaqre.
[2] Insieme alla sunna, ovvero alla tradizione riguardante la vita e i detti di Muhammad tramandata negli ahādīth. A tali fonti vanno poi aggiunte le “biografie” di Muhammad, le cosiddette sīre e i cosiddetti maghāzī, composte diversi decenni (e a volte diversi secoli) dopo la morte di Muhammad, e che, sebbene secondo Campanini siano fededegne nei punti essenziali, hanno la tendenza a presentare una figura, quella del “messaggero di Allah”, certamente tendente all’agiografia, in contrasto con la percezione che i contemporanei ebbero di Muhammad, almeno così come è possibile ricostruirla dal Corano stesso, la cui sistematizzazione Campanini data intorno al 650 d.C., ovvero meno di una ventina d’anni dopo la morte dello stesso Muhammad, databile al 632 d.C.
[3] Massimo Campanini è peraltro attento a distinguere nella sua critica la “vecchia” dalla “nuova” orientalistica. Quanto alla prima, sviluppatasi nel corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, il docente critica soprattutto il pregiudizio a volte evidente nei confronti del proprio oggetto di studio (che ovviamente si riflette sulla considerazione delle fonti interne dell’Islam). Ciononostante, va notato che Campanini è sempre stato attento a riconoscere il valore di singole opere di studiosi occidentali dell’Islam che, nonostante i pregiudizi, sono stati in grado di fornire dei contributi scientifici di grande importanza. È il caso, in particolare, degli studi di Francesco Gabrieli, figura centrale dell’orientalistica italiana (e in particolare della celebre scuola romana) della prima metà del Novecento. Quanto alla “nuova” orientalistica degli ultimi decenni (in cui, in ambito italiano e per ciò che concerne gli studi su Muhammad, Campanini assegna il primato a Claudio Lo Jacono), l’autore riconosce che l’atteggiamento “prevenuto” della “vecchia” orientalistica è spesso fortemente ridotto. Agli studiosi della “nuova” orientalistica, piuttosto, Campanini tende a rimproverare (oltre al già menzionato scetticismo eccessivo nei confronti delle fonti interne dell’Islam) l’asetticità e il distacco rispetto ai temi trattati.
[4] Campanini ricorda soprattutto, in traduzione italiana, Ramadan, T.; Marchetti, M. (tr.) (2007). Maometto, Einaudi: Torino e Lings, M.; Urizzi, P. (tr. e a cura di) (2015). Il profeta Muhammad. La sua vita basata sulle fonti più antiche, Torino: Il Leone Verde.
[5] In questo senso, Maometto non delude le aspettative: la lettura, infatti, e il commento dei versetti coranici riguardanti più o meno direttamente la vita e l’opera di Muhammad consente all’autore di analizzare, alla luce di un’accurata esegesi del testo sacro, i versetti centrali per moltissime delle questioni oggi al centro del dibattito pubblico sull’Islam in Occidente: dallo statuto delle donne (Campanini rileva, con grande onestà intellettuale, sia i passi che sembrano dare adito a una supremazia maschile, in campo etico e giuridico, sia quelli che sanciscono la parità di diritti tra gli uomini e le donne in quanto credenti), alla questione del jihād (che, rileva l’autore, è termine tradotto del tutto impropriamente con “guerra santa”, il cui significato proprio è invece meramente quello di “sforzo” morale, prima e più che bellico, per seguire la rivelazione di Allah). La lettura e il commento dei versetti coranici non hanno però mai, in Campanini, il sapore di un esercizio asettico, per quanto sempre condotto con metodo rigoroso: anzi, l’attenzione al contesto storico-politico, agli aspetti sintattici, alle differenti rese semantiche, permettono all’autore di “ridare la vita” a quella che, per chi vive al di fuori di una società islamica (ma forse non solo), sarebbe altrimenti soltanto lettera morta. Si tratta di un aspetto, d’altronde, ben noto a tutti coloro che hanno avuto il privilegio di ascoltare Campanini dal vivo, o anche di leggere alcune delle sue più importanti opere di esegesi coranica, come Campanini, M. (2004). Il Corano e la sua interpretazione, Roma-Bari: Laterza, o anche, indirettamente, Id. (2008). L’esegesi musulmana del Corano nel secolo Ventesimo, Brescia: Morcelliana. All’attitudine dell’erudito, in lui si univa sempre anche la capacità di attualizzare le problematiche coraniche, colte, appunto, nel loro contesto e così riportate al nostro (non dissimilmente da quanto molti intellettuali islamici contemporanei, sulla scia soprattutto di Fazlur Rahman, ma anche di Naṣr Ḥāmid Abū Zayd, riconosciuto maestro di Campanini, cercano di fare con metodi esegetici detti appunto “contestualisti”).
[6] Sull’interesse di Massimo Campanini per il pensiero politico islamico, cfr. soprattutto il fondamentale Campanini, M. (2015). Islam e politica, Bologna: il Mulino, ma anche Id. (2008). Ideologia e politica nell’Islam. Fra utopia e prassi, Bologna: il Mulino, e Id. (2015). Storia del pensiero politico islamico. Dal profeta Muhammad ad oggi, Milano: Mondadori.
[7] Diventata poi meta del pellegrinaggio islamico.
[8] Cfr. in particolare Corano 2:124-145, che racchiude una vera e propria storia della hanīfyya da Abramo a Muhammad, suo sigillo e coronamento. In questo senso, Campanini legge anche le polemiche coraniche contro ebrei e cristiani: sebbene, infatti, entrambe tali religioni erano monoteistiche, esse avevano deviato dalla corretta hanīfyya che Muhammad si apprestava a ripristinare. In particolare, mentre gli ebrei avrebbero teso a particolarizzare, con la “leggenda” del ‘popolo eletto’, un messaggio rivolto a tutti gli uomini, naturalmente monoteisti e adoratori del vero dio, i secondi, con le dottrine della Trinità e dell’Incarnazione, avrebbero misconosciuto il fondamentale principio dell’unità-unicità (tawhīd) di dio. Al di là del confronto con ebrei e cristiani, resta ovviamente un problema aperto, a cui Campanini allude in molteplici occasioni nel corso della trattazione, se nel VI secolo d.C. si stesse costituendo anche tra i politeisti di Mecca un vero e proprio culto enoteistico, se non direttamente monoteistico, in cui si riconosceva un primato a una singola divinità rispetto a tutti gli altri dei a cui veniva reso un culto.
[9] Cfr. Corano 75:16-19.
[10] Campanini afferma d’altronde che uno sguardo attento alla vita di Muhammad permette, per i non credenti, di comprendere meglio la sincerità della sua esperienza religiosa, che emergerebbe proprio (e qui sta l’originalità della notazione dell’autore) da quegli episodi che sottolineano l’umanità e dunque anche le difficoltà e le fragilità di Muhammad. Centrale è in questo senso l’episodio dei cosiddetti “versetti satanici” (cfr. Corano 53:19-20), la cui primitiva redazione confermerebbe come Muhammad aveva temporaneamente ceduto al politeismo dei Qurayshiti, ammettendo la liceità della venerazione di tre dee del pantheon meccano, solo per poi essere aspramente rimproverato da Allah.
[11] I membri della tribù politeista che governava Mecca all’epoca di Muhammad, e a uno dei cui clan, quello degli Hashīm, apparteneva peraltro la famiglia dello stesso Muhammad.
[12] Cfr. soprattutto Wansbrough, J. (1977). Qur’anic Studies, Oxford: Oxford University Press e Id. (1978). The Sectarian Milieu. The Context and Composition of Islamic Salvation History, Cambridge: Cambridge University Press.
[13] Cfr. in particolare Crone, P.; Cook, M. (1977). Hagarism. The Making of the Islamic World, Cambridge: Cambridge University Press.
[14] Si tratta, come è evidente, di una polemica di ampio respiro, nel corso della quale certamente Campanini si spinge troppo oltre, mosso tuttavia dalla consapevolezza che la convivenza tra Cristianesimo (ed Ebraismo) e Islam in Occidente farà emergere con sempre maggior inevitabilità tale questione nel futuro prossimo.
[15] E non direttamente di Allah, di cui solo Muhammad è stato califfo, nel pensiero islamico. Si tratta di una distinzione fondamentale: se, infatti, il Corano legittima il ruolo di guida sia religiosa che politica di Muhammad, i suoi successori non possono essere altro che una mera guida politica della comunità dei credenti.
[16] La cosiddetta fitna al-kubrā, ovvero “la grande (o, più correttamente, ‘la massima’) discordia”, un episodio di cui Campanini sottolinea il valore di trauma collettivo per la prima comunità islamica, la cui unità e perfezione è spesso vantata nel Corano (cfr. in particolare Corano 3:110).