“Materia rara” di Gianclaudio Torlizzi
- 04 Novembre 2022

“Materia rara” di Gianclaudio Torlizzi

Recensione a: Gianclaudio Torlizzi, Materia rara. Come la pandemia e il green deal hanno stravolto il mercato delle materie prime, prefazione di Lorenzo Castellani e postfazione di Giampiero Massolo, Guerini e Associati, Milano 2021, pp. 176, 19,50 euro (scheda libro)

Scritto da Alberto Prina Cerai

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Una delle numerose difficoltà nel provare a discernere l’attuale contesto globale è quella di mettere insieme diversi fattori, senza perdere di vista il contesto di riferimento. È un esercizio complesso, che richiede una profonda conoscenza delle dinamiche intrinseche ad un segmento di mercato – come quello che concerne le commodity o “materie prime” – e allo stesso tempo uno sguardo alle leggi, non scritte, della geopolitica internazionale. Perché le relazioni internazionali (si badi bene, l’intreccio fitto di interessi e rapporti di forza esistenti, non la disciplina “per se” che cerca di interpretarli) non sono facilmente inquadrabili in un diagramma o un grafico sui future dei prezzi del mercato spot del gas. E come queste si traducano, e vengono accolte, dai mercati spesso è possibile saperlo soltanto a crisi compiuta, come testimoniato dalla guerra in Ucraina che ha cambiato gli equilibri di sicurezza (e non solo) dell’Europa e di riflesso del mondo.

Ma forse qualcosa era già avvenuto ben prima che i tank russi varcassero il confine ucraino. Qualcosa che avrebbe finito per terremotare due dei pilastri della globalizzazione per come abbiamo imparato a conoscerla negli ultimi decenni: la stabilità delle catene di approvvigionamento e l’energia prodotta a basso prezzo. Secondo Gianclaudio Torlizzi, analista e fondatore della società T.Commodity, lo shock e il combinato disposto provocato dalla pandemia sulla prima e dell’implementazione dei piani climatici (entrambi accumunati da un imponente ricorso agli stimoli fiscali delle banche centrali mondiali) sulla seconda rischiano di aver dato il via ad un «quarto super ciclo» delle materie prime «destinato a mutare nel profondo il paradigma dell’economia mondiale» (p. 25). Un elemento di rottura rispetto al passato che avviene in un contesto geopolitico di profondo irrigidimento, dettato soprattutto dall’ormai serrata competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina che avrà impatti decisivi sulla struttura delle filiere commerciali e industriali globali.

Il vantaggio di recensire Materia rara a quasi un anno di distanza dall’uscita è un esercizio utile per ragionare sul presente senza perdere di vista il contesto. Ma andiamo con ordine. Il libro, uscito nel dicembre del 2021 all’apice della pandemia, ha sicuramente il merito di introdurre nel dibattito alcuni elementi che ritornano con forza in questi mesi complicati. Lo fa fotografando un contesto in rapido divenire ma proponendo una tesi che sembra trovare nello scorrere degli eventi la naturale prosecuzione della narrazione del libro: un filo logico e argomentativo molto saliente, che finisce per rafforzare le convinzioni dell’autore espresse nel saggio. Qui giacciono, a parere di chi scrive, due grandi meriti di questo volume. Il primo è di natura prettamente divulgativa: aver prestato il mestiere di analista al dibattito pubblico, rendendo certe dinamiche – di per sé terreno altamente specialistico – accessibili e comprensibili al lettore medio. Il secondo, molto più pertinente alla discussione in fieri sull’attuale crisi globale, è quello di aver avanzato una tesi (condivisibile o meno) netta e schietta. Ed è qui che si gioca l’equilibrio tra analisi e decision-making: perché “come” rispondere alla crisi una volta che si è individuato (e accolto) il nesso causa-conseguenza è una scelta fortemente politica che avrà, in ogni caso, profonde conseguenze economiche, sociali e geopolitiche.

L’interdipendenza che la globalizzazione ha contribuito a plasmare negli ultimi decenni ha portato con sé vantaggi economici. Il commercio internazionale è accelerato, stimolato dalla liberalizzazione dei mercati dei capitali e dal crollo delle barriere protezionistiche, tutelato dall’agency di istituzioni internazionali (WTO, FMI, Banca Mondiale) sorte alla fine della Seconda guerra mondiale e garantito dalla potenza egemonica, gli Stati Uniti. In parallelo, enormi progressi tecnologici hanno contribuito ad abbattere i costi di trasporto e comunicazione, rendendo l’accesso al mercato globale un’opportunità per Paesi un tempo al di fuori dell’economia-mondo e un utile strumento per le imprese per abbattere i costi tramite economie di scala e catturare i benefici del vantaggio comparato. Tuttavia, evidenti disuguaglianze intra e interregionali sono sorte per via di una crescente finanziarizzazione dell’economia, per l’ascesa di colossi multinazionali che hanno internalizzato i profitti ed esternalizzato i costi (sociali e ambientali) per perseguire un credo (il modello just-in-time) che ha plasmato intere generazioni di manager. Questo ordine economico globale, sostenuto da un ordine politico di matrice euro-atlantica (il cosiddetto “ordine liberale internazionale”), ha sostenuto una crescita senza precedenti del settore secondario e terziario, entrambi travolti dalla rivoluzione digitale. Ma a discapito della sottovalutazione delle leadership politiche occidentali dell’importanza delle materie prime, alla luce di una transizione – quella green-tech – tanto invocata quanto sottovalutata nello sconvolgere le basi materiali stesse della globalizzazione.

A differenza dell’industria e dei servizi, che possono teoricamente essere localizzati ovunque sul pianeta, la geografia delle commodity non ha goduto della stessa flessibilità che la globalizzazione ha garantito alle prime due. Infatti, lo sfruttamento delle risorse naturali – siano esse minerarie, energetiche o agricole – che rimane essenziale anche nell’epoca globale è rimasto molto legato alla disponibilità e accessibilità del territorio fisico, mentre i desideri delle nostre società sono cresciuti a dismisura. E anche se i progressi tecnologici hanno contribuito a scardinare questo “determinismo geologico” (pensiamo allo shale oil americano), le materie prime rimangono risorse geograficamente fisse, che possono diventare riserve teoricamente mobili a determinate condizioni di mercato. Ed è qui che il banco è saltato, dal momento che le leggi del secondo sembrano non più essere garanzia di un afflusso costante e a prezzi bassi delle prime, con conseguenze economiche che sono sotto gli occhi di tutti. A rilevare questo squilibrio, i prezzi naturalmente. Ma quanto dicono, realmente, della disponibilità degli stock attuali? Quanto riflettono le aspettative del mercato sulle incertezze presenti e future, siano le tensioni geopolitiche o i colli di bottiglia logistici, o le più o meno certezze sull’implementazione dei piani climatici?

Quello che è certo è che «dal rame al petrolio, passando per il minerale di ferro e il caffè, le percentuali di crescita» delle commodity dall’inizio della pandemia in avanti «sono arrivate anche a tre cifre percentuali, toccando in alcuni casi livelli record di prezzo, e alimentando in questo modo la tesi dell’inizio di un vero e proprio super-ciclo, ovverosia un periodo protratto di crescita della domanda, così intenso da rendere i produttori incapaci di soddisfare la richiesta». Ma come siamo arrivati a ciò? Da un lato, ritiene Torlizzi, la conclusione del terzo super-ciclo – quello inaugurato dall’ascesa industriale della Cina, grande importatrice e consumatrice di materie prime – con il crollo dei prezzi del petrolio e la stagione dell’austerity fiscale in seguito alla crisi finanziaria del 2008 hanno reso poco attraenti nuovi e corposi investimenti negli stadi estrattivi e di raffinazione, creando le condizioni per un restringimento dell’offerta. Dall’altro, l’impetuosa implementazione di stimoli fiscali per supportare la ripresa economica dopo il dramma della pandemia a livello globale (circa 32 trilioni di dollari!), hanno invece immesso grandissime quantità di moneta, gettando le basi per un surriscaldamento dell’economia. Nell’ottica delle banche centrali, come la FED e la BCE, queste misure avrebbero dovuto sostenere la ripresa ma, argomenta l’autore, in realtà contenevano una serie di errori di valutazione. Intanto, sulla natura stessa del problema che, a mano a mano che venivano rimossi i lockdown e le attività industriali riprendevano il loro corso (con l’eccezione della politica “zero-covid” e delle chiusure selettive in Cina, non senza conseguenze), incominciava a palesarsi con una crescente inflazione, bollata troppo frettolosamente come fenomeno transitorio. Eppure «quando un’esplosione di crescita dell’offerta di moneta», scrive Torlizzi, «si combina con l’accelerazione della ripresa economica» è dunque inevitabile che la «performance delle materie prime [sia] invariabilmente forte». Un boom dei consumi – che traina anche il settore dell’elettronica e delle apparecchiature digitali, in linea con le necessità del lavoro da remoto e che induce i maggiori produttori di semiconduttori (a cui è dedicato un’interessante capitolo verso la fine del volume) a prioritizzare gli ordinativi dai colossi informatici, a scapito del settore automobilistico per via del “premio” su contratti a lungo termine – ben aldilà delle capacità dell’offerta di stare al passo, soprattutto stante le condizioni di forte stress delle filiere dovuto ai maggiori costi logistici e alle incertezze dello shipping asiatico. Uno sfasamento temporale e sanitario che per la prima volta rende palese le esistenti striature e discontinuità di un sistema globale che si pensava piatto e uniforme.

Ma è nelle scelte politiche che si devono soppesare costi e benefici, a breve e a lungo termine. In questo senso, il Capitolo 3 e il Capitolo 4 offrono una panoramica chiara per capire i fondamentali del mondo che verrà. Perché, secondo l’autore, «saranno proprio le politiche di contenimento delle emissioni di CO2 a contribuire a rendere il quadro dell’offerta di materia prima ancora più tesa negli anni a venire» (p. 71). L’ambiziosa e a tratti «zelante» politica climatica dell’Unione Europea (Green Deal), annunciata poco prima dello scoppio della pandemia, ha infatti provocato una scossa inedita sui mercati, dal momento che gli operatori del settore Oil&Gas, e più in generale i mercati, sono entrati in un’ottica di aspettative su più altri prezzi della CO2 (perlomeno nel mercato europeo e nordamericano, dove le transazioni sono più sofisticate e regolamentate rispetto alle giurisdizioni asiatiche) e di graduale penetrazione nel mix energetico delle tecnologie rinnovabili (solare, eolico), oltre alla rivoluzione elettrica del settore automotive. Quello che è stato fortemente sottovalutato è l’impatto dell’implementazione dei «piani climatici che sia sul fronte della mitigazione (che verrà perseguito attraverso il processo di elettrificazione e riduzione dell’estrazione e raffinazione di petrolio) sia su quello dell’adattamento (attraverso la costruzione di infrastrutture) comporteranno un notevole aumento dei consumi di materia prima» (p. 25). E questo cambio di paradigma economico globale, se non accompagnato da investimenti sul lato dell’offerta, potrà scatenare un trend rialzista strutturale di breve-medio periodo, con ricadute sociali mai sperimentate prima e una riorganizzazione delle catene del valore in nome della sicurezza, della ridondanza e in generale di priorità strategiche che vedranno lo Stato come il principale fautore.

Quello che è un po’ il leitmotiv del libro, e che trova riscontri anche nelle dinamiche più recenti, è che l’andamento inflazionistico attuale sia da ricondurre ad una “crisi di offerta” che percorre trasversalmente i mercati globali delle commodity, alimentata da squilibri regionali sempre più evidenti. Da una carenza di carbone in Cina, che ha spinto gli operatori cinesi ad entrare in concorrenza per l’approvvigionamento di gas naturale liquefatto (GNL), fino alle conseguenze nefaste dell’invasione russa dell’Ucraina. In particolare, la manipolazione di Mosca dei flussi di gas all’Europa ha reso le prospettive di diversificazione europea nel contesto globale particolarmente problematiche. La crescente richiesta di gas dell’Europa, fotografata dall’aumento delle contrattazioni sui mercati spot, avrebbe in qualche modo spiazzato il fornitore russo (Gazprom in primis), abituato a partnership ben più a lungo termine e comunque costruite in contesto storico e geopolitico ormai sgretolatosi. Con il risultato, nefasto, di aver anteposto con scarsa lungimiranza da parte delle leadership europee – e in particolare, quella tedesca – «il concetto di convenienza del prezzo a quello ben più strategico dell’energy security, additando Mosca come colpevole» per mascherare il fallimento del dossier energia (p. 77). Se il modello “energia a basso costo-esportazioni” ha tenuto in un contesto di sovra-offerta di gas che ha gradualmente preso piede nel mix di generazione elettrica europea, i presupposti sono venuti meno con la tempesta perfetta della pandemia, dell’aumento dei prezzi della CO2 – su cui l’Europa ha costruito una battaglia diplomatica per ergersi a “modello regolatorio” da esportare nel mondo – e della crisi del gas, dal momento che difficilmente solo gli approvvigionamenti difficoltosi di GNL (che richiedono infrastrutture e investimenti) potranno calmierare i prezzi a fronte della “geopolitica dei gasdotti”. Che fare? Alcuni spunti su idrogeno e nucleare alla fine del Capitolo 4 suggeriscono soluzioni nel medio-lungo termine, tuttavia impraticabili senza un contesto economico e politico favorevole. Resta evidente che nel contesto della transizione industriale in corso «chi potrà contare su una fornitura costante di energia potrà godere di un migliore standing geostrategico» (p. 100).

In sostanza, trapela dal libro la convinzione dell’autore che aver sbandierato politicamente di volersi affrancare dai fossili senza prima aver preso le giuste contromisure – diversificazione dell’offerta corrente, maggior presidio delle nuove tecnologie low-carbon e non ultimo coesione multilaterale sulle politiche climatiche, senza la presunzione di imporle a contesti regionali in rapido sviluppo – si sia dimostrata una scelta, in un’ottica strategica, sbagliata.

A parere di chi scrive, il giudizio è condivisibile se si intende la discrasia che esiste tra l’ambizione (net-zero 2050) e il connubio tra “mezzi” e “contesto globale”. Se la tesi per cui il super-ciclo rialzista delle materie prime, provocato principalmente dal Green Deal, si protrarrà a lungo è evidente che le politiche di decarbonizzazione perseguite dall’Unione Europea dovranno per forza confrontarsi con la realtà dei fatti. Dicasi, in primo luogo, gli impatti sull’economia reale, sulla tenuta del tessuto industriale europeo e dunque sull’accettabilità politica dei costi della transizione. I record dei prezzi dell’elettricità ci raccontano proprio questo, e il ricorso a soluzioni in ambito UE, o meno, ci diranno molto di come il progetto comunitario reggerà la prova dell’energia. Secondariamente, un aspetto diventato ai più familiare negli ultimi anni, ovvero quello che Torlizzi riassume nel Capitolo 5 come i «rischi geopolitici legati all’elettrificazione».

Questi sono riassumibili in due grandi trend. Il primo, e che è trasversale anche ad altri settori come quello dei semiconduttori approfondito nel Capitolo 5, è quello legato al decoupling, ovvero il disaccoppiamento delle filiere produttive per ragioni plurime: dal supply risk legato ai riverberi del Covid-19 e alla crescente competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina, fino al tracciamento dei materiali per questioni finanziarie e ambientali (i cosiddetti criteri ESG). È ancora difficile stabilire quale sarà l’impatto sui costi per i produttori e, di converso, sui consumatori finali considerando anche il difficile contesto energetico delineato in precedenza. Insomma, la geografia della produzione seguirà anche un attento assessment di questi rischi. Il secondo trend è quello legato alla transizione da un’economia dei fossili a quella dei metalli rari. Litio, terre rare, grafite, cobalto, nickel, manganese, gallio, germanio. Una lunga lista di “materie prime critiche” – così definite per i rischi di cui prima e per l’importanza industriale in settori emergenti, principalmente tecnologie rinnovabili, mobilità elettrica e infrastrutture digitali – su cui già gravano preoccupazioni per il dominio di Pechino su ampie fette della catena di fornitura (dalle miniere fino agli stadi di trasformazione ad alto valore aggiunto). Ironia della sorte, in questo nuovo scenario Mosca sembra comunque rimanere un importante ago della bilancia per Torlizzi: perché se l’ambizione degli Stati Uniti, ma soprattutto dell’Unione Europea, è quella di evitare che la Cina resti la “fabbrica” del Green Deal con interventi mirati sulla diversificazione delle forniture (leggasi friendshoring, tra Canada, Australia, nearshoring in Africa e Artico) e di maggior presenza industriale nei settori emergenti, «la stretta correlazione tra il prezzo delle emissioni di CO2 e il gas naturale maturata con lo sviluppo del piano UE sul clima accrescerà ulteriormente lo status di Mosca, che da semplice (benché importate) fornitore di gas per il mercato europeo diventerà anche il deus ex machina del mercato delle emissioni da cui dipende la competitività del settore manifatturiero europeo» (p. 130). Presente, come di recente dimostrato dai segnali preoccupanti di varie associazioni industriali europee, ma anche del futuro. Ecco perché la tesi di un asse strategico Mosca-Pechino, come centro gravitazionale di un blocco contrapposto all’Occidente e regia di una weaponization delle materie prime per scalfirne l’egemonia, è tutt’altro che da escludere. In quest’ottica la crisi energetica sarebbe la prima linea di un vero e proprio assedio industriale.

Tuttavia, e in conclusione, i drammi climatici più recenti ci ricordano come la transizione energetica porti con sé costi ormai difficilmente derogabili, soprattutto se commisurati con quelli futuri, e sempre più probabili, dovuti alla crisi climatica e quelli a medio termine di una comprensibile volontà «di dotare al più presto l’area euro di un sistema di approvvigionamento energetico meno dipendente dai fossili». Due vulnus resteranno da affrontare, con il rischio di influenzarsi negativamente a vicenda: senza un impegno politico e multilaterale sulla decarbonizzazione, difficilmente gli operatori calibreranno gli investimenti minerari necessari ad aumentare l’offerta di materie prime. Allo stesso tempo, come chiosa con buona dose di pragmatismo Torlizzi, «perseguire una politica tanto rivoluzionaria» sul piano energetico rischia di «produrre un effetto rigetto dell’opinione pubblica […] nei confronti del green» (p. 158). Un segnale evidente che de-politicizzare la transizione energetica rischia di ottenere un effetto boomerang, tanto per il deficit democratico quanto per quello strategico rispetto alle sfide molteplici ben delineate nelle pagine di questo saggio.

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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