Recensione a: Giovanni Carrosio, I margini al centro. L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione, Donzelli Editore, Roma 2019, pp. VI-170, euro 18 (scheda libro)
Scritto da Alessandro Ambrosino
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Nel 2017 l’OCSE ha pubblicato una dichiarazione sul tema della globalizzazione mettendo in luce come, a fianco di indubbi benefici, essa abbia causato anche un’accelerazione delle disuguaglianze territoriali, oggi in forte aumento in tutto l’Occidente[1]. Nelle aree interne, o rurali, così come nelle periferie urbane, essa si è tradotta in crescenti fenomeni di marginalizzazione, peggioramento dei servizi essenziali (istruzione, mobilità e salute) e, soprattutto, in disuguaglianze di riconoscimento economico-sociale tanto esplicite da far coniare agli studiosi il termine di: «luoghi lasciati indietro»[2].
Chi abita questi territori, avvertendo una tale scarsità di prospettive, ha gradualmente sviluppato un frustrante senso di “sconfitta” nelle sfide globali e da alcuni anni chiede un nuovo riconoscimento politico, manifestando forti segnali di malessere che prendono diverse forme: rifiuto delle diversità, intolleranza, desiderio di protezione, desiderio di comunità chiuse, concezioni “tribali” dell’identità e avversione per le élite accusate di corruzione[3].
Secondo Giovanni Carrosio, professore di Sociologia dell’ambiente e Governo dei sistemi di rete all’università di Trieste, nonché membro del Comitato Tecnico Aree Interne, l’evento a partire dal quale si osserva un’esplicita reazione sovranista alla globalizzazione, che riporta i territori del margine all’attenzione del dibattito pubblico, è la Brexit, a cui sono seguite l’elezione di Trump e la crescita dei movimenti populisti in Europa[4]. Ciò che accomuna questi eventi, secondo gli esperti di cui Carrosio condivide il pensiero, è una sensibile differenza geografica nell’espressione del voto tra aree rurali, segnate dall’abbandono dei piccoli centri abitati e dalla scarsità di opportunità, e zone urbane, centralissime, metropolitane e fulcro dell’innovazione, suggerendo la ripresa delle vecchie fratture città/campagna e centro/periferia che sembravano fortemente indebolite con l’avvento della modernità[5].
Nel suo ultimo testo, I margini al centro, anche Carrosio esplicita la necessità di porre l’accento sulle disuguaglianze territoriali – definite come un: «principio ordinatore di forza analitica»[6] – nel comprendere le trasformazioni attuali, tuttavia imprime una svolta mostrando come, invertendo lo sguardo e, appunto, mettendo al centro le aree periferiche, i grandi cambiamenti acquistino originali prospettive di analisi.
Carrosio apre la sua riflessione constatando un limite delle letture mainstream della lunga crisi iniziata circa dieci anni fa. Secondo l’autore, la maggior parte degli osservatori ha utilizzato il 2008 come uno spartiacque, concentrandosi esclusivamente sulla matrice economico-finanziaria e mettendo le città al centro delle analisi e delle politiche. Al contrario, nelle aree marginali e periferiche si è avuto un: «disinvestimento strategico, politico e culturale»[7]. Tale lettura, però, non spiega l’origine della frattura tra aree che hanno beneficiato dalla globalizzazione e aree che sono state marginalizzate.
Per comprendere ciò che sta avvenendo bisogna dunque sollevare «il manto consolatorio delle crisi finanziarie»[8], ed esaminare le contraddizioni profonde della società attuale, frutto dell’intreccio pluridecennale di tre fenomeni distinti ma interdipendenti: la crisi ambientale, la crisi fiscale dello Stato e la questione migratoria.
Solo esaminando la correlazione tra questi fattori lo sguardo si inverte e, dai margini, o nel caso dell’autore dalle aree interne dell’Italia, il rapporto tra ambiente, economia e società si disvela in maniera più nitida. Riportare questi territori al centro del discorso, in altre parole, non significa perdere di vista le implicazioni finanziarie globali del problema, ma integrarle con le variabili politiche, sociali e geografiche delle aree periferiche, microcosmi socio-territoriali che sperimentano le tre crisi nella loro radicalità, diventando cartina tornasole della loro interconnessione[9].
Carrosio parte dalla crisi ambientale, la cui evidenza empirica principale, da un punto di vista economico, è la rottura dell’equilibrio temporale tra lo sfruttamento delle materie prime e la loro successiva riproduzione naturale. Nelle parole dell’autore: «La società industriale trasforma l’ambiente a ritmi troppo veloci perché il sistema ambientale possa chiudere i propri cicli»[10]. Questa erosione dell’ecosistema fa crescere rapidamente i costi di sfruttamento delle risorse, i quali incidono sulla capacità di produrre ricchezza con conseguenze notevoli sulla sostenibilità dei sistemi di welfare e sulla possibilità di garantire pieni diritti di cittadinanza per tutti. Si arriva così alla seconda crisi, la crisi fiscale dello Stato, la quale è legata a doppio filo con il problema ambientale perché, di fronte a risorse pubbliche sempre più scarse, le istituzioni sono obbligate all’aut aut tra la lotta al dissesto idrogeologico e la spesa per il miglioramento dei servizi. In questo contesto, tale per cui una società sempre più complessa richiede forme di assistenza fondamentali in misura sempre maggiore, lo Stato fatica ad adeguarsi, abbassando il livello delle prestazioni socio-assistenziali e creando un mercato del lavoro secondario composto da precari poco tutelati e mal retribuiti. Eppure, questo spazio è fonte di attrazione per i nuovi arrivati, i quali trovano nel mercato del lavoro di cura occasioni per avere un reddito[11]. La crisi migratoria, al di là delle complesse questioni legate ai “migranti climatici”[12], si concretizza sostanzialmente in questo aspetto e chiude il cerchio in quanto, allo stesso tempo, per reperire le risorse economiche necessarie a far fronte alla spesa sociale, lo Stato ha bisogno di incentivare la crescita, rischiando spesso di promuovere un maggiore sfruttamento e degrado delle risorse naturali.
Si spiega così l’interdipendenza fra le tre crisi, la cui accelerazione negli ultimi anni ha creato le nuove fratture sociali[13]. Per Carrosio vi è infatti una dimensione globale del problema, nella misura in cui: «La crisi ambientale pone al centro il tema delle azioni di contrasto del cambiamento climatico, che per avere successo devono essere sovranazionali […] le migrazioni impongono un dibattito sulla cittadinanza che richiede l’attivazione di organismi sovranazionali, […] l’insostenibilità dei sistemi di welfare […] ripropone il dibattito sull’universalità dei diritti sociali»[14]. Ciò ha determinato lo smussamento delle vecchie contrapposizioni novecentesche e la ripresa delle fratture centro-periferia per mezzo delle tensioni di carattere economico (la concorrenza globale del mercato del lavoro), culturale (la concorrenza dell’immigrazione extracomunitaria) e politico (la concorrenza tra soggetti statali e sovrastatali). In sintesi: «globalismo versus sovranismo»[15], frattura complementare ai cleavages territoriali giacché troviamo i ceti emergenti urbani, i vincitori della globalizzazione, contrapposti alle aree ai margini, ovvero i perdenti.
Viene da chiedersi, se il quadro si struttura su un contrasto così netto, se sia necessario schierarsi o con l’una o con l’altra posizione. L’autore, tuttavia, consente di uscire da questa dicotomia e indaga una terza dimensione: l’emancipazione che si sviluppa nelle aree interne quando queste, proiettandosi oltre le fratture contemporanee, lavorano sia per una società aperta, capace di guardare ai valori della solidarietà, della sostenibilità e della giustizia sia riconoscendo le diversità territoriali e la creatività dei gruppi sociali che vivono nei luoghi.
Le aree interne sono spesso descritte con connotati populisti, regressivi, ostili alle diversità e di resistenza al cambiamento. Tuttavia il libro di Giovanni Carrosio ci mostra che nelle aree emarginate si sviluppano anche risposte di natura opposta. Si cercano soluzioni, si praticano innovazioni che sconfinano rispetto ai percorsi che hanno dato origine alla crisi e si cerca un modello di sviluppo corrispondente alle esigenze della realtà locale. Tale inversione dello sguardo fa sì che gli spazi del margine diventino: «spazi di critica e di sperimentazione sociale, portatori di istanze e nuovi modelli di sviluppo […] in grado di indicare nuove strade da percorrere a tutto il Paese».[16]
L’autore sviluppa questa riflessione soprattutto grazie a due esperienze che lo vedono coinvolto in prima persona da una dozzina d’anni. La prima è la sperimentazione avviata nell’ambito della comunità di pratica “Aree Fragili”, un gruppo di lavoro composto da ricercatori e attivisti che dal 2006 si incontra annualmente a Rovigo per condividere esperienze, problemi e soluzioni delle aree rurali italiane[17]. La seconda è la partecipazione come progettista all’elaborazione della SNAI, la “Strategia Nazionale per le Aree Interne” pensata da Fabrizio Barca nel 2013 per dare una risposta innovativa al problema dello spopolamento di larga parte del Paese[18]. Principio guida della Strategia è l’ideazione di un vero e proprio intervento partecipato sul territorio in cui è esso stesso il vero protagonista. Grazie ad un tale approccio, le mille diversità storiche, culturali e naturali di tutte queste “piccole Italie” hanno iniziato, in parte, ad essere valorizzate in maniera più stabile, come dimostra la sostanziale continuità della Strategia lungo quattro governi.
Di entrambe le esperienze l’autore rendiconta nella seconda parte del libro, descrivendo molti casi concreti di inversione di rotta. Esempi di recupero di una dimensione comunitaria che si traducono, ad esempio, nel nuovo mestiere dell’ostetrica di comunità, che supera il servizio pubblico incentrato sull’ospedale e «riterritorializza la medicina»[19]. O ancora le “badanti di borgo”, nate da cooperative locali di servizi di comunità per garantire momenti di socialità agli anziani, oppure agro-asili e sistemi di mobilità a chiamata no-profit. Tutto ciò sposta il welfare mix verso un nuovo paradigma, più sostenibile, ancorato ai territori e dalle forti implicazioni socio-economiche. Per Carrosio, infatti, una delle principali trasformazioni in cui i casi locali delle aree interne possono servire da esempio a contesti più generali è la trasformazione dell’economia lineare in economia circolare. Come si è detto, fra le varie concause della crisi fiscale dello Stato vi è il problema della scarsità di risorse, la quale, in determinati contesti, disarmonizza il budget per la gestione del territorio e la spesa per i servizi pubblici. Tuttavia, l’attuale situazione di emergenza è il risultato di una graduale accelerazione del meccanismo “produzione-consumo-smaltimento” del sistema economico lineare classico, la cui definizione stessa è in contraddizione con l’idea di “ciclo naturale”. Dai margini però, quando la conoscenza circola liberamente e il know-how tecnico si miscela con le pratiche dei sistemi locali, è possibile rimarginare la frattura tra ambiente e produzione di beni. Avanza così un modello autenticamente circolare di economia, in cui gli attori sono diversificati ma mossi da responsabilità socio-ambientali che gli permettono di lavorare in rete sulla base di principii sostenibili. Inoltre, dalla tensione tra innovazione tecnologica e recupero del sapere pratico locali si osservano interessanti innovazioni, come ad esempio la riscoperta del ruolo dei muretti a secco per contenere le frane o il riutilizzo della produzione di lana nell’imbottitura di pannelli isolanti per l’edilizia[20].
Le aree interne, ci dice Carrosio: «ci pongono di fronte all’urgenza di un pensiero nuovo, alto e radicale. Capace di tenere insieme lo sguardo sul mondo e l’attenzione ai luoghi»[21]. Per queste ragioni mettono in moto domande antiche che però trovano soluzioni inedite, contemperando la domanda di mutualismo che nasce dal basso con il ruolo di garanzia dello Stato[22].
Ciò che ci si auspica ora, come ben evidenzia l’autore in conclusione, è che questa «nuova grammatica dello sviluppo»[23], trovi ascolto presso le istituzioni in un senso più ordinato, in modo che le numerose esperienze singole di successo possano essere riconosciute, coalizzate e replicate in altri contesti. Si tratta, cioè, se si crede che le risposte alla crisi abbiano un valore politico, di “piegare” le politiche pubbliche ai luoghi, aumentandone la resilienza, riavvicinandole ai cittadini, e rendendole all’altezza del cambiamento che i margini rappresentano.
[1] OECD, Making Globalisation work: better lives for all, 2017 Ministerial Council Statement. URL: http://www.oecd.org/mcm/documents/2017-ministerial-council-statement.htm
[2] Si veda: I. Gordon, In what sense left behind by globalization? Looking for a less reductionist geography of the populist surge in Europe, in «Cambridge Journal of Regions, Economy and Society, a. 11 (2018), n. 1, pp. 95-113. Inoltre: A. Rodriguez-Posé, The revenge of the Places that don’t matter (and what to do about it), in «Cambridge Journal of Regions, Economy and Society», a. 11 (2018), n. 1, pp. 189-209.
[3] G. Carrosio, G. Osti, Popolo, politica, partecipazione. Il governo delle aree rurali fragili in Italia e Europa, XII convegno aree fragili, Rovigo, 22-23 marzo 2019.
[4] G. Carrosio, I margini al centro, Roma, Donzelli, 2019, p. 10.
[5] Si fa qui riferimento ai noti cleavages di Seymour Lipset e Stein Rokkan, sviluppati per la prima volta in: S. Lipsett, S. Rokkan, Party Systems and Voter Alignments. Cross-National Perspectives, New York, Free Press, 1967.
[6] G. Carrosio, I margini al centro, cit., p. 10.
[7] Ibidem, cit., p. 30.
[8] Ibidem, cit., p. 37.
[9] Ibidem, cit., p. 5.
[10] Questa questione necessiterebbe di una trattazione molto più approfondita e complessa, e difatti Giovanni Carrosio ne è ben consapevole, dedicandovi buona parte della descrizione della terza crisi.
[11] Ibidem, cit., p. 59.
[12] Ibidem, cit., p. 60.
[13] Idem.
[14] Ibidem, cit., p. 3 e segg.
[15] Ibidem, cit., p. 4.
[16] G. Carrosio, I margini al centro, cit., p. 115.
[17] Si tratta di esempi la cui innovazione principale è la collaborazione tra enti locali e privati al fine di promuovere percorsi di auto-sviluppo delle comunità. È il caso della piemontese Valle Maira, dove è presente da secoli una consapevolezza dell’utilizzo dell’acqua come strumento per lo sviluppo locale. Scrive Carrosio: «La costituzione della società a capitale misto Maira S.p.a. ha permesso di destinare i proventi della vendita di energia per finanziare servizi e sviluppo. È stato finanziato un pullmino per il trasporto casa-scuola dei bambini, è stato restaurato un rifugio per fare ospitalità, viene venduta l’energia a prezzi calmierati a tutti gli edifici pubblici e a vocazione sociale. Su questa strada gli amministratori locali intendono perseguire obiettivi di sviluppo, legando la produzione di energia al miglioramento dei servizi alla popolazione e alla loro sostenibilità finanziaria». Ibidem, cit., pp. 93-94.
[18] Ibidem, p. 148.
[19] Cfr. L. Martinelli, Quei laboratori sociali che fanno saltare i confini, in «Il Manifesto», 19 marzo 2019.
[20] G. Carrosio, L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione, intervista a «Scaffale lavoro» del 18 aprile 2019.
[21] Ibidem, cit., p. 5.
[22] http://www.areefragili.it/