Mike Davis, tra catastrofe e rivoluzione
- 20 Novembre 2023

Mike Davis, tra catastrofe e rivoluzione

Scritto da Luca Richiardi

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Geografo, storico, attivista, sociologo, scrittore. In occasione della sua morte il 25 ottobre 2022, Mike Davis è stato ricordato come un intellettuale eclettico e fuori dagli schemi; il suo Città di quarzo, in cui delinea uno spietato ritratto di una Los Angeles attraversata dallo spettro del securitarismo, è già considerato un “classico” della teoria urbana.

Per quanto le contraddizioni delle metropoli contemporanee fossero il fulcro delle sue ricerche, Mike Davis è stato innanzitutto uno studioso marxista che ha messo la ricerca storica e sociologica al servizio della lotta politica. Egli ha infatti evidenziato, da sinistra, le radici politiche alla base della catastrofe ecologica, delle sempre maggiori disuguaglianze di ricchezza e dei conflitti internazionali, con voce critica e spirito movimentista. Fedele all’assunto secondo cui «il dolore è condizione di ogni verità»[1], egli ha sondato le strutture economico-politiche dell’emarginazione sociale e dell’oppressione nelle sue diverse forme, coniugando «una comprensione vivida delle lotte locali con una consapevolezza intuitiva del capitalismo quale fenomeno globale»[2].

Nato nel 1946 in California, Davis entra ben presto a far parte della classe lavoratrice americana come camionista all’età di sedici anni. Attivista contro la guerra e per i diritti civili, aderisce negli anni Sessanta alle lotte dei movimenti studenteschi in giro per gli Stati Uniti, iscrivendosi in seguito al Partito Comunista. A 28 anni riprende gli studi attratto da un seminario sul Capitale tenuto da Robert Brenner all’Università della California, prima di essere chiamato a Londra dalla redazione della New Left Review e di diventare, nei decenni successivi, professore di storia, teoria urbana e scrittura creativa presso vari atenei californiani.

Come ha notato Marcello Faletra, «si potrebbe riassumere tutta la ricerca di Mike Davis nel rapporto tra città e oppressione, metropoli e violenza, ma anche metropoli e apocalisse»[3]. Al “metromarxismo”[4] di Davis si affiancano l’interesse per la storia ambientale e la preoccupazione per la catastrofe ecologica in corso, così come una grande abilità narrativa e uno stile sempre combattivo, sfrontato. Città, violenza e catastrofe rappresentano i tre nuclei tematici della sua produzione, in cui la ricerca storica diventa, seguendo Walter Benjamin e Michel Foucault, visione “ecografica” e “archeologica” del presente[5].

Sin dalla prima raccolta di articoli, pubblicata nel 1986 e intitolata Prisoners of the American Dream[6], emerge uno sguardo critico sulla società americana del tempo che, con profondità analitica, viviseziona lo spazio urbano e la violenza politica attraverso la lente della lotta di classe. Geografie della paura[7] mette in luce, insieme a Città di quarzo[8], la crescita esplosiva di Los Angeles, una città che contiene in sé i prodromi del proprio disfacimento, dovuto alla «miscela esplosiva e incomparabile di rischi ambientali e contraddizioni sociali»[9]. Alla visione di una California promessa finanziaria e utopia concreta di un entertainment sfrenato, Davis oppone un ritratto sociologico da cinema catastrofico, in cui le strategie predatorie del territorio e del capitalismo estrattivo si fondono a brutali politiche di esclusione sociale, che anni dopo troveranno un ulteriore sviluppo nell’acuirsi della crisi ecologica e delle disuguaglianze economiche.

Lo sguardo di Mike Davis, come ha sottolineato Perry Anderson, si è tuttavia esteso «ben oltre i confini della California meridionale», dal momento in cui lo sviluppo urbano delle metropoli è diventato «uno dei leitmotiv del suo lavoro»[10]. Se con Magical Urbanism[11] l’oggetto di ricerca si estende al rapporto tra dinamiche economiche, politiche e culturali e crescente popolazione di latinos in molteplici città statunitensi, è con Olocausti tardovittoriani[12] che dalla sociologia urbana si passa alla storia ambientale ed economica. Definito il suo «capolavoro»[13], in esso Davis denuncia, con passione militante e rigore scientifico, che le carestie della seconda metà dell’Ottocento verificatesi in Asia, Africa e America Latina non furono il semplice esito di eventi climatici particolarmente sfavorevoli. Alla morte di decine di milioni di persone concorsero le scelte politiche ed economiche degli imperi coloniali, a cui si deve la nascita di un “Terzo mondo” ante litteram fondato su vertiginosi squilibri internazionali di reddito e ricchezza. Criticando duramente gli assiomi del liberismo[14], Davis mette in evidenza come la fame di massa fosse «una tragedia politica evitabile e non un disastro naturale», dovuta all’inserimento forzato nelle «strutture economiche e politiche» del «moderno sistema mondiale»[15]. Emerge così, in tutta la sua problematicità, il rapporto tra accumulazione capitalistica e povertà, così come la pericolosità di una normalizzazione dell’assetto sociale che trascura e depoliticizza i bisogni primari dell’uomo. L’analisi della storiografia ufficiale in cui la natura risulta essere l’unico mandante della catastrofe deve essere integrata, secondo Davis, con l’economia politica marxista per non dimenticare che «la strada verso un “nuovo ordine mondiale” vittoriano è stata lastricata con i cadaveri dei poveri»[16], seguendo una precisa logica politica ed economica.

Il colonialismo europeo, con i suoi strascichi e le sue tragedie, è tra i protagonisti anche de Il pianeta degli slum, in cui Davis delinea una cruda “fenomenologia delle baraccopoli” e indaga ulteriormente l’urbanizzazione del mondo, ovvero la «deflagrazione delle città del mondo in via di sviluppo»[17]. Sulle orme di Theodor W. Adorno – secondo cui «la carogna, la puzza e la putrefazione», disdegnate dalla metafisica, sono in fondo «ciò che conta»[18] – si immerge nello squallore e nel degrado degli slum per smascherare la segregazione e il controllo poliziesco esercitato sulla migrazione rurale verificatasi a partire dalla metà dell’Ottocento in parte dell’Africa e dell’Asia, grazie a cui i contadini poveri diventarono forza lavoro industriale costretta a «vivere in precarie baraccopoli ai margini delle città segregate e chiuse»[19], così come la criminalizzazione delle periferie e la retorica della “sicurezza urbana” come premessa per la repressione politica e il controllo sociale[20]. Alla discussione della mercificazione dello spazio informale e della «transustanziazione della povertà in capitale»[21], Davis accompagna una spietata analisi sia delle conseguenze economiche delle politiche della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale – che hanno imposto, a partire dalla fine degli anni Settanta, il “neocolonialismo finanziario” come paradigma di sviluppo – sia delle promesse mancate degli stati socialisti postcoloniali nella lotta alla povertà urbana. Adottando la prospettiva dell’ecologia politica, Davis non tralascia le evidenti problematiche ambientali, igieniche e sanitarie che opprimono le baraccopoli: se infatti persino le necessità fisiologiche dei più poveri non vengono soddisfatte – a causa, ad esempio, di spietati business di toilette a pagamento o dell’assenza di adeguati servizi di smaltimento rifiuti – questi «non hanno altra scelta che convivere con il disastro», quando non sono costretti a «vivere nella merda»[22].

In queste condizioni, la domanda fondamentale diventa allora come sia possibile articolare una risposta politica “di classe” che contrasti le “politiche della povertà” imposte dalle organizzazioni internazionali e istituzioni governative locali. Nelle parole di Davis: «In quale misura un proletariato informale possiede quel potentissimo talismano marxiano che è il carattere di “agente storico”»[23]? Una visione politica unitaria viene a mancare data l’eterogeneità dei gruppi sociali: «Le popolazioni degli slum possono presentare una varietà sbalorditiva di reazioni ai fenomeni strutturali di abbandono e deprivazione, reazioni che vanno dalle chiese carismatiche e i culti profetici alle milizie etniche, le bande di strada, le Ong neoliberiste e i movimenti sociali rivoluzionari»[24]. Il potenziale trasformativo di un ipotetico “proletariato informale” deve essere allora individuato a livello locale, e richiede di essere esplorato attraverso una «concreta casistica comparativa prima di poter pervenire a una risposta di carattere generale»[25]. Per questo risultano insufficienti speculazioni teoriche, come ad esempio quella di Antonio Negri e Michael Hardt, che non sono fondate su una «reale sociologia politica»[26] e denotano dunque una povertà di ricerca empirica.

La problematica dell’azione politica è al centro dell’ultimo sforzo teorico di Davis, Old Gods, New Enigmas[27], in cui l’autore discute i testi della tradizione marxista che hanno ispirato l’intera sua ricerca. È significativo che un confronto con la teoria marxiana e i suoi eredi avvenga solo alla fine di un percorso che ha fatto del materialismo storico il sostrato epistemologico su cui costruire l’analisi degli eventi sociali, economici e culturali. Ne deriva, simbolicamente, che l’esperienza e la prassi politica sono antecedenti la discussione delle categorie teoriche, e non viceversa. Nel primo saggio, il cui titolo Notes on Revolutionary Agency indica il tema cruciale di una vita e di un’opera da combattente, Davis lancia una sfida al marxismo contemporaneo, la cui sopravvivenza dipende dall’adozione di una visione globale che sia in grado di «elaborare il futuro dalle prospettive simultanee di Shenzhen, Los Angeles e Lagos» se vuole ripensare «una resistenza unica al capitalismo»[28]. A partire dalla narrazione autobiografica dell’incontro con gli scritti di Marx – largamente ignorati dagli ambienti di sinistra frequentati ai tempi del movimentismo studentesco americano che pure ad essi si richiamava[29] – Davis si interroga sui fondamenti e le potenzialità dell’“agire storico” dei soggetti politici tracciando i contorni di una storia della “coscienza di classe” nel pensiero socialista classico, ovvero di una «sociologia storica di come le classi lavoratrici occidentali acquisirono coscienza e potere»[30]. Tre sono gli elementi dell’agire rivoluzionario – «capacità organizzativa, potere strutturale e politica egemonica»[31] – individuati nella storia europea delle lotte di classe che le battaglie politiche di oggi devono fare propri se vogliono realizzare il progetto socialista e sovvertire l’ordine esistente. Leggendo il Capitale insieme agli scritti storici marxiani, Davis elabora una teoria marxista eterodossa, non-lineare, «congiunturale»[32], che non si lascia trarre in inganno da dichiarazioni post-marxiste sulla fine della «vecchia classe lavoratrice»[33], ma fa della frammentazione dei soggetti politici il punto di partenza di un comunismo critico e globale, inteso non come capacità astratta di azione di un blocco sociale omogeneo, ma come insieme di pratiche adattate a un contesto. L’analisi delle contraddizioni del presente deve muovere da coordinate storiche e geografiche determinate: è proprio in questo che consiste la radicalità della concezione materialistica della storia.

L’opera di Davis è una chiamata alle armi contro le storture del capitalismo globale, capace di rinnovare il pensiero marxista a partire dai vicoli e dalle piazze, in nome della tradizione socialista e ambientalista. Lo studio dei casi concreti di azione rivoluzionaria trova la sua forza, nell’ambito di una visione a tinte fosche dei possibili futuri per l’umanità, soltanto nella lotta politica come unico residuo di un’«ottimismo dell’immaginazione»[34] e, con Ernst Bloch, sull’idea di speranza come «azione impaziente verso il mutamento dello stato di cose presenti»[35]. Il suo unico rimpianto non può che essere stato «quello di non essere morto in battaglia o su una barricata»[36], come ha affermato in un’intervista qualche mese prima di morire. Il compito dei suoi lettori, allora, non potrà che consistere nel «combattere anche quando la lotta sembra senza speranza»[37], ad ogni costo, quotidianamente, sebbene il mondo sembri già avviato, da lungo tempo, verso un’irreversibile catastrofe.


[1] Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 18.

[2] Ciarán O’Rourke, Fire in the Belly: Mike Davis (1946-2022), «Verso Blog», 26 ottobre 2022 (trad. di chi scrive).

[3] Marcello Faletra, Morto Mike Davis, il cyberpunk dell’urbanistica, «ArtTribune», 30 ottobre 2022.

[4] Il testo di Andrew Merrifield Metromarxism. A Marxist Tale of the City (Routledge, New York/Londra 2002) delinea una genealogia delle teorie marxiste sulla città, da Friedrich Engels a David Harvey, in cui Mike Davis avrebbe certamente meritato il suo spazio.

[5] «L’ecografia registra le azioni reali degli uomini in un dato contesto rilevandone le ripercussioni, così come registra l’impatto dell’immaginario e le sue conseguenze nella percezione sociale degli spazi» (Marcello Faletra, op. cit.).

[6] Mike Davis, Prisoners of the American Dream: Politics and Economy in the History of the U.S. Working Class, Verso, London 1986.

[7] Id., Ecology of Fear: Los Angeles and the Imagination of Disaster, Verso, London 1998; trad. it Geografie della paura. Los Angeles: l’immaginario collettivo del disastro, Feltrinelli, Milano 1999.

[8] Id., City of Quartz: Excavating the Future in Los Angeles, Verso, Londra 1990; trad. it. Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, Manifestolibri, Roma 2023 (2008).

[9] Id., Geografie della paura, op. cit., p. 62.

[10] Perry Anderson, Two great losses, «New Left Review», n. 139, gennaio/febbraio 2023, p. 38 (trad. di chi scrive).

[11] Mike Davis, Magical Urbanism: Latinos Reinvent the U.S. City, Verso, Londra 2000.

[12] Id., Late Victorian Holocausts: El Niño Famines and the Making of the Third World, Verso, Londra 2001; trad. it. Olocausti tardovittoriani. El Niño, le carestie e la nascita del Terzo Mondo, Feltrinelli, Milano 2018 (2001).

[13] Perry Anderson, op. cit., p. 39.

[14] In milioni «morirono nell’età aurea del Capitalismo liberale, anzi, molti furono assassinati […] dall’applicazione fideistica dei sacri principii di Smith, Bentham e Mill» (Mike Davis, Olocausti tardovittoriani, op. cit., p. 19).

[15] Ibid.

[16] Ivi, p. 20.

[17] Mike Davis, Planet of Slums: Urban Involution and the Informal Working Class, Verso, Londra 2006; trad. it. Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano 2006, p. 14.

[18] Theodor W. Adorno, Metafisica. Concetto e problemi, Einaudi, Torino 2006, p. 141.

[19] Mike Davis, Il pianeta degli slum, op. cit., p. 53.

[20] In tempi più recenti, alcuni studiosi ancora si ponevano la questione di «come è possibile “controllare” simili realtà, e in che modo, con quali artifizi e fino a che punto le amministrazioni e i governi delle realtà caratterizzate dall’informale possono pretendere di esercitare su di esso una sia pur labile governance» (Sonia Paone, Agostino Petrillo e Francesco Chiodelli (a cura di), Governare l’ingovernabile. Politiche degli slum nel XXI secolo, ETS, Pisa 2017, p. 6).

[21] Mike Davis, Il pianeta degli slum, op. cit., p. 161.

[22] Ivi, pp. 113 e 126.

[23] Ivi, p. 179.

[24] Ibid.

[25] Ibid.

[26] Ibid.

[27] Mike Davis, Old Gods, New Enigmas: Marx’s Lost Theory, Verso, Londra/New York 2018.

[28] Ivi, p. 7 (trad. di chi scrive).

[29] Davis parla di un «Marx estraneo ai movimenti marxisti» (ivi, p. X).

[30] Ivi, p. XVIII (trad. di chi scrive).

[31] Ivi, p. 18 (trad. di chi scrive).

[32] Ivi, p. XIV. Davis riprende l’idea di un Marx “sulla congiuntura” da Daniel Bensaïd, Marx l’intempestif: Grandeurs et misères d’une aventure critique, XIXe-XXe siècles, Fayard, Paris 1995 ; trad. it. Marx l’intempestivo. Grandezze e miserie di un’avventura critica, Edizioni Alegre, Roma 2007.

[33] Mike Davis, Old Gods, New Enigmas, op. cit., p. 6 (trad. di chi scrive). Egli aggiunge: «Il suo agire storico è stato ridimensionato, ma non eliminato dalla storia» (ibid., trad. di chi scrive).

[34] Mike Davis, Old Gods, New Enigmas, op. cit, cap. 4.

[35] Marcello Faletra, op. cit.

[36] Sam Dean, Mike Davis is still a damn good storyteller, «Los Angeles Times», 25 luglio 2022 (trad. di chi scrive).

Scritto da
Luca Richiardi

Laureato magistrale in Filosofia all’Università di Pavia, ha trascorso periodi di ricerca a Francoforte (Goethe-Universität) e Parigi (ENS e EHESS). Si interessa di teoria critica e filosofia politica.

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