Recensione a: Gastone Breccia, Missione Fallita. La sconfitta dell’occidente in Afghanistan, il Mulino, Bologna 2020, pp. 176, euro 15 (scheda libro)
Scritto da Gabriele Sirtori
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«In Afghanistan ho sentito un capo-villaggio spiegare la situazione con queste parole: “Loro combattono con sandali e fucili, voi combattete corazzati e sganciate bombe dal cielo su qualsiasi cosa si muova: loro non hanno paura di morire, voi avete paura di morire; loro vinceranno, ed è giusto così”».
In questo passaggio di Missione fallita Gastone Breccia sintetizza, attraverso le parole raccolte in uno dei suoi viaggi nel Paese, il senso di grande frustrazione e amarezza che la vicenda afghana ci lascia. In qualità di cittadini di Stati europei, membri della Nato, dotati dei migliori eserciti del mondo, restiamo esterrefatti di fronte alle immagini dei nostri militari in fuga. La narrazione pubblica di una nazione poverissima e sottosviluppata, l’Afghanistan, e di un nemico mal equipaggiato, retrogrado e inviso alla popolazione (i talebani) ci rendono difficile, se non impossibile, comprendere le ragioni alla base di questa sconfitta.
Gastone Breccia – storico bizantinista di formazione ed esperto di teoria bellica classica e contemporanea – approfitta della sua esperienza diretta di ricerca nelle principali basi militari italiane per rispondere – da un punto di vista militare, strategico e politico – ad una domanda chiave: come si è passati dalla “Guerra al Terrore” del 2001, che in pochi mesi di operazioni ha sconfitto e cacciato talebani e jihadisti dal Paese insediando un governo laico e democratico, alla ritirata dell’Occidente?
L’analisi di Breccia si muove prima di tutto da un punto di vista militare. Non è possibile – sostiene l’autore – trovare una ragione unica per giustificare la sconfitta, piuttosto questa va collegata ad una serie di errori nell’impostazione dell’intervento da parte delle forze occidentali. In questa sede proviamo ad esaminarne i principali.
Questo è il primo e più importante punto. Per chiarire che cosa si intende è utile procedere in ordine cronologico. Nel 2001 l’intervento statunitense era giustificato da due obiettivi militari ben definiti: sgominare Al-Qaida, fermando o eliminando Osama Bin Laden, e rimuovere il governo talebano, reo di essere un safe-haven per gruppi terroristici antiamericani. Dei due obiettivi, il secondo fu raggiunto in pochi mesi: dal dicembre 2001 Hamid Karzai divenne il nuovo presidente ad interim dell’Afghanistan. Questo incarico fu poi legittimato nel giugno 2002 dalla loya jirga, assemblea generale dei capi delle comunità locali afghane. A restare irrealizzato fu però l’altro importante obiettivo: fermare Osama Bin Laden. Il terrorista saudita riuscì infatti a rendersi latitante, consentendo ad al-Qaida di continuare le sue attività eversive in tutto il Medio Oriente.
Nel 2004 gli obiettivi dovettero improvvisamente cambiare. I talebani infatti e gli altri gruppi loro alleati, dopo essere stati cacciati dall’Afghanistan, trovarono in Pakistan un porto sicuro e finanziamenti per riprendere le operazioni di insurrezione contro il nuovo governo guidato da Karzai. Il nuovo Stato era ancora debole: un intervento di sostegno da parte delle forze occidentali era necessario. A Berlino gli stati della Nato e il G7 firmarono dunque un documento di intesa: Securing Afghanistan’s Future. Da questo momento la strategia in Afghanistan trovò due nuovi obiettivi: garantire la sicurezza del Paese e del governo Karzai contro gli insorgenti e iniziare il difficile processo di State Building. Tutto questo doveva essere fatto “conquistando i cuori e le menti” degli afghani, con tattiche militari nuove rispetto a quelle usate nel 2001: trattandosi di una guerra among the people, era necessario limitare l’uso della forza. Ogni perdita civile rischiava di rendere le forze straniere invise alla popolazione, ampliando il sostegno talebano.
Tuttavia, sottolinea Breccia, l’uso della forza solo per autodifesa – o difesa del mandato – mal si conciliava con una realtà sul campo frammentata, con diversi gruppi di insurgent attivi in tutto il Paese e un governo scarsamente legittimato al di fuori della capitale Kabul. In altre parole: l’obiettivo di “garantire la sicurezza della popolazione e favorire lo sviluppo” poteva essere raggiunto solo a patto di un impegno militare estensivo da parte delle forze Nato, un fatto questo in aperto contrasto con l’altro obiettivo di vincere “senza sparare un colpo” dichiarato dai vertici politici. La necessità di attaccare e sgominare le bande talebane si accompagnò infatti, per la natura stessa del conflitto, alle vittime collaterali tra i civili – e tra contadini armati in fretta e furia dai talebani o simpatizzanti senza legami con l’organizzazione –. Questa situazione portò così al risultato opposto rispetto a quello cercato: il sostegno della popolazione verso gli insurgent (i talebani) ne uscì rafforzato.
Cosa si sarebbe dovuto fare? Solo una presenza stabile di corpi armati dopo le vittorie militari avrebbe potuto garantire la sicurezza necessaria ad uno sviluppo economico e quindi l’ottenimento del favore della popolazione. Chiaramente le forze Nato sul campo erano consapevoli di questo. Tuttavia vi era un problema: non c’erano abbastanza uomini e risorse per farlo. Questo ci porta al secondo punto.
Breccia riporta questa conversazione avuta nel 2011 con un militare italiano attivo nella base avanzata di Bala Boluk, nell’Est del Paese: «Non possiamo nemmeno difendere chi sta dalla nostra parte: con le forze che abbiamo e il territorio che ci è stato assegnato possiamo visitare ogni villaggio solo un paio di volte al mese. E sempre nelle ore di luce». Questo avrebbe potuto vanificare ogni sforzo: in un contesto di guerra civile in cui gran parte della popolazione è incerta se sostenere il governo di Kabul o gli insurgent locali, chi tra i locali collaborava con le forze Nato lo faceva mettendo a rischio la propria vita. Per le forze Nato, non essere presenti sul territorio per 28 giorni su 30 significa abbandonare queste persone – e chi potrebbe schierarsi con loro – in balia delle minacce e delle ritorsioni. Continuava il militare: «Quando costruiamo un pozzo, il capo villaggio che ce lo ha chiesto rischia la vita. Se distribuiamo dei medicinali, il giorno dopo vengono requisiti dagli insorti».
Anche i fondi per la ricostruzione erano limitati: tra il 2005 e il 2014 vennero creati e dispiegati i “Provincial Reconstruction Team”: squadre di militari incaricate di costruire infrastrutture per la ripresa economica e sociale del Paese (scuole, ospedali, pozzi, strade). Un’ottima struttura, priva però della liquidità necessaria per avere un impatto. Il caso dell’Italia è esemplare: in quei 9 anni furono stanziati 46 milioni di euro. Una cifra esigua per avere un vero impatto sul territorio che le era stato affidato (la provincia di Herat). Nonostante gli scarsi finanziamenti va comunque sottolineato l’eccezionale impegno dei nostri soldati che in quegli anni sono riusciti a portare a termine più di 1.200 progetti tra cui la costruzione di un ospedale psichiatrico, un ospedale per tossicodipendenti, 44 poliambulatori, 105 scuole, 800 pozzi e diverse altre infrastrutture.
Quello che sarebbe servito all’Afghanistan – afferma Breccia – è un piano di rilancio più incisivo, più simile per certi versi ad un “Piano Marshall” che ad una operazione militare. Tuttavia, allora come oggi, era impossibile per i governi occidentali giustificare, politicamente, un simile sforzo economico davanti all’opinione pubblica, colpita in quegli anni dalle avversità della crisi economica.
Le forze Nato si trovarono quindi in questa zona di mezzo – tra ciò che sarebbe stato efficace fare, ciò che era politicamente possibile fare e ciò che era imbarazzante fare (abbandonare un Afghanistan più povero, instabile e insanguinato di quello che si era trovato, ammettendo la propria incapacità di azione) – per tutta la loro presenza in Afghanistan. “Che cosa stiamo facendo qui?” era una domanda che – secondo quanto riportato dall’autore – gli stessi militari si ponevano senza averne chiara la risposta.
Da un punto di vista bellico la strategia di azione era chiara a tutti i vertici militari. Clear, hold, build, le tre parole chiave delle strategie di contro insurrezione del 21° secolo: occupare un territorio non troppo esteso, liberarlo dalla presenza degli insurgent e mantenerne il controllo per il periodo necessario a ricostruire quelle infrastrutture di fondamentale importanza per la sua ripresa sociale ed economica; successivamente, replicare queste azioni in un territorio poco distante, fino a creare una situazione di benessere a “macchie d’olio” tali da spingere la popolazione delle aree confinanti a sostenere le forze regolari rimuovendo la base di consenso agli insorti.
Dal punto di vista politico tuttavia l’esecuzione di questa strategia non era così semplice. Una strategia di questo tipo in Afghanistan avrebbe richiesto tempo, denaro e disponibilità a perdere vite umane. Tre beni preziosi che i governi occidentali – ed europei in particolar modo – non erano disposti a investire per Kabul. “Perché siamo in Afghanistan?” era infatti anche la domanda che i giornali e l’opinione pubblica si ponevano ogni volta che una bara ricoperta da una bandiera veniva calata da un aereo militare o quando un bollettino con le spese di guerra trapelava da fonti della Difesa.
Per la politica era difficile rispondere. Le due ragioni addotte dai leader occidentali – cioè (1) evitare che l’Afghanistan diventasse una base per gruppi terroristici e (2) aiutare la ricostruzione del Paese – erano entrambe molto deboli. Da una parte infatti i talebani avevano rinunciato da tempo alla collaborazione con l’islamismo radicale internazionale (come testimoniano i recenti scontri tra talebani e Stato Islamico del Khorasan), dall’altra il crescente supporto dimostrato dalla popolazione verso gli insurgent poneva dei dubbi sull’effettiva efficacia della presenza militare Nato nel Paese.
Di fronte a questo disallineamento tra necessità politiche e necessità militari la soluzione fu, naturalmente, un compromesso: nel 2014 Obama annunciò un imminente ritiro delle truppe e diede il via ad un cambio di strategia: non più impegno diretto della Nato nella sicurezza e ricostruzione del Paese (missione Enduring Freedom) ma un nuovo ruolo di formazione e addestramento delle forze militari e di polizia afghane (missione Resolute Support).
Secondo Breccia, questo compromesso si rivelò infausto: da una parte diede ai talebani un incentivo a resistere – sapendo che gli americani se ne sarebbero comunque andati a breve, la vittoria diventava solo una questione di tempo e di attesa – dall’altra contribuì ad abbassare ulteriormente il gradimento locale per le forze Nato. In seguito al cambio di strategia, la presenza “tra la gente” dei militari occidentali fu praticamente azzerata. Con il personale Nato chiuso al sicuro nei compound e dedito a operazioni di addestramento, il prezzo di sangue della guerra ricadde totalmente sulle forze afghane, ancora mal equipaggiate e poco addestrate, con esiti tragici: solo nel 2018 si contarono 45.000 tra morti, feriti e dispersi tra le fila dell’esercito di Kabul.
Il fallimento degli ultimi sei anni di missione in Afghanistan è forse proprio da imputare a questo: lo scarso successo nell’addestramento delle forze ANA – Afghanistan National Army. Il morale basso dato dall’altissimo numero di caduti e dalle continue defezioni (dal 2014 al 2018 l’esercito nazionale perse 10.000 effettivi all’anno) bloccò le forze militari di Kabul in una spirale discendente. Corruzione e indisciplina si diffusero tra le file e portarono al mancato svolgimento di molte missioni di counter-insurgency pur concordate con le forze Nato. Il motivo? Defezioni e mancanza di carburante e armi. Secondo quanto riportato dalle testimonianze dei soldati Nato, gli stessi militari afghani erano soliti rivendere gasolio, medicinali e munizioni non appena li ricevevano pur di far cassa in una situazione di estrema povertà e disperazione.
A questo si aggiunse la riluttanza occidentale ad assumersi più rischi del minimo necessario, risultando in un supporto «tutt’altro che risoluto» stando alle parole di un militare italiano sentito dall’autore. «Il più delle volte – riporta la fonte – siamo ridotti a fare advising per telefono». Il rischio di affrontare un viaggio fuori dal compound era considerato, infatti, troppo elevato. Per dare dei numeri: dall’inizio della missione Resolute Support al 2018 le perdite militari afghane assommarono a 28.529 caduti, quelle delle forze Nato a 58.
L’accordo con le forze talebane, siglato a Doha nel 2020 dal presidente Trump, segna – secondo la tesi di Breccia – un nuovo capitolo nel tramonto militare dell’asse atlantico. Pur avendo gli eserciti più tecnologici e potenti del mondo, dalla fine della Seconda guerra mondiale Stati Uniti ed Europa non sono riusciti a vincere le guerre che hanno intrapreso – con l’unica notevole eccezione dell’Iraq, finito poi nella doppia morsa dell’ISIS e delle ingerenze iraniane.
La ragione va rintracciata nell’incapacità di usare la forza in modo efficace. Incapacità a sua volta legata alla percezione, fortemente stigmatizzata, che l’opinione pubblica ha dell’uso della forza bellica. Peace-keeping, peace-enforcing, stability operation, humanitarian war… sono solo alcuni dei termini utilizzati dai Ministeri della Difesa occidentali per giustificare l’impiego di soldati per imporre in un Paese una situazione che sia conforme alla propria politica estera e militare – cioè per giustificare una guerra –. La conseguenza sul campo in Afghanistan fu l’uso di ROE (Rules of engagement) fortemente restrittivi – nel concreto le indicazioni date ai militari erano di non ingaggiare uno scontro con il nemico se non per propria difesa o difesa degli obiettivi della missione – e una valutazione del rischio fortemente prudente. L’imperativo “Evitare di fare caduti fra i nostri militari” – un elemento chiave per non compromettere l’appoggio dell’opinione pubblica interna – sembrò assumere un’importanza maggiore del raggiungimento degli obiettivi militari concordati.
Il problema in Afghanistan – sostiene Breccia – era che si era giunti ad un punto paradossale in cui il valore della vita di un militare era più alto di quello delle persone che dovevano essere da lui salvate. Questa valutazione risultava chiarissima alla popolazione afghana, vessata dalle perdite civili collaterali, dalle continue azioni di guerriglia contro i soldati governativi, dall’inattività e dall’impotenza dei contingenti della coalizione, come dimostrano le numerose testimonianze raccolte dall’autore fra la popolazione afghana. Non c’è dunque da meravigliarsi, afferma Breccia, se in breve tempo – dopo l’abbandono delle forze Nato del Paese – i talebani hanno avuto gioco facile a riprenderne il controllo, con il sostegno di gran parte della popolazione.
Il punto centrale del capitolo conclusivo del volume è: siamo in una fase di passaggio. Le politiche estere dei Paesi occidentali si stanno sempre più rinchiudendo in sé stesse ed è sempre più difficile giustificare internamente operazioni militari in Paesi stranieri, a maggior ragione se queste comportano caduti e spese ingenti in investimenti di ricostruzione. Quando si entra in uno Stato terzo con dei militari per imporre la propria volontà e visione, lo si deve fare mettendo in conto un grande impiego di vite umane, tempo e denaro pubblico. Se un governo non è in grado di avere il sostegno per un simile sforzo – sostiene l’autore – dovrebbe astenersi dall’intervento bellico sin dal principio.
La scelta tragica della Nato – e soprattutto degli Stati Uniti – in Afghanistan quindi è stata quella di intraprendere una guerra imperiale senza avere una strategia imperiale. La strategia statunitense da Trump a questa parte è stata rinunciare a essere «la città sulla collina verso cui sono rivolti gli occhi del mondo».
Protetti dai due oceani, gli Stati Uniti mirano a ristrutturare e forse ridurre il proprio peso globale, ripudiando i sogni liberal sulla necessaria democratizzazione del mondo. A questa sconfitta si aggiunge dunque l’amarezza di guardare un mondo – un certo ordine di mondo – al tramonto: l’asse atlantico esce dall’Afghanistan sconfitto ma soprattutto inviso. Altri attori – Cina e Russia, ma soprattutto Pakistan, Iran e India – avanzano le loro manovre politiche su quello che rimane dell’Afghanistan.