Scritto da Massimiliano Frenza Maxia
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Del Mozambico in Italia non si è mai parlato molto: il momento di massima presenza dell’ex colonia portoghese nei media italiani è stato probabilmente l’inizio degli anni Novanta, ovvero quando nell’ottobre del 1992, grazie alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio, furono firmati gli Accordi di Roma che posero fine alla guerra civile tra il governo mozambicano sostenuto dal Fronte per la liberazione del Mozambico (FRELIMO), formazione di ispirazione marxista che aveva portato il Paese all’indipendenza dal Portogallo nel giugno 1975, e il Fronte di Resistenza Nazionale Mozambicana (RENAMO), formazione di destra sostenuta dalla Rhodesia e dal Sudafrica. Celebrati gli accordi di pace, per l’Italia e in generale per il mondo occidentale, il Mozambico è piombato in un periodo di oblio, trent’anni in cui l’unico Paese che si è attivamente interessato all’ex colonia portoghese è stata la Cina, che molto ha investito nell’ambito della sua politica “africana”. Trent’anni di oblio interrotti da una strana e, almeno all’inizio sottovalutata, insurrezione jihadista nel nord del Mozambico, nella povera provincia di Cabo Delgado. Cabo Delgado rappresenta efficacemente le contraddizioni e le ambiguità dell’ex colonia portoghese: si tratta della zona più povera del Paese, fortemente compenetrata dalla minoranza di fede musulmana ma, allo stesso tempo, più ricca di risorse fossili. A Cabo Delgado sono stati scoperti importanti giacimenti di gas che hanno spinto Total (on-shore), Exxon Mobile ed Eni (off-shore) a operare significativi investimenti. Non solo, la zona è uno snodo fondamentale per il contrabbando di rubini, avorio, legnami preziosi e, soprattutto, approdo e zona di smistamento per le rotte verso l’Europa dell’eroina afgana[1].
La strana insurrezione di Cabo Delgado
L’insurrezione jihadista di Cabo Delgado è iniziata in sordina nell’ottobre del 2017[2]. A portarla avanti sono giovani combattenti, per lo più mozambicani ma non solo, guidati da capi locali indottrinati da predicatori di origine keniota e somala, in particolare dal pensiero dell’imam Aboud Rogo Mohammed, ucciso dalle forze di polizia nel 2012 a Mombasa, in Kenya, e ritenuto vicino agli al-Shabaab somali. Le sue predicazioni in arabo, ma anche in lingua swahili, si sono diffuse in Tanzania, Ruanda, Uganda e Burundi, basi di addestramento di diversi gruppi armati. Il gruppo insorgente genericamente riconosciuto come al-Shabaab[3] – senza però alcun legame con il noto gruppo somalo – deve paradossalmente la propria notorietà nel panorama del jihadismo internazionale agli Stati Uniti che, compiendo un clamoroso errore, lo hanno riconosciuto come affiliato allo Stato Islamico, offrendo agli insorti una vetrina di riconoscibilità a livello internazionale e consentendo allo Stato Islamico di rivendicare le azioni della Wilayat Wasat Ifriqiya, la Provincia dell’Africa Centrale (ISCAP), al punto che oggi si parla della nascita di una Wilayat Mozambique.
L’insurrezione ha avuto il suo apice prima con la presa di Mocímboa da Praia, città portuale della provincia nord di Cabo Delgado, e poi il 24 marzo del 2021 con l’attacco e la presa della città di Palma, sede di un importante investimento della francese Total sul gas naturale liquefatto (GLN) in cooperazione con Eni ed ExxonMobil. A seguito dell’attacco la Total ha sospeso il progetto e migliaia di abitanti della zona sono dovuti riparare più a sud. Di fronte a tale situazione, il governo mozambicano ha avviato delle fallimentari operazioni di controguerriglia, coadiuvate prima dal sudafricano Lancaster Six Group, quindi dai russi della compagnia militare privata Wagner – giunti nel Paese nel 2019 per sostenere la rielezione dell’attuale presidente Filipe Nyusi e poi impegnati in operazioni contro gli insorti[4] – e infine dal gruppo sudafricano Dyck Advisory Group. Nessuna delle precedentemente citate private military company ha ottenuto il risultato atteso, tanto che il governo mozambicano ha dovuto accettare la necessità di richiedere l’intervento di truppe ruandesi e quindi dei Paesi della Southern African Development Community (SADC), coadiuvati anche da istruttori militari provenienti dall’Unione Europea, in particolare portoghesi.
L’azione combinata delle forze ruandesi, della SADC e del supporto logistico UE ha in pochi mesi liberato le zone sotto controllo dei guerriglieri, respingendoli nella foresta al confine poroso tra Mozambico e Tanzania. A valle di ciò, fin dall’inverno 2021-2022 si parla di una ripartenza delle attività estrattive sul territorio, in particolare degli impianti on-shore di Total, i più esposti alle azioni della guerriglia, nonché dell’industria estrattiva, come ad esempio la miniera di grafite gestita dalla australiana Triton Minerals. In realtà, a partire dalla primavera le notizie di nuovi attacchi si stanno moltiplicando e non c’è giorno in cui i diversi organi di informazione mozambicani, uno su tutti il portale di informazione online Club of Mozambique[5], o l’analista sudafricana Jasmine Opperman[6], non raccontino di nuovi attacchi e uccisioni. La guerriglia è tutt’altro che sotto controllo e, anzi, sembra essere nuovamente all’offensiva e in grado di reclutare combattenti, alcuni dall’estero – in particolare da Tanzania, Kenya e Somalia –, e molti fra i giovani mozambicani senza prospettive di lavoro del nord.
Mozambico conteso: i casi Russia e Cina
Il Mozambico è estremamente ricco di risorse, gas, minerali, legname e mari pescosi. Per questo motivo diversi Paesi se ne sono interessati nell’ultimo ventennio. La Russia è stata la nazione che maggiormente ha aiutato il presidente Nyusi nella rielezione del 2019. Tale operazione, veicolata tramite il Wagner Group, ha fruttato per la società petrolifera russa Rosneft due concessioni per lo sfruttamento del gas off-shore[7], progetti che tuttavia non si sono ancora concretizzati. Il Mozambico è peraltro parte dei 25 Stati africani (su 35 totali) che si sono astenuti o non hanno partecipato al voto ONU lo scorso 2 marzo per chiedere alla Russia di cessare il fuoco in Ucraina. Le relazioni Mosca-Maputo risalgono agli anni della lotta militare del FRELIMO contro il dominio portoghese. L’URSS in quegli anni sostenne militarmente gli insorti e continuò ad aiutare il FRELIMO durante la guerra civile contro il RENAMO. Il Mozambico inoltre, come molti Paesi africani, è dipendente dal grano russo. Nel settembre del 2010, a causa del forte aumento dei prezzi – il prezzo del pane crebbe del 30% –, nel Paese scoppiarono violente rivolte con decine di morti e centinaia di feriti. In estrema sintesi, la proposta russa verso il Mozambico è sempre la stessa e il suo focus verte sulla sicurezza: sicurezza in senso stretto, tramite aiuti militari, materiali ma anche direttamente sul campo – si veda l’utilizzo della Wagner contro i jihadisti –, e sicurezza alimentare, tramite la fornitura di grano. In cambio la Russia ottiene dal Mozambico i voti utili (o le altrettanto utili astensioni) per non restare isolata nel mondo e all’interno delle Nazioni Unite.
Per quanto riguarda la Cina, il Mozambico è uno dei Paesi target per gli interessi strategici di Pechino. La penetrazione cinese nel Paese risale al primo decennio di questo secolo ed è stata esponenziale. In particolare, la Cina si è interessata a due risorse di cui è ricco il Mozambico sud-equatoriale, ossia il legname e il pesce, mantenendo comunque una certa attenzione anche verso l’industria mineraria e le prospettive di quella del gas. In cambio la Cina ha portato in Mozambico infrastrutture – anche se, nella maggior parte dei casi, senza trasferire know-how. La costruzione di ponti, alberghi, edifici governativi, dighe e porti è avvenuta con manodopera cinese e se questo, da un lato, non ha favorito la formazione delle maestranze locali né una massiccia occupazione, dall’altro è stato accolto favorevolmente dall’opinione pubblica mozambicana, perché la Cina ha creato una discontinuità con la tradizione locale dell’immobilismo e delle mancate promesse governative sulle opere pubbliche. Il prezzo pagato alla Cina non è stato tuttavia risibile. Da un lato, questo ha riguardato lo sfruttamento delle foreste – Pechino è fortemente interessata al legname a basso costo – e dall’altro quello dei mari pescosi. In tale contesto si colloca ad esempio il finanziamento cinese, tramite la EximBank, del porto di Beira, operazione avviata nel 2015 e destinata a favorire la gestione di 70.000 tonnellate annue di pescato. Il problema in questo caso non è molto diverso da quello subito dai piccoli pescatori di Cabo Delgado, a cui i diritti di sfruttamento ottenuti dalle multinazionali dell’industria estrattiva hanno limitato, se non chiuso, l’accesso al mare. I piccoli pescatori mozambicani lamentano che l’arrivo dei grandi pescherecci oceanici cinesi produce un sovrasfruttamento dei mari mozambicani, distruggendo le riserve ittiche e impedendo di perpetuare quel modello di economia di sussistenza che garantiva loro di che vivere e ai mari un buon equilibrio.
Gli interessi italiani
Gli interessi italiani e in generale quelli dei Paesi UE in Mozambico ruotano intorno al gas e in particolare alla possibilità di estrarlo e renderlo trasportabile attraverso un processo di liquefazione da attuare direttamente in loco, nell’ambito di piattaforme off-shore. Non è un caso che il Mozambico sia stato visitato prima dal tandem Di Maio-De Scalzi (a marzo 2022) e poi dal Presidente della Repubblica Mattarella (a luglio 2022). Eni in particolare è presente nel Paese dal 2006 e, nell’ambito del bacino di esplorazione del Rovuma, detiene i diritti di sfruttamento, in partnership con altre società, dei giacimenti Coral, Mamba Complex e Agulhaed, per 2.400 miliardi di metri cubi di gas stimati. In particolare, Eni si occupa sia della fase upstream – esplorazione, perforazione ed estrazione – che della fase midstream – liquefazione, stoccaggio e trasporto – per il GNL, ovvero il prodotto più ambito da tutti quei Paesi europei chiamati a sostituire il gas russo. L’intera attività avviene tramite un’avveniristica piattaforma galleggiante, costruita in Corea e posizionata nel bacino del Rovuma, dotata di uno scafo lungo 432 metri e largo 66, pesante circa 140.000 tonnellate e provvista di un modulo abitativo di otto piani, in grado di ospitare fino a 350 persone. Si tratta della Coral Sul Floating Liquefied Natural Gas (FLNG) che, come specificato da Eni, «metterà in produzione 450 miliardi di metri cubi di gas del giacimento»[8]. Eni inoltre, sempre nell’ambito dell’Area off-shore 4 del bacino del Rovuma, sta avviando progetti per lo sviluppo dei campi di Mamba e delle zone a cavallo con l’Area off-shore 1, attraverso un piano indipendente ma coordinato con l’operatore concessionario, la francese Total. In questo caso Eni si occuperà solo dell’upstream mentre ExxonMobil guiderà la costruzione degli impianti on-shore di midstream. Ovviamente questa seconda parte del progetto è fortemente legata al ripristino della sicurezza a Cabo Delgado.
Gas: manna o iattura?
In Mozambico se lo chiedono in molti. Da un lato gli immensi giacimenti, laddove sfruttati bene, potrebbero portare al Paese tassi di sviluppo inattesi, dall’altro diverse ONG, mozambicane e non, temono sia gli impatti “ambientali” delle attività estrattive sia che gli interessi che vi ruotano attorno soffino benzina sul fuoco dell’insurrezione jihadista. A maggio il conflitto scatenatosi nel 2017 contava già 3.000 morti e 800.000 sfollati. Molti osservatori sono convinti che dietro l’insorgenza jihadista ci sia la volontà da parte dei trafficanti di droga, di pietre preziose e di legname di riprendere il controllo di un territorio che, una volta divenuto sede di investimenti internazionali legati al gas, rischia di essere fortemente controllato dalle Forze Armate di Difesa Mozambicane (FADM) e dai contractor delle major petrolifere. Non è poi escluso che simpatizzanti della guerriglia si celino dietro la fazione del RENAMO, che proprio nel nord del Paese aveva i suoi interessi e i suoi traffici. La guerriglia è del resto sostenuta dall’arruolamento di giovani precedentemente impegnati in un’economia di sussistenza legata alla pesca e che con l’arrivo delle diverse società petrolifere hanno perso accesso al mare, senza peraltro ricevere in concessione le machamba, ovvero fattorie agricole da coltivare. Vi è poi un problema legato all’ambiente: per quanto le major petrolifere adottino gli standard previsti dalle leggi internazionali, l’impatto sui mari e sui territori resta devastante, senza contare che le attività di perforazione vanno ad insistere in una zona, il nord del Paese, che secondo l’UNESCO fa parte delle più ricche riserve della biosfera mondiale[9].
Conclusioni
La prospettiva mozambicana risulta in forte evoluzione. Se nel trentennio andato dalla fine della guerra civile ai giorni nostri il Mozambico ha vissuto in una sorta di limbo – anche se almeno dagli anni Duemila la Cina aveva incominciato ad interessarsi fortemente al Paese –, oggi il mix generato dall’insurrezione jihadista nel nord e dalla corsa al gas ha impresso una violenta accelerazione alle dinamiche interne. La comunità internazionale, Italia compresa, è chiamata a un duplice importante sforzo: favorire uno sfruttamento sostenibile delle risorse del Paese e, allo stesso tempo, contribuire all’azione securitaria per contenere l’insurrezione a Cabo Delgado. Il problema dell’insurrezione è più economico che religioso: diversi analisti concordano nel sostenere che la radicalizzazione dei giovani combattenti rappresenti in realtà un epifenomeno della situazione socioeconomica in quelle regioni del nord del Mozambico lontane da Maputo e abbandonate dal governo. Purtroppo, alla luce di precedenti esperienze – come l’Iraq del post Saddam Hussein o la Siria –, è probabile che l’onda jihadista sia ancora nella fase espansiva. Sarà interessante vedere se rimarrà confinata nel nord o se sarà addirittura in grado di portare attacchi a Maputo, o di far desistere definitivamente società come Total, più esposte perché titolari di impianto on-shore, dai propri investimenti.
Immagine di copertina: Forze di sicurezza del Ruanda in pattuglia a Mocímboa da Praia nella provincia di Cabo Delgado.
[1] Francesco Paolo La Bionda, Dietro la jihad in Mozambico, povertà e narcotraffico, «Aspenia online», 24 febbraio 2021.
[2] Per maggiori sull’origine dell’insurrezione dettagli si veda Massimiliano Frenza Maxia, La strana insurrezione jihadista in Mozambico, Radio Immagina, 11 giugno 2021.
[3] Altre denominazioni generiche del gruppo sono Ansar al-Sunna che tradotto letteralmente significa “gli ausiliari della tradizione”, nome già usato dagli insorti iracheni delle aree sunnite che si opposero al nuovo regime imposto dagli Stati Uniti all’indomani della deposizione di Saddam Hussein. Altro nome della formazione è Ahlu Sunnah wal-Jamaa (ASWJ), che però rimanda ad ambienti somali, ma non legati ad al-Shabaab, bensì di orientamento sufi moderato e in opposizione al radicalismo salafita degli Shabaab.
[4] Come detto l’operazione della Wagner ha ottenuto il suo scopo primario, garantire la rielezione del presidente Filipe Nyusi, portando a casa in cambio concessioni per Rosneft e Gazprom, ma ha fallito nelle operazioni di controguerriglia, al punto che dopo aver subito perdite sostanziali, il Gruppo Wagner si è ritirato dalle operazioni contro i jihadisti. Ciò nonostante la casa di produzione Aurum, legata al capo della Wagner Yevgeny Prigozhin, ha prodotto un film intitolato Granit che racconta le gesta dei mercenari russi che hanno combattuto a Cabo Delgado.
[5] Si veda l’account Twitter @clubOmozambique.
[6] Si veda l’account Twitter @Jasminechic00.
[7] Tristan Coloma, La stratégie économico-sécuritaire russe au Mozambique, «Notes de l’Ifri», maggio 2020.
[8] Per maggiori dettagli si veda il sito dell’Eni e in particolare la pagina dedicata al progetto: https://www.eni.com/it-IT/attivita/mozambico-coral-south.html
[9] Si veda a tale proposito l’intervista rilasciata da Kate Fumo e Ilham Rawoot, della ONG mozambicana Justiça Ambiental/Friends of the Earth Mozambique, Luca Bussotti, Mozambico: Cabo Delgado maledetta dalle sue risorse, «Nigrizia», 10 maggio 2022.