Scritto da Federico Rossi
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Il nuovo anno in Marocco è iniziato con uno sciopero generale dei dipendenti pubblici, che si è andato ad aggiungere alla già numerose proteste, con conformazioni anche molto eterogene fra loro, scoppiate in varie località del Paese. In un certo senso si potrebbe dire che il 2019 sia iniziato per Rabat esattamente come si sono aperti e chiusi gli ultimi tre anni: con una nuova ondata di manifestazioni e nuove istanze disattese dall’esecutivo marocchino, ormai incalzato su più fronti dalle contestazioni di piazza.
Le ultime città che nello scorso anno avevano visto crescere il malcontento erano state Jerada e Zagora, rispettivamente situate nella regione Orientale e di Draâ-Tafilalet, che si sono aggiunte alle manifestazioni continue che, a partire dal 2016, vedono protagonista il Rif. Si tratta però solo di alcuni dei maggiori esempi di una protesta politica sempre più diffusa, che fin dal 2011 è ormai diventata una costante della politica marocchina, pur cambiando molto la propria natura nel tempo e nello spazio.
Nel contesto delle sollevazioni generali avvenute nel 2011 in quasi tutto il mondo arabo il Marocco aveva infatti in un certo senso rappresentato un’eccezione, sia di contesto che di risultato. Le manifestazioni si erano infatti sviluppate all’interno di una delle poche società democratiche della zona e si erano concluse con un referendum costituzionale che aveva accolto parte delle richieste della piazza. Nel corso di questi eventi inoltre non era stata mai davvero messa in discussione la monarchia alawide, strettamente legata anche ad una serie di aspetti religiosi, quanto piuttosto la preponderanza politica del re sul governo e la conseguente lontananza di quest’ultimo dalle richieste della popolazione.
Prima della riforma costituzionale il re possedeva infatti un potere in teoria pienamente discrezionale nella scelta del primo ministro e del governo e aveva dato vita negli anni a esecutivi retti soprattutto da tecnici vicini alla monarchia. Una quota rilevante del governo era stata poi riservata al Rassemblement National des Indépendants (RNI), un partito filomonarchico fondato nel 1978 dall’ex primo ministro e cognato del re Hassan II, Ahmed Osman.
L’unico contrappeso politico era in un certo senso rappresentato dalla cosiddetta Koutla, un ampio coalizione di partiti storici del Marocco, fra cui spiccavano soprattutto il Parti de l’Istiqlal (PI), la storica formazione dell’indipendenza marocchina, l’Union Socialiste des Forces Populaires (USFP), nata da una scissione dallo stesso PI e collocata su posizione meno conservatrici, e il Parti du Progrès et du Socialisme (PPS). Tuttavia anche queste forze avevano ripetutamente preso parte negli esecutivi formati dal re e avevano finito in parte per rappresentare l’immobilismo della classe politica marocchina.
Nel giugno 2011 le istanze dei manifestanti sembrarono quindi trovare una certa soddisfazione nel referendum costituzionale. Le novità principali erano essenzialmente due: veniva creato un legame stretto fra il risultato delle elezioni e il capo di governo, stabilendo che il re avrebbe dovuto scegliere il primo ministro nel partito principale della maggioranza parlamentare, e si riconoscevano in Costituzione le minoranze linguistiche amazigh e hassaniya.
Il Marocco nelle due grandi stagioni di protesta: il 2011 e il 2016
La portata di questi cambiamenti deve comunque essere ridimensionata alla luce anche di quello che non è stato invece toccato dalla revisione costituzionale, fra cui spicca ad esempio il potere regio di emanare decreti senza l’approvazione parlamentare. Inoltre il riconoscimento della lingua hassaniya, formalmente il dialetto arabo delle popolazioni saharawi del Sahara Occidentale, non ha realmente accolto in pieno le richieste di quello che è stato un vero e proprio “altro 2011”, caratterizzato da richieste ben diverse e partito da El Aayun, la capitale ufficiosa della regione meridionale contesa fra Rabat e le forze indipendentiste del Fronte Polisario.
Ad ogni modo comunque gli effetti della riforma costituzionale sono stati lo stesso evidenti subito dopo le elezioni del novembre 2011, vinte dal Parti de la Justice et du Développement (PJD), una formazione islamista moderata che, nonostante i buoni risultati elettorali, era rimasta a lungo esclusa dal governo per il suo rapporto di latente conflitto con la monarchia. Abdel-Ilah Benkirane, leader della formazione e convinto sostenitore della cosiddetta “democrazia islamica”, è stato quindi nominato dal re a capo di un governo comunque di coalizione, in cui confluirono comunque anche alcune forze politiche della Koutla, e il Mouvement Populaire (MP), una formazione berberista di centro-destra.
Anche il ruolo di principale opposizione è stato assunto da un’altra forza politica emergente e relativamente nuova, nata dalla fusione di altri più piccoli movimenti, il Parti authenticité et modernité (PAM). Questa formazione si presenta come un partito di orientamento modernista e liberale, ma comunque vicino alla monarchia, come dimostra la vicenda del suo fondatore, Fouad El Himma, diventato consigliere personale del re un mese dopo le elezioni, ed è riuscita ad intercettare una buona parte dell’elettorato giovanile, sfruttando le debolezze del governo Benkirane e dei suoi alleati. Il nuovo primo ministro infatti, indebolito dall’eterogeneità della sua maggioranza, ha cercato di tenere quanto più possibile una posizione intermedia, oscillando fra un passivo conformismo alle scelte della monarchia e un dissenso sotterraneo, tenuto a freno soprattutto dopo l’uscita del PI dal governo, che ha costretto Benkirane ad accettare l’ingresso del RNI per mantenere l’incarico.
Le proteste del 2016 nel Rif si inseriscono proprio in questo mutato e precario contesto politico e scoppiano sul pretesto della morte di Mohcine Fikri, un pescivendolo di Al Hoceima, uno dei centri principali della regione, che, dopo la confisca della sua merce da parte delle forze di polizia, era finito schiacciato da un compattatore di rifiuti mentre tentava di recuperarla. In breve tempo questo fatto di cronaca fu trasformato nel simbolo del disinteresse di Rabat per lo sviluppo del Rif, la regione a maggioranza berbera fra le più colpite dalla disoccupazione e allo stesso tempo fra le meno interessate dai piani di investimenti nazionali, ridando vigore alla protesta sociale.
Grandi manifestazioni furono organizzate soprattutto sulla spinta del neonato Hirak Rif, di cui uno dei principali leader, Nasser Zefzafi, è stato recentemente condannato a 20 anni di carcere proprio per aver guidato la nuova ondata di dissenso. Nonostante alcuni tratti in comune tuttavia, le differenze fra questi sollevamenti e quelli del 2011 appaiono fin da subito evidenti già a partire dal tipo di rivendicazioni. La dialettica di Hirak Rif si è infatti indirizzata soprattutto al “blocco economico” di cui soffre la regione, chiedendo un maggiore sforzo sul piano dello sviluppo tramite la creazione di nuovi posti di lavoro, l’estensione delle infrastrutture e la creazione di un’università nella regione.
Un altro punto non trascurabile ha riguardato poi il dibattito attorno all’alto numero di casi di cancro registrati nella zona, da cui deriva la richiesta di costruzione di un centro oncologico ad Al Hoceima e di riconoscimento del legame fra l’incidenza di queste malattie e l’uso del “gas mostarda” nella guerra del 1921-26. Più complesso è invece il rapporto con il movimento secessionista, talvolta presente in alcune manifestazioni: se da un lato nelle piazze spesso si sono visti i simboli dell’effimera Repubblica del Rif, soppressa appunto nel 1926 e simbolo dell’indipendenza della regione, dall’altro il peso degli autonomisti è stato comunque marginale, anche se il governo e gli indipendentisti stessi hanno provato, per ragioni opposte, a sostenere il contrario.
Se le proteste del 2011 avevano preso la forma essenzialmente di una contestazione dell’assetto politico, quelle del 2016 si distinguono per il carattere socio-economico delle rivendicazioni, portando alla luce quindi un insieme di problematiche a lungo sopite e legate prevalentemente al modello di sviluppo marocchino. Negli anni infatti, a fronte di una crescita vertiginosa delle regioni atlantiche e più urbanizzate sulla spinta del turismo e degli investimenti infrastrutturali, si è assistito anche alla stagnazione di alcune regioni periferiche, spesso tralasciate dai piani di intervento governativi.
Su una simile base sono da leggere anche le proteste scoppiate alla fine del 2017 e poi protrattesi per gran parte del 2018 a Jerada, città ex mineraria e deindustrializzata della regione Orientale. Anche qui le manifestazioni si sono originate a partire da un fatto di cronaca, comunque esemplificativo della situazione sociale della provincia, che ha dato inizio all’ondata di scioperi. La scintilla è stata infatti la morte di due fratelli in un pozzo dismesso di estrazione di carbone, dove i due si trovavano dopo la sua riapertura clandestina. Il governo anche in questo caso aveva risposto con una strategia simile a quella impiegata per il Rif, arrestando gli esponenti principali della protesta ed elaborando poi un piano di sviluppo economico d’urgenza, che tuttavia sembra non aver soddisfatto pienamente i manifestanti.
Il ruolo dei partiti e della monarchia
In questo contesto politico ogni formazione politica ha tentato di cavalcare il dissenso popolare in modo diverso. Il PJD ha puntato prevalentemente sulla sua legittimazione democratica a governare derivata dalle elezioni e, in concomitanza con le elezioni del 2016, ha ricominciato a parlare dell’egemonia del re sulla vita politica. Il PAM dall’altro lato ha cercato di ritrarre il suo avversario come una formazione anti-democratica e ostile al progresso necessario al paese, assumendo un ruolo strategico fra il favore verso il re e l’opposizione al governo, che lo ha premiato proprio in quelle regioni dove il dissenso era più forte ed espressione delle fasce più giovani.
Infine i partiti tradizionali hanno cercato di cambiare la propria pelle con risultati alterni. Dopo il passaggio all’opposizione il PI, indebolito dagli scontri fra le correnti, ha cercato di mutare in parte la sua retorica, intercettando soprattutto il voto degli immigrati marocchini nelle regioni meridionali del Sahara Occidentale. Il RNI dall’altro lato ha cercato di contendere al PAM il modernismo e la difesa della democrazia, ma la sua posizione all’interno del governo e nel novero dei vecchi partiti gli ha impedito di risollevarsi davvero.
In mezzo al conflitto politico sembra invece resistere la monarchia di Muhammad VI. Egli è infatti riuscito a imporsi con un ruolo di arbitrato fra le forze politiche, uno “spettatore critico”, che si è progressivamente appropriato del lessico del cambiamento. Con questa legittimazione il re è riuscito a rappresentare sia le istanze dell’opposizione sia quelle del governo e, sfruttando la spinta del RNI interna all’esecutivo, ha potuto allontanare Benkirane, che era stato formalmente riconfermato alle elezioni del 2016.
Come nuovo primo ministro è stato scelto un altro esponente del PJD, Saadeddine El Othmani, già Ministro degli Esteri per due anni fino al 2013, che ha allargato la coalizione all’USFP e un altro partito di posizioni filomonarchiche, l’Union constitutionnelle (UC). Il nuovo esecutivo ha inoltre cercato fin da subito di far fronte alle richieste delle nuove proteste, formulando una legge finanziaria fortemente concentrata sulle politiche sociali, che recupera anche la cosiddetta tassa di solidarietà sociale, l’imposta applicata alle grandi imprese che alimenta il Fondo di coesione sociale e il RAMED (Régime d’Assistance Médicale aux Èconomiquement Démunis).
Un altro terreno di scontro che si è sbloccato con l’avvicendamento ai vertici dell’esecutivo è stato poi quello della nuova legge contro la violenza sulle donne, che rappresenta un altro tassello del progetto di modernizzazione del paese iniziato dal re stesso nel 2003 con la riforma del codice di famiglia e che il PJD aveva tentato di ritardare. Alla fine, anche grazie alla spinta interna della ministra Bassima Hakkaoui, esponente del partito di maggioranza, il provvedimento è entrato in vigore, ma non ha soddisfatto i movimenti femministi marocchini, che sono comunque scesi in piazza e hanno manifestato soprattutto contro alcuni emendamenti che hanno ridimensionato molto le sanzioni previste per i colpevoli e l’accesso a meccanismi di protezione per le donne vittime di violenza.
L’inizio del 2019 ha inoltre dimostrato che anche le riforme sociali promosse dal governo Othmani non sono bastate a quietare la piazza e già il mese di gennaio ha visto una serie di scioperi di dipendenti pubblici, indetti dai principali sindacati marocchini, per protestare contro le condizioni di lavoro di molti di loro e il fallimento dei tentativi di intesa con il governo. Lo sciopero, che ha avuto una notevole risonanza, ha potuto diffondersi anche perché ha finito per saldarsi con una serie di rivendicazioni diverse, non solo a carattere locale, ma anche di categoria, come quelle degli insegnanti che fin dall’inizio dell’anno scolastico protestano per i salari troppo bassi.
Di fronte a queste pressioni la classe politica marocchina sembra incapace di fornire risposte nuove. Per quanto si caratterizzi come un paese in forte crescita, il Marocco sta infatti pagando il prezzo di uno sviluppo asimmetrico, che lascia fuori alcune zone e categorie. In piazza scendono infatti soprattutto gli abitanti delle regioni periferiche e i giovani le cui richieste, pur trovando in parte un appiglio politico nel PAM, sono spesso inascoltate. La crescita delle manifestazioni di piazza rispecchia proprio questa volontà di partecipazione di una parte della popolazione, che rimane esclusa dal dibattito politico e da una crescita economica concentrata geograficamente soprattutto alle regioni atlantiche e indirizzata ad alcuni settori, in primis quello turistico, a scapito di altri.
Inoltre, nonostante i cambiamenti politici avvenuti a partire dal 2011, la classe politica è ancora lontana dal riuscire a intercettare queste richieste e continua a riprodurre i vecchi schemi di potere, soprattutto a livello locale, spostando sempre più il confronto politico e l’espressione del dissenso verso le piazze. Allo stesso tempo però la frammentazione dello spazio pubblico marocchino impedisce un’unione delle proteste in un unico fronte, soprattutto a causa dell’eterogeneità e talvolta contraddittorietà delle rivendicazioni portate avanti dai vari movimenti.
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