Scritto da Dominique Saatdjian
10 minuti di lettura
Pubblichiamo questo contributo di Dominique Saatdjian, rielaborato a partire dall’intervento tenuto al convegno “Economia e politica dopo la catastrofe. L’eredità di Claudio Napoleoni” organizzato il 10 dicembre 2020 dalla Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci. Il convegno ha preso le mosse dall’interesse per la figura complessa e sfaccettata di Claudio Napoleoni, confermata dalla recente riedizione del “Discorso sull’economia politica” a cura di Massimo Amato e Stefano Lucarelli e da articoli e saggi di numerosi altri autori. Ringraziamo Dominique Saatdjian e la Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci per la possibilità di ospitare il contributo.
A questo link Massimo Amato e Gianni Cuperlo in dialogo su Napoleoni; qui il contributo di Massimo Cacciari e sulla lezione di Napoleoni, qui il contributo di Stefano Lucarelli su Napoleoni e “Produzione di merci a mezzo di merci” di Sraffa, qui il contributo di Francesca Coin su Capitalismo e riproduzione sociale a partire dal dialogo tra Napoleoni e Ravaioli e qui il contributo di Massimo Amato su Napoleoni e Heidegger.
Per cominciare, credo di dover spendere qualche parola sul perché della presenza di Pasolini, poeta civile, accanto a Napoleoni, economista politicamente impegnato. In effetti entrambi, Pasolini e Napoleoni mi sembrano essere i soli, non soltanto al tempo loro ma ancora oggi, ad avere dato prova di qualcosa che nessuno a sinistra ha mai davvero esaminato con serietà, o addirittura giudicato degno d’esame. Mi riferisco, appunto, al fenomeno della tecnica quale Heidegger lo mette in luce. La tecnica non è qui l’applicazione tecnologica della scienza, uno strumento che possiamo padroneggiare o meno. Secondo Heidegger, la tecnica si inscrive in quello che egli chiama “destino dell’essere”, vale a dire la storia della metafisica, la storia della differenza fra essere ed ente. Con la tecnica è questione del compimento della metafisica, cioè di un pensiero totalmente addetto all’ente, alla sua organizzazione e al suo sfruttamento, un pensiero che non intende più l’essere se non a partire dall’ente, tanto da non vedere nell’essere nient’altro che il più essente fra gli enti. Nell’epoca moderna, con Nietzsche, che porta la metafisica al proprio compimento, questo pensiero metafisico dell’essere significa essere come volontà, volontà di espansione, come volontà di una potenza a sua volta esclusivamente orientata verso la volontà ‒ come volontà di volontà. Quando Heidegger parla di tecnica, si riferisce a tutto questo. Quindi la tecnica è indissociabile dalla sua rilettura della metafisica: egli ripercorre la storia destinata dell’essere, cioè la storia della sua differenza con l’ente e del modo con cui l’ente prevale sull’essere, smantella i presupposti filosofici che portano alla tecnica, e risale così a un primo inizio, e ci fa intravedere la possibilità di un altro inizio, capace di essere attento all’essere. Ed è proprio lì, presso un altro inizio, che si trova a mio avviso Napoleoni.
Quando Heidegger parla della tecnica usa la parola Gestell – la cui traduzione con “Imposizione” o con “Dispositivo” vorrebbe rendere l’idea, insieme, di ingiunzione imperativa e di messa a disposizione. Al Gestell non sfugge più nulla, incluso ciò che sembra sfuggirvi. Così tutto ciò che è, uomo incluso, non può apparire altrimenti che a disposizione di un funzionamento sociale esclusivamente rivolto a se stesso e alla propria efficacia, e il cui motore è l’economia. È quanto possiamo ben vedere attraverso il primato di uno sviluppo che è essenzialmente dell’ordine della competitività economica (e della crescita come ossessione).
È ciò che Pasolini dice a suo modo quando osserva che nell’Italia degli anni Sessanta il passaggio violento, perché senza transizione, da un mondo contadino a ciò che lui chiama il neocapitalismo ha prodotto una “mutazione antropologica”.
Quanto a Napoleoni, il suo rapporto con la tecnica gli permette anche di tracciare, pur senza mai sottovalutarne l’estrema finezza, i limiti del pensiero di Marx. È a partire da questa specifica operazione che lo vediamo avventurarsi sul terreno di un’azione politica, economica e sociale, non più riconducibile alle categorie di pensiero che hanno dato origine al capitalismo (e al socialismo) dell’Ottocento e della prima metà del Novecento.
Sia detto di passaggio: non posso non notare che in Italia, e solo in Italia – e davvero bisognerebbe chiedersi seriamente perché – è accaduto che un poeta, da una parte, e un economista, dall’altra, abbiano prestato attenzione, ognuno a suo modo, ma veramente, a qualcosa a cui i politici e gli intellettuali di sinistra, in Italia e altrove, rimanevano, e rimangono ancora, del tutto sordi.
Al fine di impostare le osservazioni che seguiranno, vorrei citare un passo di Pasolini, che si trova in Volgar’eloquio: «Vediamo un capitalismo completamente nuovo, quindi bisogna lottare in un modo diverso, essere progressisti in un modo diverso»[1]. Ciò che vuol dire qui Pasolini è che di fronte al neocapitalismo non si può più parlare il linguaggio che si parlava all’epoca del capitalismo – e del socialismo che ad esso si accompagnava.
Continuare ad appoggiarsi sulle categorie di pensiero (le rappresentazioni del mondo) che hanno dominato il Settecento e l’Ottocento è indubbiamente rassicurante, ma anche assolutamente inadatto a ciò di fronte a cui ci pone la tecnica. Giacché infatti in gioco c’è il fatto rapportarci in un modo finalmente appropriato a “ciò che è”, in altri termini alla realtà presente, quindi di riuscire a (cito la risposta di Pasolini a Furio Colombo nell’ Ultima intervista) «cambiare […] in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione»[2].
Questo è quanto Pasolini afferma, rivolgendosi alla sinistra ma non solo, poco prima del suo assassinio; Napoleoni, per parte sua, affronta le stesse questioni in un quadro più strettamente di sinistra alla fine degli anni Ottanta. Da allora, le sinistre si sono finalmente aggiornate, si sono cioè messe a pari con la realtà presente, oppure, per richiamarsi di nuovo a quanto diceva Pasolini a Colombo[3], continuano a parlare di mare quando invece siamo in montagna? La sinistra sta lottando secondo un senso della lotta diverso da quello dell’Ottocento e del Novecento? È progressista secondo un senso del progressismo diverso da quello dell’Ottocento e del Novecento?
A prima vista, si direbbe di no. Dopo il crollo dell’idea di rivoluzione sembra che non si potesse far altro che adottare quella che resta, anche se nessuno la chiama, la terza via fra dirigismo economico e liberalismo economico: l’adesione al mercato con l’illusione di poterlo regolare, cioè di dominarlo. Tutto questo in nome di un supposto realismo, di un “non c’è alternativa” – formula in cui ritroviamo il tono dell’ingiunzione imperativa che è propria del Gestell.
Ora, «non si può parlare di “terza via”», dice Napoleoni[4], «perché in realtà c’è una sola via, quella dominante». Infatti, il tratto proprio dell’Imposizione o Dispositivo è di annullare ogni alternativa eccetto quella, o quelle, che esso stesso può suggerire. Pertanto, il neocapitalismo, o, per dirla più radicalmente, l’Imposizione o il Dispositivo tecnico, ci obbligano – e si tratta qui di un obbligo che non è costrizione, ma un’esigenza quasi etica, un «compito», dice Napoleoni – a comprendere che dal Dispositivo ci liberiamo soltanto apprendendo a starci dentro: ad abitarlo.
Negli interventi elaborati in vista di una riconfigurazione della sinistra che troviamo raccolti in Cercate ancora, Napoleoni invita la sinistra a cercare insieme a lui i modi per essere liberi all’interno di un Dispositivo così invasivo e inclusivo. Questo richiede che si sappia cosa vuol dire essere liberi nell’epoca della tecnica. E in effetti, Napoleoni ci induce a reinterrogare la relazione fra i valori che definiscono tradizionalmente la sinistra e la realtà che viviamo oggi. In tal modo, siamo rinviati ai fondamenti di questi valori ‒ penso all’Illuminismo, all’Umanismo e alla Rivoluzione industriale. L’obiettivo, lo ribadisco, è quello di fare finalmente esperienza della tecnica; non si tratta di negare i valori della sinistra in nome di un supposto realismo, ma nemmeno di riaffermarli (o di ripristinarli) tali e quali adducendo a pretesto che sarebbero stati traditi – sarebbe ancora una volta come parlare di mare stando in montagna.
L’operazione non è affatto facile per la sinistra perché essa si identifica con i propri valori; quindi, rimettere in discussione ciò che li fonda vuol dire, per la sinistra, dovere probabilmente ridefinirsi al di fuori da questi valori e inventare altri modi di agire, o ancora meglio: un’altra comprensione dell’agire.
Il progresso è uno di questi valori – del resto, la sinistra non si definisce ancor oggi “progressista”? Secondo Marx e il socialismo in generale, il progresso ha per obiettivo l’uomo liberato dall’alienazione causata da rapporti di produzione che la classe dominante cerca invano di stabilizzare a fronte di forze produttive costantemente in progressione. Pasolini, per parte sua, sottolinea[5] la contraddizione che, al tempo del neocapitalismo, la sinistra deve subire fra il progresso come ideale sociale e politico e lo sviluppo come fatto economico immediato. Quando va al potere, la sinistra non ha altra alternativa, dice Pasolini, che quella di accettare, di volere lo sviluppo economico per realizzare il progresso. È la parola d’ordine di Lenin: i soviet più l’elettrificazione. Il problema è che allo sviluppo destinato a soddisfare i bisogni e a realizzare il progresso si sostituisce subito una competitività il cui unico fine è di essere sempre più competitiva – il che non produce nessun progresso in termini politici, culturali e… umani, ma, al contrario, una regressione, e per dirla tutta un’alienazione che non soltanto va oltre quella messa in rilievo da Marx, ma che rispetto a essa si trova su un piano completamente diverso. Dunque, si tratterebbe di sapere che cosa si dice quando ci si dichiara “progressisti”. Uno dei primi compiti della sinistra sarebbe quello di cercarlo confrontandosi con il Dispositivo tecnico.
Proprio in vista di questo confronto Napoleoni opera spostamenti di piano che invece Pasolini non ci indica ‒ forse perché, in quanto poeta, si trova già là dove Napoleoni vorrebbe condurci, da pensatore politico.
Napoleoni comincia con l’osservare che l’alienazione che Marx mette in rilievo a partire dal capitalismo è radicata nella tradizione metafisica, per la quale l’essere umano è determinato come soggetto chiamato a dominare l’oggetto, artificiale o naturale: perché l’uomo è dell’oggetto la causa efficiente, stando alla traduzione di Aristotele da San Tommaso, o, stando a Cartesio, l’ego cogito, padrone e possessore della natura ‒ il lavoratore, ossia, a partire dalla rivoluzione industriale, il produttore.
Marx rimane prigioniero di questa concezione soggettivistica, dice Napoleoni, fino al punto di risuscitare un soggetto che pure aveva egli stesso dialetticamente annientato e a fare (volontariamente) astrazione di un elemento impersonale, sul quale il soggetto non ha potere, cioè il mercato e i suoi meccanismi[6]. In altri termini, la liberazione dall’alienazione messa in rilievo da Marx non è solo incompiuta ma illusoria, come è illusoria la fine del dominio, giacché ciò che resta è la concezione metafisica del rapporto dell’essere umano con la realtà.
Napoleoni prosegue citando Heidegger: «Dopo Marx, e dopo il fallimento della sua speranza di liberazione attraverso il dispiegarsi delle contraddizioni e del loro superamento, Heidegger dà la prima analisi della produzione moderna al di fuori dell’illusione di una soggettività perduta da recuperare[7]». Si tratta allora di non guardare più le cose e gli esseri umani né a partire dall’Io (l’individuo) né a partire dal Noi (l’Io collettivo), ma innanzitutto a partire dal Dispositivo tecnico e da ciò che esso fa delle cose e degli umani. Se lo facciamo, scopriamo che il capitalismo, il modo di produzione capitalistico e l’alienazione da esso causata, esattamente come il socialismo e il suo modo di correzione del, o di uscita dal, capitalismo, non sono che figure della tecnica, per quanto ancora incompiute; solo il neocapitalismo ne è la figura compiuta, nel senso che il lavoro come produzione e il lavoratore come produttore trovano la loro verità nel consumo, cioè in un’omologazione che fa di tutti gli uomini al contempo dei produttori-producibili-riproducibili e dei consumatori-consumabili-sostituibili, e di tutto ciò che è un qualcosa di producibile-riproducibile- consumabile. E quindi il soggetto e l’oggetto ormai si con-fondono nella consistenza di una riserva, di un fondo messo a disposizione del funzionamento neocapitalistico o tecnico. Anche la lotta in senso tradizionale viene in un certo modo consumata dal Dispositivo. Anzi lo rafforza – e con esso la ben più ampia alienazione che esso è in grado di generare – giacché la lotta si poggia sugli stessi fondamenti del Dispositivo, in particolare sulla volontà.
Se l’alienazione che ci è propria s’iscrive in ciò che Heidegger chiama il “destino dell’essere”, cioè nella storia della metafisica di cui il Gestell è la figura più estrema, allora non basta volere liberarsene per liberarsene veramente. Per questo motivo anche Pasolini afferma che bisogna lottare diversamente.
La lettura di Heidegger permette a Napoleoni di comprendere che liberarsi da una alienazione così fatta non è possibile che a condizione di non tentare più di farlo con le rappresentazioni dell’uomo e del mondo che hanno avuto corso finora. «Certo, i tentativi di liberazione compiuti fino a oggi hanno avuto l’effetto contrario: la catastrofe è stata ribadita piuttosto che in qualche modo allontanata. Ma se si pensa che la liberazione sia possibile, in quale altro modo è possibile pensarla se non come un modo nuovo di riferirsi all’uomo, al di fuori della tentazione del soggettivismo, e quindi delle vie finora tentate o suggerite dall’ “umanismo”»[8].
Anche qui la lettura di Heidegger permette a Napoleoni di comprendere che l’umanismo proviene da quella alienazione per cui l’uomo inizia a pensarsi (e ancora oggi si pensa) come centro, soggetto e padrone dell’ente, dunque sempre in grado di maneggiare adeguatamente la tecnica, che è appunto l’illusione primaria prodotta dal Gestell – non a caso Napoleoni parla della “malizia intrinseca”[9] del Gestell. Quindi, provare a liberarsi dalla tecnica e dalla devastazione da essa generata richiede di passare oltre l’umanismo, e soprattutto di non farvi appello. Altrimenti, le proposte che Napoleoni avanza in Cercate ancora sulla possibilità di un’altra relazione con il lavoro, sulle donne e sulla natura si ridurrebbero a un ulteriore programma (umanistico, cioè soggettivistico) al servizio della razionalità tecnica. Potremmo peraltro dire che in gioco vi è, più che ciò che Napoleoni propone, ciò che si dà a vedere non appena compie il passo di lato, e che invece continua a rimanere nascosto finché l’uomo si occupa esclusivamente dell’ente.
Ciò che si dà a vedere tocca, indubbiamente, dei punti a cui la sinistra è estremamente sensibile. Napoleoni parla in particolare della rappresentazione del lavoro. Ora, il lavoro non appare più come l’«asse centrale della vita dell’uomo e della società»[10]. Per la stessa ragione, non è evidente per una sinistra nata dal pensiero industriale vedere apparire qui la natura[11] al di fuori dal tradizionale rapporto di dominio dell’uomo su di essa. La condizione delle donne[12] è invece più trasversale[13]. Perché gli uomini, produttori e dominatori, le hanno emarginate in ogni tempo, e in modo specifico al tempo della produzione capitalistica, col pretesto che spetta a loro la sola riproduzione[14], le donne si mostrano qui, oltre il produrre e il consumare, quindi oltre il lavoro come asse centrale delle nostre vite, in grado di sfuggire forse più facilmente degli uomini alla “malizia intrinseca” del Gestell – di vederci più chiaro più velocemente.
Invece di fissare un programma politico – Napoleoni sa che volerlo fare sarebbe un controsenso –, si tratta piuttosto di aprirsi a una dimensione nella quale un’azione politica sia possibile all’interno dei dispositivi neocapitalistici, prendendoli in considerazione per quello che sono. Napoleoni dice qualcosa di questa apertura quando evoca la parola heideggeriana Gelassenheit, nel 1986: «Se l’uso “politico” di concetti heideggeriani non esponesse a gravi rischi di fraintendimento, si potrebbe dire che sorge oggi la possibilità di un atteggiamento generale intorno a quell’ambito di significati che sono detti con la parola Gelassenheit. In effetti, la costituzione di una posizione politica […] passa per il progressivo abbandono delle strutture in cui oggi vive il dominio»[15].
Gelassenheit indica il modo in cui è possibile essere in contatto con gli esseri e le cose lasciandoli essere; per noi oggi, essa indica il modo in cui è possibile agire lasciando essere, senza frapporre la propria volontà. È chiaro che un tale agire è tutto da inventare. In ogni caso, la possibilità aperta dalla Gelassenheit non ha niente in comune con la volontà di instaurare una società conviviale alla Ivan Illich (oggi si direbbe smart, slow o soft), la quale rappresenta al contrario la “societarizzazione” compiuta della politica: rafforzare la razionalità per rendere più competitivo il funzionamento sociale.
Per concludere: la sinistra, e non solo quella italiana (anche se l’esistenza di un Napoleoni e di un Pasolini sembra indicare che in Italia sussistono possibilità sconosciute altrove) viene posta di fronte all’esigenza di riconoscere la provenienza metafisica di valori come lavoro, progresso, libertà, la stessa democrazia. E questo mentre al contempo viene posta di fronte all’esigenza di cercare un modo di agire che davvero non assomiglia a nulla (ribadisco, a nulla) di quanto è stato fatto finora – e forse “essere progressisti in un modo diverso” significa proprio questo. In ogni caso è a questo che Napoleoni la sprona. Ciò di cui sono personalmente convinto è che o la sinistra risponde a questa duplice esigenza oppure si dissolverà nel funzionamento globale della tecnica.
[1] Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letturatura e sull’arte, tomo II, Mondadori, Milano, 1990, p. 2844.
[2] Furio Colombo e GianCarlo Ferretti, L’ultima intervista, Avagliano editore, Roma, 2005, p. 63.
[3] Ivi, p. 57.
[4] Claudio Napoleoni, Cercate ancora, Editori Riuniti, Roma, 1990, p. 82.
[5] Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari, Garzanti, Milano, 2011, pp. 175 e sgg.
[6] Cercate ancora, op. cit., p. 44 e p. 90.
[7] Claudio Napoleoni, Discorso sull’economia politica, Orthotes, Napoli-Salerno, 2019, p. 163.
[8] Ivi, p. 181.
[9] Cercate ancora, op. cit., p. 50.
[10] Ivi, p. 95.
[11] Ivi, p. 52.
[12] Ivi, p. 51, soprattutto qui p. 77 – e p. 96.
[13] Ivi, p. 46 e sgg.
[14] Napoleoni riprende la parola di Carla Ravaioli, cfr. Cercate ancora, op. cit., p. 77.
[15] Claudio Napoleoni, Critica ai critici, in Dalla scienza all’utopia, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 215.