Da Valletta a Marchionne: la comparsa dei “ricchi lavoratori” nelle disuguaglianze
- 17 Dicembre 2018

Da Valletta a Marchionne: la comparsa dei “ricchi lavoratori” nelle disuguaglianze

Scritto da Gabriele Palomba

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È ormai ben noto come il rapporto fra i guadagni annuali del recentemente scomparso amministratore delegato della FCA, Sergio Marchionne, e il salario medio dei lavoratori dipendenti italiani fosse enormemente maggiore rispetto ai tempi del “boom” e del suo predecessore Vittorio Valletta. Questo fatto, ben lontano dall’essere solo un luogo comune, coglie in pieno uno dei temi sollevati dalle più recenti analisi del problema della disuguaglianza dei redditi: dietro al suo incremento ci sarebbe infatti un aumento della forbice fra i redditi da lavoro alti e quelli medi e bassi. Se questo è un dato ormai abbastanza consolidato e accettato da tutti gli economisti, è invece meno uniforme il consenso sulle cause che hanno generato l’aumento di questo differenziale. C’è comunque da specificare che in questo ambito ricoprono un ruolo importante anche i redditi da capitale, la loro distribuzione e la conseguente disuguaglianza, che però non saranno oggetto di analisi in questa sede.

È opinione abbastanza diffusa, tanto in ambito accademico quanto al di fuori, che a giustificare la distanza fra Valletta e Marchionne siano le grandi differenze fra i contesti in cui i due manager operavano. Rispetto a Valletta, Marchionne doveva fare i conti con un mercato globalizzato, con problematiche che tuttora richiedono competenze sempre più specifiche, con una competizione sempre maggiore. Tutti fattori, insomma, che richiedono al top management delle grandi imprese più skill e più talento rispetto ai loro predecessori. In termini più generali, l’aumento dei redditi da lavoro alti in relazione a quelli medi e bassi non sarebbe altro che la giusta remunerazione della più ampia dotazione di capitale umano di cui i top manager dispongono rispetto ai loro sottoposti. L’implicazione più importante di questa ipotesi è che, in fin dei conti, l’accresciuta disuguaglianza è il risultato di una efficiente allocazione di risorse da parte del mercato, ed è dunque giustificabile in termini economici.

Eppure, non tutti sono convinti che la storia finisca qui. Numerosi economisti, fra i quali Stiglitz, Atkinson e Piketty, pur riconoscendo il ruolo di questi fattori, affermano che c’è spazio anche per altre spiegazioni, forse anche più determinanti. Infatti, non si tratterebbe solo di un problema di aumentata competizione sul mercato del lavoro, ma anche di mutati rapporti di forza. Andrebbe quindi considerata l’importanza di fattori quali il ruolo dei sindacati, la (ri)comparsa di forti poteri di monopolio da parte delle grandi imprese, il peso delle relazioni personali/familiari e dei network, e via dicendo. Tutti fattori, in ultima analisi, che hanno a che fare col concetto fondamentale di potere, e che avrebbero consentito ai “lavoratori ricchi” di estrarre delle rendite (cioè una remunerazione eccedente il contributo effettivamente fornito in termini di produttività). In questo modo, cadrebbe inoltre ogni giustificazione economica dell’aumento delle disuguaglianze, che sarebbero quindi non più il fisiologico risultato del funzionamento di un mercato concorrenziale, ma al contrario di distorsioni e imperfezioni del mercato stesso.

Prima di procedere con l’analisi e il confronto fra queste due ipotesi, è bene inquadrare questo dibattito all’interno delle più recenti rilevazioni statistiche e teorie economiche. Il prossimo paragrafo sarà dedicato a questo, mentre il successivo approfondirà le posizioni in campo.

 

Dati e contesto teorico

Cominciamo col fornire qualche dato. Un voluminoso corpus statistico, messo insieme da economisti quali i già citati Atkinson e Piketty (che è stato raccolto recentemente nel World Inequality Database e sul quale l’economista francese ha basato il suo best-seller Il capitale nel XXI secolo), ha certificato l’aumento generalizzato delle disuguaglianze di reddito nei paesi sviluppati, nel corso degli ultimi 30-40 anni[1]. Ad aver guidato questo incremento sarebbe stato soprattutto l’aumento della quota di reddito nazionale affluente ai cosiddetti top incomes, cioè al 10% e all’1% più ricco della popolazione[2]. All’interno di questo trend generale, i dati evidenziano due sotto-trend decisamente interessanti e connessi fra loro: da una parte, si nota come nella composizione dei redditi alti abbia acquisito una importanza sempre maggiore il reddito da lavoro, al contrario di quanto accadeva nei decenni precedenti, quando a prevalere era il reddito da capitale[3]; dall’altra parte, si è osservato un analogo fenomeno di concentrazione “verso l’alto” dei redditi da lavoro e dei salari[4]. Quindi, la causa della crescente disuguaglianza sarebbe da cercare anche nelle disparità salariali: i “supersalari” di alti dirigenti pubblici e privati, professionisti e star dello sport e dello spettacolo sono cresciuti vertiginosamente, mentre i redditi delle classi medie e basse sono rimasti stagnanti o sono addirittura diminuiti[5]. Questa ipotesi affianca dunque quella più “classica” di un ribaltamento nella distribuzione del reddito fra capitale e lavoro (la cosiddetta distribuzione funzionale del reddito), con un prepotente ritorno del primo a discapito del secondo, ipotesi che rimane comunque di fondamentale importanza in questo discorso, essendo il pilastro principale del lavoro di Piketty.

Queste tendenze, come detto, sono state osservate più o meno uniformemente in tutti i paesi sviluppati. L’Italia non fa eccezione, anche se in misura minore rispetto ai paesi anglosassoni, dove sono state registrate le dinamiche più pronunciate[6]. Andiamo nel dettaglio: nel 1984, l’indice di Gini[7] calcolato sul reddito di mercato (cui si fa riferimento per andare a vedere come viene distribuito il reddito prima dell’intervento dello Stato attraverso imposte e trasferimenti) era pari allo 0,387; trent’anni più tardi, nel 2013, si arriva a un valore dello 0,516[8]. Si può quindi affermare con certezza che il reddito totale di mercato sia distribuito oggi in maniera molto più diseguale. Pur non disponendo di dati aggiornatissimi al riguardo, la dinamica dei top incomes descritta precedentemente si è verificata anche nel nostro paese, dove la quota di reddito di mercato dell’1% più ricco è passata dal 6,90% del 1980 al 9,38% del 2009 (ultimo dato disponibile), mentre quella del 10% più ricco è salita dal 30,5% al 33,87%[9]. Anche la composizione dei redditi alti è cambiata in maniera simile alle altre economie avanzate: la quota del reddito da lavoro (sia dipendente che autonomo) all’interno del percentile più alto ammonta oggi al 70,9%, contro il 46,4% del 1980[10]. A questo riguardo l’Italia rappresenta però un’eccezione rispetto al resto dei paesi sviluppati. Infatti, nel nostro Paese i redditi da lavoro autonomo coprono una quota più ampia, fenomeno dovuto probabilmente alla peculiare struttura della nostra economia, con la ben nota abbondanza di imprese di dimensioni minori, dove la figura del manager e quella del proprietario spesso coincidono[11]. Infine, anche in Italia la crescita dei top incomes è stata guidata soprattutto dalla concentrazione verso l’alto dei redditi da lavoro[12].

Arrivati a questo punto, possiamo dire che l’evidenza statistica indica che la disuguaglianza, in Italia come nel resto del mondo occidentale, è aumentata, e che quello dei “ricchi lavoratori” diventa un fenomeno sempre più consistente. È quindi confermato anche da questi dati come Marchionne guadagnasse molto più di Valletta in relazione al salario medio dei rispettivi operai. Quello che rimane da capire adesso, è quali sono le cause nascoste dietro ai numeri.

 

Le cause: il mercato o le rendite?

In apertura si è detto come ci siano due principali visioni contrapposte quando si tratta di definire le cause delle crescenti disuguaglianze di reddito.

Ha avuto discreta fortuna la teoria secondo la quale dietro all’apertura della forbice dei salari c’è la tendenza del mercato ad aumentare i salari degli individui altamente qualificati ed istruiti o molto talentuosi. In altre parole, l’aumento della dispersione dei salari è il risultato della maggiore remunerazione garantita ai lavoratori che posseggono grandi quantità di capitale umano (sia esso più o meno intrinseco, come nel caso del talento di uno sportivo o di un artista, o frutto di un investimento in istruzione e formazione). In sostanza, i lavoratori più talentuosi o più istruiti vengono identificati dal mercato come una “risorsa scarsa”, e poiché, come da manuale, al diminuire dell’offerta di un bene aumenta il suo prezzo, i loro “compratori” sono disposti ad offrire loro una remunerazione molto alta pur di assicurarsi i loro servizi.

Il primo a proporre una spiegazione di questo genere è stato l’economista americano Sherwin Rosen, già nel 1981. Nella sua teoria delle superstar, viene delineato un tipo di mercato super-competitivo, in cui basta una piccola differenza in termini di talento per determinare una grande disparità di remunerazione fra due individui. Questo non solo perché il lavoratore più talentuoso viene percepito come risorsa scarsa, motivo per cui i suoi compratori non otterrebbero la stessa utilità da due lavoratori con minor talento (chiunque preferirebbe ascoltare un concerto di Pavarotti piuttosto che di due tenori con meno reputazione insieme), ma anche perché la struttura del mercato consente alla singola superstar di coprire una larga quota di mercato senza degradare troppo la qualità del servizio offerto. Quindi, a determinare il differenziale di remunerazione è tanto l’effetto prezzo, per cui alla superstar viene riconosciuta una remunerazione maggiore, quanto l’effetto quantità, per cui la superstar agisce come monopolista di fatto anche in presenza di concorrenza perfetta. In sintesi, il mercato delle superstar (che possono essere artisti e sportivi, ma anche professionisti e manager) è tale per cui “chi vince prende tutto”. Come già notato nell’introduzione, l’implicazione fondamentale è che tutto il fenomeno della disuguaglianza dei redditi da lavoro si spiega in una cornice di mercati concorrenziali e che la concentrazione di guadagni e quote di mercato nelle mani di pochi agenti è in realtà il sintomo di un’efficiente allocazione delle risorse, che premia coloro che risultano essere i migliori nel loro campo.

Non sono però pochi i punti critici di questa teoria. Il primo ordine di problemi riguarda l’esistenza di asimmetrie informative: in che modo si identifica il talento e perché si reputa un individuo più dotato di un altro? Non sempre è possibile farlo in maniera diretta ed inequivocabile. È proprio qui che potenzialmente entrano in gioco fattori di non-mercato: spesso sono degli intermediari a dirci che un determinato individuo è “il migliore”, per cui le reti di relazioni potrebbero contare molto più del talento o delle qualifiche. Secondo poi, si può affermare con certezza che tutti i talenti offrono benefici alla società? Pensiamo al caso di un broker cui viene riconosciuto un cospicuo salario da una società di investimenti altamente speculativi: sarà sicuramente molto talentuoso e qualificato, ma è possibile giustificare i suoi alti guadagni in termini di efficienza, quando il suo lavoro provoca probabilmente turbolenze finanziarie? Per tacere poi del fatto che, anche ammettendo che i lavoratori ricchi siano oggi più istruiti e qualificati di ieri, rimane comunque difficile pensare che la quantità di talento sia oggi tanto maggiore rispetto agli anni del boom economico. Questi ed altri fattori lasciano quindi spazio a distorsioni ed imperfezioni di mercato, che come abbiamo visto nell’introduzione determinano poteri di monopolio. Da questi deriva quindi la possibilità di estrarre una rendita, cioè di ottenere remunerazioni superiori al contributo che si dà alla creazione di ricchezza nel sistema economico. Questo vuol dire, in termini economici, che le disuguaglianze non pongono solo un problema di equità, ma anche di efficienza.

È proprio da qui che prende le mosse il filone teorico che individua nei cambiamenti istituzionali verificatisi a partire dai tardi anni Settanta la causa principale delle disparità di reddito. Questi cambiamenti sono avvenuti abbastanza omogeneamente in tutte le economie sviluppate: l’abbandono di un sistema fiscale strettamente progressivo e il ridimensionamento del welfare State, la spinta a de-sindacalizzare e frammentare il mondo del lavoro e la deregolamentazione generalizzata dei mercati (finanziari e non), che ha riportato sulla scena le grandi imprese monopolistiche e ha canalizzato risorse verso settori caratterizzati da grandi rendite. Il risultato è stato quindi un mutamento drammatico nei rapporti di forza, non solo fra capitale e lavoro, a favore del primo, ma anche all’interno del lavoro stesso, provocando una concentrazione di potere, e quindi di reddito, nelle mani dei più ricchi.

Se questa ipotesi è verificata (e i dati disponibili lo suggeriscono, visto che l’inversione di tendenza nelle statistiche sulle disuguaglianze coincide temporalmente con l’inizio di questo grande processo di riforma del sistema economico) e se è accertato che questi cambiamenti non hanno portato a una maggiore remunerazione del capitale umano, ma hanno creato sacche di potere di mercato e di rendita, le implicazioni di politica economica non sono banali. Anzitutto, laddove ci sono rendite ed esternalità, la teoria economica standard suggerisce la necessità di un intervento pubblico. Secondo poi, è importante che questo intervento non miri solo a rafforzare la redistribuzione del reddito, ma anche la sua “pre-distribuzione”, cioè a correggere il funzionamento dei mercati stessi, in modo tale da chiudere queste sacche, riequilibrare i rapporti di forza i lavoratori “ricchi” e gli altri e garantire un sistema economico non solo più equo, ma anche più efficiente.


[1] Cfr. Piketty T., Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014.

[2] Fonte: piketty.pse.ens.fr/files/capital21c/pdf

[3] Cfr. Piketty T., op. cit., pp. 420-429.

[4] Cfr. Atkinson A., Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2015, pp. 30-32.

[5] Cfr. Franzini M. e M. Pianta, Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 47-48.

[6] Cfr. Piketty T., op. cit., pp. 483-488.

[7] La più utilizzata misura della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, assume valore compreso fra 0 e 1, dove lo 0 indica un reddito distribuito in parti esattamente uguali e l’1 indica una concentrazione massima.

[8] Fonte: OCSE, “OECD Income Distribution Database”.

[9] Fonte: World Inequality Database.

[10] Fonte: Franzini M., Granaglia E., Raitano M., Extreme Inequalities in Contemporary Capitalism. Should We Be Concerned About the Rich?, Berlino, Springer, 2016, pp. 5.

[11] Cfr. Franzini M., Granaglia E., Raitano M., op. cit., pp. 3-6 e 19-24.

[12] Cfr. Alvaredo, F. e E. Pisano, “Top Incomes in Italy, 1974–2004”, in A. B. Atkinson e T. Piketty, Top Incomes: A Global Perspective, Oxford, Oxford University Press, 2010.

Scritto da
Gabriele Palomba

Dottorando alla Scuola di Dottorato in Economia dell’Università La Sapienza di Roma, laureato in Economia politica presso la stessa università. Studia le disuguaglianze e la distribuzione del reddito. Ha conseguito il diploma triennale della Scuola Superiore di Studi Avanzati Sapienza (SSAS). Membro della rete italiana di Rethinking Economics.

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