Movimenti e democrazia. Intervista a Donatella Della Porta
- 23 Dicembre 2022

Movimenti e democrazia. Intervista a Donatella Della Porta

Scritto da Lorenzo Cattani, Eleonora Desiata

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I movimenti sociali hanno storicamente svolto un ruolo significativo nel quadro delle democrazie, esprimendo specifiche forme di partecipazione e fungendo da veicolo di rivendicazioni. Nei regimi autoritari, d’altro canto, i movimenti hanno spesso costituito un canale chiave per la formulazione e la mobilitazione di richieste di cambiamento. Oggi i movimenti attraversano una stagione di rinnovata rilevanza, anche perché spesso percepiti come portatori di istanze a cui il sistema politico-istituzionale non sembra in grado di dare pienamente risposta. In questa intervista il ruolo dei movimenti contemporanei è affrontato nei suoi molteplici aspetti da Donatella Della Porta, Professoressa alla Scuola Normale Superiore e direttrice del centro di ricerca sui movimenti sociali COSMOS, che si è a lungo occupata di questi temi, a cui ha dedicato numerose e influenti pubblicazioni.


Come si definisce un movimento sociale, quali elementi fondanti caratterizzano la partecipazione ai movimenti rispetto ad altre forme di partecipazione?

Donatella Della Porta: Di norma i movimenti sociali si definiscono sulla base di quattro caratteristiche. La prima è quella di non essere organizzazioni in senso stretto: hanno una struttura organizzativa e possono avere organizzazioni al loro interno, ma i loro confini organizzativi restano laschi. Parliamo soprattutto di reti, composte da individui e da organizzazioni di vario tipo. Una seconda caratteristica dei movimenti è la spinta a sviluppare forme di identificazione collettiva. I movimenti tendono a sviluppare un’identità, una solidarietà interna. La terza caratteristica è il carattere conflittuale, il porsi obiettivi che nella maggior parte dei casi portano a rivendicazioni di tipo politico. L’ultima caratteristica, la più importante, è l’utilizzo prevalente di forme di azione che hanno carattere di protesta. Possono impiegare anche altre forme, come il lobbying, ma in generale, avendo deboli canali di accesso alle istituzioni e all’opinione pubblica, la protesta resta lo strumento principale per fare pressione al fine di rivendicare alcuni diritti collettivi, attirando l’attenzione dell’opinione pubblica, dei giornali e dei decisori politici.

 

In quale stato di salute versano, complessivamente, i movimenti di protesta in Italia e in Europa? Che ruolo svolgono e per quali ragioni sono importanti per le democrazie, in particolare in questa epoca storica?

Donatella Della Porta: I movimenti sociali in generale alternano stagioni di intensa mobilitazione di protesta e momenti nei quali si dedicano in maniera meno visibile alla costruzione di identità collettive e reticoli organizzativi. Da un certo punto di vista, la protesta è ormai diventata così diffusa che troviamo in ogni forma e in ogni contesto movimenti sociali, che godono spesso di notevole visibilità. Di recente, abbiamo avuto proteste contro la violenza di genere, per la pace, contro i rigassificatori, proteste studentesche, proteste operaie, scioperi e occupazioni di consigli comunali. Anche soltanto focalizzando l’attenzione sul caso italiano, le proteste sono ormai parte del panorama quotidiano, con l’adozione di forme di azione diversificate e svariati tentativi di fornire soluzioni innovative rispetto al passato. Se pensiamo, inoltre, alle proteste in Iran e in Cina, constatiamo come le proteste nel mondo occidentale e nel Nord globale trovino legami con processi diffusi anche all’interno di regimi autoritari. C’è protesta, dunque, persino dove le forme di partecipazione sono represse. Perché quindi i movimenti sono importanti rispetto alla democrazia? Si tende spesso a dire che i movimenti crescono quando sono presenti rivendicazioni che non vengono incanalate attraverso altre forme di partecipazione. Un’altra osservazione abbastanza condivisa riguarda l’indebolimento dei partiti politici che una volta erano in grado di incanalare le rivendicazioni e le richieste dei cittadini nelle democrazie. Abbiamo assistito alla nascita di partiti nuovi, mentre una sofferenza acuta è spesso visibile in quella che una volta era considerata l’area della sinistra, dovuta da un lato alle trasformazioni della società, come la frammentazione della base sociale di questi partiti, e dall’altra a scelte strategiche che hanno portato queste forze politiche a ridurre o trascurare la loro funzione di rappresentanza degli interessi più deboli. In questa situazione, i movimenti sociali si trovano a dare voce a chi non è rappresentato attraverso altre forme di partecipazione. Questo nei regimi autoritari è particolarmente evidente, perché il dissenso si può esprimere soltanto attraverso forme di rottura. Ci troviamo qui di fronte a mobilitazioni che spesso sono inizialmente legate a temi o episodi specifici, ma che si estendono rapidamente a rivendicazioni più ampie: pensiamo a quanto è avvenuto in Iran. Si tratta di una dinamica che possiamo osservare anche all’interno delle democrazie. La protesta spesso parte da rivendicazioni concrete, legate ad esempio ai diritti dei rider o delle donne che subiscono violenza, ma assume spesso anche una funzione di elaborazione di progetti alternativi, arrivando a proporre delle forme di trasformazione sociale e politica, che il sistema istituzionale stesso non è in grado di promuovere. I movimenti non hanno, dunque, solo la funzione di supplire alle debolezze del sistema politico, ma sono anche in grado di arricchirlo e prefigurare alternative possibili. Questa funzione, che un tempo era svolta anche all’interno dei partiti politici, ora avviene quasi solo nei movimenti, che spesso faticano a sviluppare un’azione combinata coordinandosi con i partiti. Certo, sono nati partiti nuovi, che sono anche espressione dei movimenti sociali, ma in generale possiamo dire che si sia rotta la cinghia di trasmissione fra la società civile e i partiti nelle istituzioni, che avevano operato efficacemente nel “periodo aureo” delle democrazie. I movimenti sociali costruiscono identità collettive, elaborano conoscenze e alternative possibili ed educano alla partecipazione, cose che i partiti politici non riescono più a fare. Naturalmente, al di là di queste considerazioni generali, occorre poi distinguere, come per i partiti, tra diverse forme di rivendicazione. I movimenti sono in generale una forma di partecipazione politica ma, come per i partiti, i gruppi di pressione e i mezzi di comunicazione, possono sviluppare rivendicazioni di diverso colore politico.

 

Veniamo ora ad alcune specifiche tipologie di mobilitazione. Come è cambiato l’attivismo ambientale negli ultimi anni e quali sono le caratteristiche più rilevanti della contentious politics del cambiamento climatico contemporanea? In che modo le definizioni del cambiamento climatico che emergono nel dibattito pubblico e politico interagiscono con – e modificano – le strutture classiche della democrazia?

Donatella Della Porta: C’è un elemento generazionale da sottolineare. Mentre i giovani sono sempre stati presenti nei movimenti sociali con una partecipazione numericamente rilevante, uno degli elementi importanti nei movimenti più recenti – ad esempio, in quello ecologista – è che hanno assunto la “leadership” o comunque ne rappresentano la parte trainante, anche a partire da una riflessione sulle loro condizioni di precarietà, economica ed esistenziale. Nel caso di Fridays for Future, è centrale la rivendicazione di una generazione che si sente privata del proprio futuro, al punto di non poter contare sulla sopravvivenza di un mondo vivibile. Questo ha portato a riflessioni anche sui diritti delle generazioni che ancora non sono nate e sulle nostre responsabilità nel garantire possibilità di benessere e felicità anche per queste ultime. Questi movimenti, al pari di altri, hanno poi sottolineato come le nuove generazioni vivano non solo forti condizioni di precarietà lavorativa, ma sperimentino tale precarietà in tutti gli aspetti del passaggio all’età adulta. È stato anche sottolineato da parte di queste nuove generazioni il problema della mancanza di rappresentanza dei loro interessi e delle loro identità, legato non solo alla chiusura quasi gerontocratica del potere nelle istituzioni, anche universitarie, ma anche alla scarsa capacità da parte delle realtà e dei soggetti istituzionali di coinvolgere le nuove generazioni. Alla Scuola Normale Superiore abbiamo realizzato una ricerca sulle “Generazioni in movimento”, osservando le difficoltà che le organizzazioni di società civile più tradizionali, come partiti e sindacati, sperimentano nel coinvolgere i giovani, non solo per una scarsa attenzione ai temi che li interessano maggiormente, ma anche per il permanere di forme e strutture che si scontrano con le esperienze di vita dei giovani stessi. I movimenti ambientalisti più recenti proseguono da un lato l’attivismo ecologista delle mobilitazioni dei decenni precedenti, ma introducono dall’altro una rottura sia per quanto riguarda la percezione dell’urgenza di agire per contrastare le trasformazioni climatiche e intervenire rapidamente, sia per la consapevolezza dell’ampiezza dello spettro delle risposte che occorre dare alla crisi ambientale. Nei movimenti ambientalisti del passato queste risposte erano declinate prevalentemente al livello di politiche pubbliche graduali o appellandosi alla trasformazione negli stili di consumo individuale. I movimenti ambientalisti di oggi rivendicano soluzioni politiche radicali. Bisogna aggiungere che nel periodo pre-pandemico i temi sottolineati da Fridays for Future erano generalmente considerati come temi legittimi di una rivendicazione su problemi reali, mentre la pandemia ha reso più difficile queste mobilitazioni, che si irradiavano anche a partire da scuole e università rimaste chiuse a lungo. Si aggiunga poi il fatto che la guerra in Ucraina e la crisi energetica hanno portato ad una sempre maggiore stigmatizzazione delle rivendicazioni sul clima, considerate come non essenziali in un periodo di crisi energetica. Così, mentre nel 2019 questi movimenti avevano la percezione di poter contare su aperture da parte del sistema istituzionale, adesso siamo di fronte ad una chiusura netta. La tendenza alla stigmatizzazione nei confronti di forme di azione, diventate nel frattempo più dirompenti, proviene ora anche da settori della società che in passato prestavano attenzione alle richieste di questi movimenti, pur non considerandoli necessariamente come alleati. Si pensi ad esempio alla Germania, dove la delusione da parte di questi movimenti nei confronti dei Verdi al governo è fortissima. Nonostante le basi di partenza non fossero di grande fiducia, c’è stato un forte deterioramento che è sfociato in una critica serrata nei confronti delle politiche energetiche di un governo in cui i Verdi hanno un peso consistente. Al contempo, da parte del sistema politico istituzionalizzato si diffondono sempre di più discorsi che in parte ricordano la criminalizzazione di cui sono stati oggetto i movimenti progressisti negli anni Sessanta e Settanta, quando le forme di protesta erano considerate come illegittime nel quadro di un sistema che si riteneva offrisse canali di partecipazione di altro tipo. Si pensi alle reazioni che hanno generato forme di protesta come i blocchi stradali in Italia o il blocco dell’aeroporto di Berlino in Germania, a cui sono seguite reazioni stizzite delle istituzioni, che spesso sfociano nel mettere in discussione lo stesso diritto alla protesta e contribuiscono a creare una frattura fra queste mobilitazioni e le istituzioni stesse.

 

Come si è articolata l’esperienza dei movimenti sociali negli ultimi anni circa le tematiche di genere? All’interno dei partiti politici esiste attualmente una mobilitazione femminile per l’avanzamento di un’agenda per l’uguaglianza di genere? 

Donatella Della Porta: Dobbiamo partire dalla definizione di genere che si è trasformata nel tempo, andando a comprendere tra i diritti di genere non solo le rivendicazioni delle donne, ma anche quelle relative all’orientamento sessuale. Rispetto a questi diritti in generale l’Italia è in una situazione di arretratezza, ancora più grave, fino ad anni molto recenti, perfino a confronto con altri Paesi a grande influenza cattolica: si pensi a cosa è stato fatto in Spagna per il riconoscimento dei diritti non solo delle donne ma anche della comunità LGBTQIA+, così come in Irlanda dove i referendum hanno sancito libertà molto maggiori che nel caso italiano. I movimenti che si sono mobilitati su questi temi hanno sottolineato come non si tratti solo di richieste che attengano alla dimensione dei diritti civili, ma abbiano anche una forte dimensione economica e sociale, in quanto le forme di sfruttamento nei sistemi capitalisti vivono anche di discriminazioni dal punto di vista dell’orientamento sessuale. La declinazione che di questi temi viene fatta all’interno dei partiti in Italia sembra invece limitarsi soprattutto a quella sfera dei diritti civili di cui si parlava, traducendosi ad esempio in rivendicazioni miranti ad una maggiore attenzione alla presenza femminile nei parlamenti e nella politica istituzionale. Manca invece nelle istituzioni una rivendicazione più complessiva, che colleghi il patriarcato alle forme dello sfruttamento capitalistico. Questo riflette una tradizionale divisione esistente nel movimento femminista, fra rivendicazioni più liberali e rivendicazioni più sociali. Il secondo elemento, che appare fondamentale nella quarta ondata di femminismo rappresentata da movimenti come Non Una Di Meno, manca di rappresentanza all’interno delle istituzioni in Italia.

 

In un suo libro di prossima uscita lei affronta anche il tema dei movimenti regressivi, citando l’esempio delle proteste “no vax”, che definisce reazionarie. Potrebbe descrivere le caratteristiche di questi movimenti e il loro ruolo all’interno dei regimi democratici?

Donatella Della Porta: Questo libro, in uscita con Oxford University Press, guarda a un’altra faccia della medaglia rispetto a quella che ho analizzato in un altro libro che è appena uscito con Cambridge University Press sui movimenti progressisti nel periodo della pandemia e propone una comparazione implicita con questi movimenti. Le proteste no vax le considero regressive da più punti di vista. In primo luogo, se guardiamo alle definizioni classiche di destra e sinistra, si pensi a Norberto Bobbio per esempio, l’obiettivo delle mobilitazioni progressiste è quello dell’uguaglianza, non solo di opportunità ma anche effettiva. È quindi un obiettivo di solidarietà che si è espresso anche attraverso diverse forme di attivazione dei movimenti progressisti nel periodo pandemico. Le rivendicazioni no vax sono state spesso considerate come rivendicazioni ambigue, con richiesta di libertà prima di tutto. Quello che sottolineo nel libro è che in tali rivendicazioni c’è una forte componente di sostegno alla disuguaglianza e di mancanza di solidarietà, perché il discorso esplicitato sui temi della risposta alla malattia privilegia le fasce forti, a meno rischio di contagio, della popolazione e proclama una libertà assoluta che prescinde dalla solidarietà con chi ha più probabilità di essere colpito dal virus. Nella concezione della sanità e della salute, i movimenti progressisti hanno chiesto un’estensione del sistema di salute pubblica, anche attraverso l’abolizione dei brevetti sui vaccini, pensando anche a popolazioni non occidentali e che non appartengono al Nord globale. I movimenti no vax, invece, hanno fatto riferimento al privilegio di chi ha un sistema immunitario più forte. Questo è un primo criterio che distingue sinistra e destra, movimenti progressisti e regressivi. Ma c’è anche un’altra definizione che è quella del livello di diffusione di fake news e teorie cospirative, che ha coinvolto aree che erano già schierate a destra. Nel libro ho preso in esame il caso dell’Italia, comparandolo con Grecia e Germania, con uno sguardo anche alla Spagna e agli Stati Uniti, e quello che è emerso in questi Paesi è che i principali reticoli organizzativi che si sono attivati sono quelli che fanno riferimento all’area della destra radicale, che ha posizioni anti-egualitarie su diversi temi. Sul tema sanitario si sono sviluppate le posizioni più escludenti e razziste della destra, nell’individuazione dei migranti come fonte di contagio e come persone deboli dal punto di vista immunitario, quindi da trascurare. Inoltre, si è osservata anche un’importante presenza dei movimenti anti-gender, che hanno ripreso e rilanciato anche le teorie più inverosimili, ad esempio quelle che sostenevano che il vaccino fosse prodotto con l’impiego di feti umani, ma soprattutto che hanno condiviso delle richieste, anche queste regressive, di completa delega alle famiglie circa le decisioni sull’educazione dei figli, in relazione anche ai vincoli anti-contagio contro la diffusione del virus nelle scuole. Si ha in questo caso la rivendicazione di una libertà assoluta dei genitori nell’educazione dei figli, che non a caso è legata alle rivendicazioni sulle scuole parentali, di sovranità della famiglia naturale, che erano emerse nelle prime ondate di protesta contro la vaccinazione dei bambini, una volta che questa era stata resa obbligatoria. Siamo quindi in presenza di un caso di intreccio tra diversi movimenti regressivi. A questo si è sommato un altro fenomeno legato ad una componente new age – solitamente associata ad ambienti più progressisti –, che aveva trovato origine all’interno di movimenti ambientalisti ma che poi si era evoluta, spaccata, divisa. Da una parte era andata verso forti fenomeni di commercializzazione, tutta l’area della medicina naturale ad esempio, dall’altra parte aveva accentuato la dimensione antistatale e di creazione di forme di rivendicazione di libertà assoluta del singolo e di indifferenza alle libertà e diritti altrui. Abbiamo visto che nelle reti no vax c’è stata anche una presa di posizione forte contro i diritti delle donne, i diritti di genere e a favore del sostegno a Putin, confermando questo tipo di analisi per cui possiamo definirli come movimenti regressivi. Si può anche dire che, guardando agli eventi di protesta nei Paesi oggetto della mia ricerca, gli eventi più visibili hanno avuto come target non solo alcune istituzioni statali (ad esempio, centri vaccinali) e medici ed esperti, ma anche attori di sinistra. In Italia lo abbiamo visto con l’assalto alla sede della CGIL, negli Stati Uniti è ancora più visibile nella contaminazione fra no vax e movimento MAGA (Make America Great Again). Quindi, considerando tutti e quattro gli elementi definitori dei movimenti elencati in precedenza, i movimenti no vax possono essere classificati come movimenti regressivi che si sono mossi verso una direzione molto settaria.

 

Quali riflessioni si possono trarre, invece, rispetto alle mobilitazioni pro-democrazia nei contesti non democratici? Si pensi alle proteste in Russia, alle ultime elezioni in Cile e Brasile e alla contestazione in atto in Iran…

Donatella Della Porta: Abbiamo assistito a numerose ondate di protesta nel mondo, anche nei regimi autoritari in periodi recenti: proteste che spesso non ci si aspettava perché sono avvenute nei regimi più autoritari, come la Cina e l’Iran. Se guardiamo alla storia recente notiamo che non sono però un caso eccezionale: basta ricordare il 2011 con le cosiddette primavere arabe, il 2013 con Gezi Park a Istanbul ed Euromaidan e anche le proteste in Brasile, il 2019 con proteste che andavano da Hong Kong al Libano e al Cile. Quello che si osserva adesso è il fatto che all’interno dei regimi autoritari esistono spazi di protesta e questi movimenti coagulano e catalizzano forme di dissenso, magari più locali e settoriali, già esistenti. Vi è, allo stesso tempo un’attenzione reciproca tra movimenti di protesta in diverse parti del mondo e queste ondate testimoniano di momenti di cross-fertilizzazione e imitazione delle forme di protesta. Avviene una sorta di socializzazione all’idea che la mobilitazione dei cittadini è possibile, anche in condizioni di forte repressione. La dimensione generazionale è anche qui molto importante. Nel caso delle primavere arabe i giovani hanno avuto un ruolo cruciale, sia perché si sentivano poco rappresentati, sia perché la popolazione giovane aveva un peso demografico importante sul totale della popolazione. Nel caso della Cina osserviamo che l’espansione delle forme di protesta è legata all’avanzamento del sistema di produzione capitalista. Ci sono tante ricerche al riguardo, che mostrano come l’espansione del capitalismo comporti un’espansione delle rivendicazioni dei lavoratori. La pandemia ha accentuato la percezione che esistessero delle sfide globali: non sono solo i virus ad attraversare i confini manifestando la necessità di trovare soluzioni sovranazionali. Anche altri tipi di sfide, come quella climatica, sono trasversali rispetto ai confini nazionali. Questo trova un riscontro nello sviluppo di forme di protesta anche nei regimi autoritari, con rivendicazioni che spesso sono simili a quelle delle democrazie avanzate, in quanto al contempo rivendicazioni di diritti civili, politici e sociali, che anche nel mondo occidentale sono considerati come indeboliti da una serie di trasformazioni economiche, culturali e politiche.

 

Come si esprime oggi la leadership nei movimenti? Il generale quadro di personalizzazione delle leadership dell’attuale fase storica quali conseguenze produce per la capacità dei movimenti di influenzare le decisioni prese dal decisore pubblico?

Donatella Della Porta: È un discorso complesso, perché normalmente i movimenti sociali si sono presentati come leaderless, movimenti dal basso senza leader. Da un certo punto di vista è vero che movimenti come Non Una Di Meno mantengono ancora questa struttura orizzontale, che viene anche facilitata dalle nuove tecnologie che permettono azioni di mobilitazione rapide e bassa componente di organizzazioni strutturate. Quindi c’è una dimensione grassroots, dal basso, che non è superata. D’altra parte, è vero che i movimenti hanno avuto dei portaparola o delle figure che hanno avuto molta visibilità e capacità di rappresentare simbolicamente questi movimenti, si pensi ad esempio alla figura di Greta Thunberg. Tengo a sottolineare la parola “simbolicamente”, anche perché in questo caso, in realtà, il potere del leader di controllare l’organizzazione non c’era. Fridays for Future si caratterizza come un’organizzazione con una struttura molto diffusa, con un’alta capacità di mobilitazione in occasione di determinati eventi come gli scioperi globali, per poi tornare a nuclei abbastanza ristretti, e locali, di attivisti nella gestione delle attività quotidiane. Manca quindi quella dimensione che era propria della costruzione della leadership nei partiti della sinistra o dei sindacati, che era spesso una leadership che sommava capacità di controllo dell’ideologia con capacità di controllo dell’organizzazione. In questo caso tali figure sono più icone mediatiche e simboli di identificazione che leader capaci di controllare risorse organizzative. Anche Black Lives Matter ha questa caratteristica. In generale, c’è un trade off fra una figura simbolicamente importante, che ha funzione di aggregazione e di facilitazione nella comunicazione di un messaggio e la presenza di organizzazioni strutturate. Se si è forti nella prima dimensione, c’è il rischio di avere una struttura organizzativa più debole che non riesce a mantenessi nelle fasi di bassa mobilitazione mentre un modello più strutturato può ostacolare l’innovazione (necessaria, per esempio, per coinvolgere nuove generazioni). La sfida della resilienza nei periodi di bassa mobilitazione è certamente importante, dato che leadership deboli e massmediatiche, piuttosto che organizzative, sono spesso di corto respiro. Pensiamo alle Sardine, che avevano quattro leader che non sono riusciti a dare spazio alle istanze provenienti dal movimento, portando ad una rapida riduzione della fiducia interna e del consenso esterno. L’importanza dei leader viene, invece, rivendicata ad esempio in America Latina ed è visibile nella presenza di figure come Lula oggi o Morales in passato. In conclusione, da un lato c’è il bisogno di un leader e dall’altro lato la necessità di costruire una leadership condivisa che possa andare oltre una figura di rappresentanza simbolica.

 

In che modo la diffusione delle tecnologie digitali ha influenzato l’attivismo e la partecipazione nei movimenti sociali, con riferimento in particolare a fenomeni di mobilitazione transnazionale e di diffusione dei movimenti di protesta? Che ruolo ha avuto, e ha tuttora, questo fattore nelle proteste nei Paesi non democratici?

Donatella Della Porta: I movimenti hanno bisogno di comunicare con l’esterno: la protesta è appunto un modo di attirare attenzione e deve essere accompagnata da parole, da discorsi e contenuti. Le rivoluzioni tecnologiche che hanno comportato trasformazioni nel mondo della comunicazione sono quindi state cruciali per i movimenti. Tuttavia, i movimenti non usano solo i social media. Quello dei social media è un canale di comunicazione che si inserisce all’interno di una molteplicità di strategie comunicative. Vi è in primo luogo la comunicazione diretta, tramite incontri faccia a faccia durante le assemblee, oppure tramite la diffusione di volantini, documenti, interviste. Gli attivisti sanno che non esistono solo i social media, seppur stiano diventando sempre più importanti, soprattutto per la generazione che sta svolgendo un ruolo fondamentale in questi movimenti. I social media hanno ovviamente vantaggi e svantaggi. Tra i vantaggi principali vi è la capacità di coinvolgere una generazione che, quando si aggrega in azione collettiva, ha voglia di costruire forme di partecipazione personalizzate dal basso e in maniera reticolare. Si tratta di riflessioni emerse già nel momento del referendum contro la privatizzazione dell’acqua. In quel momento era stata osservata la capacità di arricchimento in termini di mobilitazione da parte di questi cittadini, che sui social media trovavano lo spazio per informare le persone e permettere loro di partecipare. Si incentivava, così, sostanzialmente la mobilitazione di quel “cittadino giornalista” di cui parlava anche Manuel Castells, ovvero la capacità di attivarsi senza avere bisogno di filtri e mediatori. Naturalmente, sono soluzioni a basso costo, che permettono collegamenti facili a livello globale e di far circolare le informazioni velocemente, tutti elementi importanti per le necessità dei movimenti, che hanno poche risorse e per cui il tempo è un fattore cruciale. La sfida, che è stata studiata da esperti di comunicazione e antropologi, è che l’uso dei social media favorisce la partecipazione personale o di piccolo gruppo; quindi, ha meno bisogno delle reti organizzative, ma ha più difficoltà a costruire strutture che possano sopravvivere al declino inevitabile della mobilitazione. Non è un destino ineluttabile, perché i movimenti non usano solo i social media, che, però, sono utili per mobilitazioni rapide e massive. Senza di essi gli scioperi di Fridays for Future sarebbero stati impossibili, ma occorre anche considerare l’indebolimento del ruolo delle organizzazioni e anche della costruzione delle organizzazioni.

 

L’intersezionalità è indubbiamente un concetto/framework di grande attualità non solo per la ricerca, ma anche per le pratiche di mobilitazione e attivismo. Quali sono le sfide e le opportunità nel cercare di disegnare una mobilitazione che riesca a tenere insieme dimensioni quali genere, etnia, classe, orientamento sessuale? Più in generale, quella dell’intersezionalità può essere la lente interpretativa con cui guardare alle disuguaglianze?

Donatella Della Porta: La riflessione sulle differenze intersezionali è stato promossa dai partiti e dai movimenti di sinistra, nel cercare di cogliere i collegamenti tra forme di discriminazione in una analisi complessa di diagnosi e prognosi in grado di considerare l’intreccio tra le diverse forme di sfruttamento. Concretamente, se guardiamo anche a movimenti come Black Lives Matter, l’impressione è che questa alleanza proceda anche dal basso. Nel nostro Paese, le forze di destra dimostrano l’intento di non riconoscere i diritti di genere – inteso come abbiamo già detto come termine che include i diritti delle donne ma anche quelli relativi all’orientamento sessuale – cosa che non sorprende se consideriamo i legami fra i movimenti anti-gender e i partiti della destra radicale in Italia. Se pensiamo alle mobilitazioni femministe, che non a caso ora vengono definite trans-femministe, notiamo l’importanza data alla costituzione di una coalizione ampia contro un nemico potente. Nel caso di Black Lives Matter, una caratteristica delle proteste era di focalizzare l’attenzione su tematiche di discriminazione razziale e di violenza razzista, però questo era collegato alle ineguaglianze di genere e alla precarietà sul lavoro, coinvolgendo infatti nella mobilitazione il movimento delle donne, il movimento ambientalista, e anche movimenti che si sono mobilitati più sul tema del lavoro. Si pensi al caso toscano del collettivo della GKN che è diventato un simbolo di questa capacità di creare coalizioni intersezionali, ben visibile nell’appello “Insorgiamo” che si rivolge a soggetti di tipo diverso. C’è quindi bisogno di combinare questo processo di alleanza dal basso, che spesso è difensivo ma porta ad una conoscenza reciproca e all’elaborazione di identità collettiva, con una riflessione teorica sulla costruzione di progetti che possano tenere insieme le diverse rivendicazioni, non solo in termini di alleanza tattica ma anche in termini di progetto comune. Occorre anche connettere la dimensione più di rivendicazioni socioeconomiche e di classe con le altre forme di discriminazione. A questo bisogna aggiungere la dimensione generazionale, che è esplicita in alcuni movimenti come nel caso di Fridays for Future, mentre in altri resta implicita.

 

Quali sono le questioni aperte e le sfide che i movimenti devono affrontare con maggiore priorità in questo momento storico?

Donatella Della Porta: Ci sono sfide legate alla separazione fra azione della società civile e canali di accesso alle decisioni istituzionali. In passato, infatti, i movimenti erano collegati strettamente ai partiti politici nati dal movimento operaio e radicati in una classe sociale, anche attraverso la guida di forme di protesta. Questa percezione di partiti che rappresentano i movimenti dentro le istituzioni non c’è più. Anzi, c’è la percezione, se pensiamo al caso dei Verdi tedeschi rispetto al movimento ambientalista, che i partiti siano ormai sempre meno capaci di rappresentare queste rivendicazioni. Questa è una sfida perché, se da un lato rafforza la percezione che la protesta sia necessaria, è anche vero però che i movimenti di protesta si reggono anche sulla speranza che la propria azione sia efficace. Se la protesta non riesce a penetrare le istituzioni alla lunga produce delusioni e frustrazione, con un ritorno al privato. Questo diventa sempre più complicato e difficile nella situazione attuale, caratterizzata da crisi molteplici che si intrecciano. Vi è innanzitutto la crisi economica e finanziaria, ancora non superata al momento dello scoppio della crisi pandemica. Entrambe queste crisi si sovrappongono alla crisi climatica, ovviamente presente da lungo tempo, ma che viene ora tematizzata in modo molto più intenso. A questo si aggiunge ora anche la crisi energetica. Si tratta di situazioni di crisi che, dal punto di vista di movimenti come Fridays for Future, Extinction Rebellion, Last Generation, accentuano la percezione dell’urgenza dell’intervento ma accrescono al tempo stesso l’impressione di una non capacità di risposta da parte delle istituzioni. Dobbiamo infine considerare che, mancando la rappresentanza di alcuni tipi d’interessi, in molti Paesi sono i partiti di centrosinistra che pagano di più la mancanza di fiducia da parte dei cittadini. I partiti di centrodestra che contano su interessi più forti e un messaggio economico più risonante con gli sviluppi neoliberisti, riescono a mantenere il loro elettorato; nel centrosinistra le difficoltà vengono dalla incapacità dei partiti esistenti di convincere un elettorato più esigente, anche su questioni etiche e che superano i confini nazionali. È la percezione di un gap di rappresentanza che si esprime anche nell’astensione alle elezioni di coloro che un tempo erano base di riferimento di questi partiti. A questo tipo di difficoltà nel trovare sponda istituzionale, i movimenti hanno risposto spesso tramite una penetrazione diretta nelle istituzioni, anche in termini di decisione pubblica. In un libro che ho scritto di recente sulle decisioni dal basso, guardo all’uso che i movimenti hanno fatto dello strumento referendario, alla creazione di partiti politici nuovi – che, pur non rappresentano i movimenti, ne sono espressione in qualche modo –, così come ai processi costituzionali avvenuti in Islanda o in Cile, considerati come fondamentali da parte dei movimenti stessi. La sfida è, quindi, collegare la protesta che nasce all’interno della società – che esprime rivendicazioni molto politiche – con le istituzioni.

Scritto da
Lorenzo Cattani

Assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Ha frequentato un Master in Human Resources and Organization alla Bologna Business School (BBS) e conseguito la laurea magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche all’Università di Bologna.

Scritto da
Eleonora Desiata

Assegnista di ricerca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Alumna dell’Università di Bologna e dell’Università Bocconi, ha conseguito il dottorato in Scienza politica e Sociologia alla Scuola Normale Superiore. Si occupa prevalentemente di attivismo e forme della partecipazione politica, città, welfare e azione sociale diretta.

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