Mettere a distanza il mondo: per i cento anni di Italo Calvino
- 30 Ottobre 2023

Mettere a distanza il mondo: per i cento anni di Italo Calvino

Scritto da Riccardo Gasperina Geroni

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Nell’ottobre 2023 ricorre il centenario di Italo Calvino, nato il 15 ottobre 1923. Nell’occasione pubblichiamo un contributo di Riccardo Gasperina Geroni che riflette sull’attualità della figura di Calvino.


Quando si discorre di letteratura con gli studenti, la domanda a cui più capita di dover con imbarazzo dare risposta è: che cosa ci dice oggi questo testo o questo autore? Qualche giorno fa, in un’aula universitaria di via Zamboni, a Bologna, i miei studenti mi hanno rivolto la temuta sollecitazione: cui prodest? È in fondo una richiesta legittima che spinge anche noi critici e studiosi di storia della letteratura a interrogarci intorno alle sorti non solo di un’opera letteraria, ma di un intero sistema di pensiero che investe valori, ideali e prospettive circoscritti nel tempo. Nel caso particolare di quella lezione, stavo concludendo la lettura del primo romanzo di Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno (1947). Proprio in queste settimane, mentre infuria l’ennesima guerra e i carrarmati di Israele invadono la striscia di Gaza, ricorre il centenario della nascita dello scrittore di origine ligure, ma nato a Cuba. Si rincorrono i convegni e una bella mostra, Favoloso Calvino, è stata inaugurata alle Scuderie del Quirinale a Roma.

L’ideatore di Pin, di Cosimo e di Palomar è uno degli autori più studiati e frequentati del nostro Novecento. Eppure, a quella domanda fatta dai miei studenti, non sono ancora riuscito a rispondere con adeguatezza. Ho preso tempo. Cosa dice oggi a noi studiosi, agli studenti e ai lettori Italo Calvino (1923-1985)? Tra i suoi volumi più noti, Le lezioni americane uscirono nel 1988, dopo che la prematura scomparsa gli aveva impedito di tenere le sei conferenze per le quali era stato invitato dall’Università di Harvard. Si trattava di sei lezioni sul nuovo millennio: Six memos for the next Millennium. All’atto della pubblicazione, l’opera ebbe un incredibile successo di pubblico, anche perché diede il via a un ampio dibattito nell’opinione pubblica italiana sul lascito che il Novecento avrebbe gettato sulle spalle del nascituro gigante millenario. Calvino in quelle «lezioni americane», come le chiamava l’amico Pietro Citati, identificò alcuni elementi utili a leggere la nuova letteratura, e di conseguenza il mondo che stava allora timidamente affacciandosi, e che ora è compiutamente dispiegato. Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità sarebbero stati – era questa la scommessa – i principi alla base dell’immediato futuro, anche alla luce della svolta digitale di cui negli anni Ottanta si scorgevano le prime avvisaglie.

Nelle righe finali di Molteplicità, una delle ultime cose che scrisse in assoluto, Calvino confessava la speranza di poter concepire un’opera «al di fuori del self». Cioè un’opera che insomma permettesse di uscire dalla ristretta e miope prospettiva di un io individuale, e aprisse l’orizzonte non solo ad altri io simili a noi, ma all’alterità più radicale, «per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…». Pensate, l’ultimo Calvino confidava nella possibilità di scrivere un’opera con una prospettiva per nulla antropocentrica… insomma come sarebbe possibile vedere il mondo assumendo la prospettiva, ad esempio, della plastica o di un uccello?

Non è però questa una boutade, egli non era un uomo avvezzo allo scherzo. Anzi. Io credo che non si fatichi a utilizzare questo suggerimento postremo per leggere con profitto, e a ritroso, anche il suo primo romanzo, nato all’indomani della più cruenta delle guerre che l’umanità abbia sinora conosciuto. Calvino arrivò al genere del romanzo, dopo aver scritto alcuni racconti ispirati agli eventi della Resistenza, cui aveva preso parte. Non ne era del tutto soddisfatto, approdò alla forma romanzesca, più appetibile sotto il profilo meramente commerciale, perché fu convinto a cimentarvisi dai redattori della casa editrice Einaudi. In pochi mesi, alla fine del 1946, buttò giù però, quasi tutto d’un fiato, il Sentiero dei nidi di ragno, un’opera dedicata a un “monello” costretto a misurarsi con l’abnormità della guerra e l’incomprensibilità del mondo adulto.

Uno dei primi lettori fu Cesare Pavese che ne registrò subito i due elementi principali. Il Sentiero era ai suoi occhi un libro incentrato sul «mondo bestiale dell’amore e ferino della guerra». E difatti Pin è un bambino che non piace ai suoi coetanei, proprio perché racconta storie di uomini che si fanno la guerra, e di uomini e donne che fanno sesso; e spesso non comprende quanto va dicendo e quindi farcisce le sue storie di elementi incomprensibili carpiti magari a qualche adulto. Ma non basta. Il sesso e la guerra vengono sottoposti a un processo di abbassamento, cioè non sono visti per quello che sono in realtà, ma sono osservati con gli occhi stranianti del protagonista. È lui il punto focale della storia, ed è attraverso di lui che Calvino mise in atto quel principio di distanziamento di cui avrebbe poi parlato in Molteplicità.

Tinteggiare di fiabesco il mondo partigiano permise all’autore di prendersi qualche licenza sulla Resistenza e, come avrebbe poi spiegato lui stesso nella Prefazione al Sentiero del 1964, di scongiurare il rischio di un’agiografia partigiana. Dopo aver rubato una P38 al marinaio tedesco che fa sesso con sua sorella, la Nera di Caruggio Lungo, Pin sotterra l’arma che nelle sue mani appare «grande» e «misteriosa» nel sentiero dove i ragni costruiscono nidi con le porticine che si aprono e si chiudono. (Calvino ebbe sempre un gusto spiccato per le miniature, come dimostrò poi con Le città invisibili). E dopo esser tornato a casa, viene arrestato e finisce in prigione. Lì incontra il partigiano Lupo Rosso, con il quale riuscirà a evadere per prendere la via della montagna, in compagnia di un secondo partigiano, truce e solitario questo, che si fa chiamare Cugino. Infine, entra a far parte del distaccamento del Dritto, che non è un comandante tutto d’un pezzo come ci si aspetterebbe. Anzi, è molto sensibile alle lusinghe della carne, al punto da disertare il combattimento finale contro i soldati nazisti, per fare l’amore con la moglie del cuoco.

Nel nono capitolo, il commissario Kim e il comandante Ferriera fanno visita al distaccamento, in preparazione dello scontro. E qui Calvino si allontana per la prima volta dalla prospettiva del personaggio monello, e ci mostra la storia con altri occhi: quelli di un giovane studente di medicina, futuro psichiatra. È un cambio di prospettiva non da poco, che all’epoca suscitò diverse critiche, perché introduce un punto di vista ideologico e maturo, dietro il quale non tardiamo a riconoscere alcune idee proprie dello stesso autore. Kim è convinto che ogni uomo sia attraversato da una forma di furore – termine che Calvino desunse dal libro-manifesto della generazione a lui precedente, Conversazione in Sicilia. In Vittorini gli «astratti furori», opposti agli «eroici furori», indicavano la profondità della ferita prodotta dalla guerra civile spagnola e, con essa, l’ampiezza della delusione per la svolta borghese del fascismo delle origini. Nel Sentiero il furore è invece ciò che spinge a combattere, e ognuno ha le sue buone ragioni per farlo: i contadini lottano per i loro campi bestie e paesi, gli operai per un mondo futuro senza padroni, gli intellettuali e gli studenti per riscoprire parole che risemantizzino il presente.

Ferriera è un comunista, e non può non sentirsi turbato per le parole del commissario che ha ritenuto di radunare nel distaccamento del Dritto uomini privi di coscienza di classe e una benché minima cognizione delle motivazioni della lotta. Per questo, lo sollecita e gli chiede polemicamente quale sia allora, se è vero che tutti sono accomunati dal medesimo furore, la distinzione tra partigiani e fascisti. Kim risponde imbastendo un discorso complesso che intreccia diverse correnti interne al marxismo novecentesco, con esplicite inflessioni all’esistenzialismo di Sartre, nel cui pensiero Calvino rintracciava un materialismo non deterministico, ma consapevole dell’importanza del dato umano. I partigiani allora non lottano per nulla, le loro azioni non sono destinante all’oblio. Nella più generale e millenaria guerra che distingue gli oppressi dagli oppressori, essi hanno il privilegio di rivendicare una posizione morale, quella di aver combattuto per il solo fine di riacquistare la libertà, di vincere l’oppressore. Si è parlato, a questo proposito, di «storicismo molecolare», e in effetti c’è una teleologia nel primo Calvino che orienta e giustifica le ragioni della lotta.

Nei capitoli successivi, Pin è costretto a tornare a casa, il distaccamento viene sciolto e il Dritto arrestato, forse fucilato. Dopo un breve saluto alla sorella, Pin riprende il viaggio in compagnia di Cugino, che nel frattempo però vendica tre compagni traditi. E lo fa uccidendo la responsabile della delazione, cioè proprio la sorella di Pin, la Nera di Caruggio Lungo. Nelle ultime pagine, Cugino cammina con l’inconsapevole Pin, mano nella mano. È la mano di chi lo protegge e insieme lo ha reso solo per sempre. Le righe conclusive ritornano sul problema della prospettiva con cui si osservano i fatti e le vicende umane. Di fronte allo spettacolo di alcune lucciole, il bambino e l’adulto convengono sul fatto che da lontano esse siano belle, ma da vicino «bestie schifose».

Un decennio più tardi, Cesare Cases scrisse un saggio alla luce di questo illuminante finale. Il testo è contenuto in Patrie lettere e si intitola Calvino e il pathos della distanza. Cases identificò in quello scambio di battute la condizione dell’intellettuale e in ultima analisi la ferita stessa di Calvino. Le lucciole, come la vita degli uomini, sono belle solo a patto di essere osservate con distacco, ma il distacco implica solitudine. La stessa che Pin prova, non compreso dalla comunità di coetanei ed estraneo al contempo alle logiche del mondo adulto, cui tuttavia ambisce. Per Nietzsche, che ne coniò l’espressione, il «pathos della distanza» fu simbolo d’elezione, orgogliosa separatezza, quella dell’aquila che guarda di lontano la terra. Anche Calvino, fu Pavese a notarlo commentando il Sentiero, si pone nelle sue storie a una certa distanza dai personaggi e dagli eventi storici per narrarli, come uno «scoiattolo della penna», salito sugli alberi. Il suo distanziamento, però, risulta funzionale non a uno sguardo altezzoso sulle cose, ma a una maggiore possibilità di conoscenza. D’altro canto, accelerando sul fiabesco, l’autore impostò l’intera vicenda di un suo altro protagonista sulla distanza. È la storia del Conte Cosimo di Rondò, Il barone rampante (1958), che decide di vivere sugli alberi, isolato dagli uomini, ma acquisendo una maggiore consapevolezza si rende conto «che per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri». E questo produce non una perdita, ma un guadagno.

Altri potrebbero essere gli esempi delle forme di straniamento adottate da Calvino, ma mi fermo qui. Il quadro è sufficientemente chiaro per cogliere una delle lezioni che, forse, a cento anni di distanza dalla sua nascita, è senz’altro d’aiuto anche per il presente. Proviamo a fare questo esercizio. Immaginiamo di poter osservare, come il personaggio di una Cosmicomica, un nuovo Qfwfq, da molto lontano il pianeta terra, di vederne con un telescopio le ampie distese e le imponenti catene montuose, e di osservare poi il mare e gli oceani che tutt’attorno incorniciano i diversi continenti. E immaginiamo poi che questo telescopio sia così potente da permetterci di osservare anche alcune specifiche aree del Paese, non solo l’oramai inarrestabile disseccamento di svariate regioni del mondo, ma più nello specifico il Mediterraneo. E di lì, col farsi più curioso dello sguardo vedere l’Italia, e poi il Lazio, e poi la città di Roma:

«Uomo taciturno, forse perché ha vissuto troppo a lungo in un’atmosfera inquinata dal cattivo uso della parola, Palomar intercetta segnali fuori d’ogni codice, intreccia dialoghi muti, tenta di costruirsi una morale che gli consenta di restare zitto il più a lungo possibile. Ma potrà mai sfuggire all’universo del linguaggio che pervade tutto il dentro e tutto il fuori di se stesso? Forse è per rintracciare il filo del discorso che scorre là dove le parole tacciono, che egli tende l’orecchio al silenzio degli spazi infiniti o al fischio degli uccelli, e cerca di decifrare l’alfabeto delle onde marine o delle erbe d’un prato».

Ecco, una prima risposta parziale ai miei studenti potrebbe essere la seguente: conviene che torniamo a porci in ascolto e a pensare con il metro della distanza, perché è a questo che ci educa la letteratura; essere immersi non aiuta a discernere, scomporre… insomma comprendere.

Scritto da
Riccardo Gasperina Geroni

Professore associato di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Bologna. È stato research fellow presso le Università di Münster e di Oxford. I suoi interessi vertono principalmente sulla letteratura italiana del Novecento con particolare interesse all’intreccio della letteratura con la filosofia, la psicoanalisi e l’antropologia. È autore di: “Bologna di carta. Guida letteraria della città” (Il Palindromo 2022), “Alfredo! Alfredo! Storie di Panzini e della Casa Rossa” (con Marco Antonio Bazzocchi, Pendragon 2021), “Cesare Pavese controcorrente” (Quodlibet 2020) e “Il custode della soglia. Il sacro e le forme nell’opera di Carlo Levi” (Mimesis 2018) che ha vinto la XXI edizione del Premio Carlo Levi. È inoltre tra gli autori di “Cento anni di letteratura italiana (1910-2010)” (Einaudi 2021) e ha curato (con Paolo Desogus e Gian Luca Picconi) “De Martino e la letteratura. Fonti, confronti e prospettive” (Carocci 2022) e la nuova edizione di “Quaderno a cancelli” di Carlo Levi (Einaudi 2020).

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