Recensione a: Jean-Claude Michéa, I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, Neri Pozza, Vicenza 2013, pp. 128, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Enrico Fantini
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La Francia, in particolare nell’ultimo ventennio, ha sviluppato una interessante classe intellettuale che esprime a volte posizioni di reazione esplicita (vedi Zemmour e in generale la “galaxie réac”[1]), a volte elabora un pensiero critico che non manca di autonominarsi di “sinistra” (il primo Houellebecq, diciamo fino alle Particules élémentaires, Alain Finkielkraut, per certi versi lo stesso Michel Onfray). Se le declinazioni espressive sono diverse, questa compagine contempla un unico bersaglio critico: la sinistra liberal incarnata dalle classi medie colte. Questa forma di antigauchismo (per molti versi, per altro, del tutto condivisibile) produce una sorta di riduzionismo esasperato che individua nel progressismo una malapianta da estirpare.
Una specola interessante, da questo punto di vista, viene offerta dall’opera di Jean-Claude Michéa, in particolare nell’ultimo volume tradotto in italiano I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. L’antigauchismo di Michéa si espone sino a sostenere il «rifiuto di riunire sotto il segno esclusivo della “sinistra” l’indignazione crescente della “gente comune, (Orwell) di fronte a una società sempre più amorale, piena d’ineguaglianze e alienante”», (p. 7): il concetto di sinistra politica e parlamentare, non è più capace di aggregare le masse attorno a un progetto di «uscita dal capitalismo». Ma come è avvenuto tutto ciò? Come è stato possibile cioè che la sinistra abbia smesso di incanalare e fornire risposte all’indignazione della gente comune, appiattendosi sempre più sulle vicissitudini del progressismo borghese? Per rispondere a questa domanda Michéa ripercorre la genealogia del movimento operaio socialista in Francia: in origine equidistante tanto dalla destra reazionaria (clero, proprietari terrieri) quanto dalla sinistra liberale (classe media, borghesia industriale), durante l’Affaire Dreyfus scelse un’alleanza tattica (“difesa repubblicana”) con le sinistre parlamentari contro la minaccia monarchica. Questo compromesso segna la fine dell’autonomia del socialismo operaio e popolare che rifluirà nel più vasto “campo del Progresso”. Sotto l’egida culturale del “movimento illuminista” procederà a una condanna radicale di tutte le forme di conservatorismo delle classi popolari (comprese le pratiche mutualistiche e comunitarie), facilitando lo scivolamento dalla critica illuministica ai rapporti gerarchici alla critica liberale dei vincoli sociali tout court.
L’operatore filosofico che ha suggellato questo assorbimento è per l’appunto la “Metafisica del Progresso” e del “Senso della storia” «che definiva lo zoccolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo», (p. 21); un cappello teorico che è stato indossato anche dal marxismo (in particolare, sembra di capire, dall’interpretazione leninista) e che si qualifica per tre assunti: 1) il metodo di produzione capitalistico è una tappa logicamente determinata tra l’assetto feudale e l’avvento della società senza classi; 2) il modello organizzativo della produzione industriale è storicamente imprescindibile; 3) artigianato, piccola industria e agricoltura contadina sono formule produttive attardate. Questi assunti, a loro volta, hanno condotto a tre implicazioni politiche onerose: 1) la valutazione negativa delle classi medie (artigiano, piccolo industriale, commerciante, contadino) definite irrimediabilmente conservatrici; 2) la statuizione dell’equazione crescita economica del capitale = progresso sociale tout court (insomma crescita e sviluppo illimitato del capitale, cfr. Latouche); 3) l’affermazione del principio di “libertà pura” che rifiuta il conflitto organizzato per classi e eradica il concetto stesso di comunitarismo. Per Michéa questo dispositivo “progressista” ha disegnato il militante modello della sinistra occidentale moderna, «sostanzialmente riconoscibile dal fatto che gli è psicologicamente impossibile ammettere che, in qualunque campo, le cose potessero andare meglio prima», (p. 27).
Nel processo storico su delineato il movimento socialista originario perde la propria specificità: al tempo della sua autonomia era disposto a condividere il rifiuto liberale della società d’Ancien Régime, non la critica dei vincoli sociali in sé. Qui si impone allora un punto fondamentale: «Il processo di emancipazione liberale prevede che ci si liberi dell’insieme degli obblighi e dei vincoli comunitari tradizionali ai quali l’esistenza di ciascun essere umano si trova inizialmente sottoposta: va da sé che qualunque forma di appartenenza o di identità che non sia stata scelta liberamente da un individuo risulta potenzialmente oppressiva e “discriminante”», (p. 31). Ma se il liberalismo è costitutivamente indifferente nei confronti di ogni vincolo comunitario o di confine geografico che tale comunità delimita, le uniche forme in grado di operare un disciplinamento degli aggregati umani diventano il mercato e il diritto astratto, entrambi istituti “assiologicamente neutri”. Il «mercato diventa la sola istanza di socializzazione che sia compatibile con la libertà individuale perché il mercato assiologicamente neutro non esige da parte degli individui che mette in relazione alcun particolare impegno morale o effettivo (pp. 31-32); il diritto astratto invece si trasforma nella «cornice giuridica» che disconosce i «valori della morale». Se la logica liberale «porta a distruggere qualsiasi comunità umana attraverso l’intenzione di “farla entrare nella modernità” e di introdurvi la “libertà” e i “diritti dell’uomo”», (p. 84), la sinistra contemporanea traduce in termini politici questo compito, «professando l’universalismo astratto e benpensante tipicamente liberale: modernizzazione a oltranza, mobilità obbligatoria e trasgressione morale e culturale sotto tutte le sue forme», (p. 47).
In questo senso allora va declinata la proposta di pensare la sinistra contro la sinistra: tornare a operare la scissione del fronte che discende dalla tradizione illuministica (antigerarchica e antiautoritaria), da quello propriamente liberale (che mira al superamento acritico delle consuetudini e dei vincoli comunitari); ma approfondire anche il solco che a un primo sguardo sembra accomunare la critica da “sinistra” della società atomizzata alla critica conservatrice e reazionaria (che mira a ripristinare strutture gerarchiche anche attraverso la legittimazione religiosa). Occorre cioè insistere e tornare sulla specificità originaria del socialismo operaio, che consiste nell’ “aprire”, cioè nel rendere universale e tradurre in senso egualitario, quell’ «insieme di abitudini collettive che sono alla base di ogni cultura popolare», (p. 46), il sentimento naturale di appartenenza a una comunità che si oppone all’universalismo astratto. Sono questi i valori che, una volta riformulati, «possono essere il punto di partenza privilegiato del progetto socialista e della sua particolare cura nel preservare, contro il movimento capitalista di atomizzazione del mondo, le condizioni primarie di ogni esistenza veramente umana e comune», (p. 47). Un progetto, per altro, che si basa su una lettura dell’ultimo Marx, alla ricerca di una «rinascita, in una forma superiore, di un tipo sociale arcaico», (p. 40). Dall’esposizione della riflessione condotta nel libro si evince chiaramente l’apparentamento di Michéa a quella famiglia politica piuttosto sfrangiata che potremmo chiamare “populismo”. Proverei ora a riflettere su alcuni limiti immanenti al discorso:
Al di là dei limiti, direi banalmente di applicazione, della proposta, Michéa mi sembra colga bene tre sfide essenziali per la sinistra contemporanea: sostenere il rapporto delle comunità con i territori; rinegoziare gli spazi storicamente sottoposti a vincoli “extragiuridici” per rimetterli nella disponibilità delle masse (la fine ad esempio di una certa idea di “giacobinismo costituzionale”[3]); rappresentare strati da sempre ritenuti ostili ma entrati in sofferenza negli ultimi anni (piccoli industriali, artigiani, piccoli proprietari). Tuttavia, gli aspetti teoricamente più deboli possono essere letti come sintomi di una questione ben più ampia: l’emersione di elementi prepolitici, la tendenza moralistica, la centralizzazione di un’idea vagamente premoderna di “popolo” e di comunità, la riemersione del populismo classico, l’anticapitalismo generico, l’ostilità nei confronti dell’industrializzazione e il rifiuto in blocco della borghesia progressista rappresentano fenomeni chiaramente apparentabili al romanticismo antiborghese, un’addizione di mutualismo socialisteggiante e cattolicesimo sociale. Ci si muove insomma in una dimensione pienamente primointernazionalista. Misteri della sinistra allora è libro utile a definire una declinazione “da sinistra” del populismo ed è al contempo una specola da cui osservare la frammentazione disorganica dei socialismi contemporanei.
[1] Daniel Lindenberg, Le rappel à l’ordre, Paris, Seuil, 2002 e 2016.
[2] Cit. in Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Bari-Roma, Laterza, 2017, p. 56.
[3] Paolo Pombeni, La questione costituzionale in Italia, Bologna, il Mulino, 2016, p. 58.