Scritto da Stefano Lucarelli
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Pubblichiamo questo contributo di Stefano Lucarelli, rielaborato a partire dall’intervento tenuto al convegno “Economia e politica dopo la catastrofe. L’eredità di Claudio Napoleoni” organizzato il 10 dicembre 2020 dalla Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci. Il convegno ha preso le mosse dall’interesse per la figura complessa e sfaccettata di Claudio Napoleoni, confermata dalla recente riedizione del “Discorso sull’economia politica” a cura di Massimo Amato e Stefano Lucarelli e da articoli e saggi di numerosi altri autori. Ringraziamo Stefano Lucarelli e la Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci per la possibilità di ospitare il contributo.
A questo link Massimo Amato e Gianni Cuperlo in dialogo su Napoleoni; qui il contributo di Massimo Cacciari sulla lezione di Napoleoni, qui il contributo di Dominique Saatdjian su Napoleoni e Pasolini, qui il contributo di Francesca Coin su Capitalismo e riproduzione sociale a partire dal dialogo tra Napoleoni e Ravaioli e qui il contributo di Massimo Amato su Napoleoni e Heidegger.
Produzione di merci a mezzo di merci – il famoso libro con cui Piero Sraffa intese proporre delle premesse critiche alla teoria economica – ha rappresentato per Claudio Napoleoni un’opportunità per ripensare vari aspetti della teoria economica, dell’economia politica, della sua critica e, soprattutto, della politica economica. Ora è bene innanzitutto segnalare che Napoleoni, nella sua recensione del 1961 a Produzione di merci, dimostra di comprendere molto bene le intenzioni di Sraffa, la portata e i limiti dell’operazione che egli propone, e il nucleo principale degli schemi sraffiani, compresi gli aspetti algebrici ed analitici in cui l’argomentazione viene proposta.
Il fatto che Napoleoni proponga diverse riletture di questo testo andando oltre le intenzioni di Sraffa e dei suoi seguaci è per noi un’indicazione preziosa. Il primo capitolo del Discorso sull’economia politica è proprio dedicato all’uso appropriato che di questo libro si può fare, ed è strettamente connesso alle conclusioni del Discorso che è invece dedicato ai problemi di politica economica che caratterizzavano nel 1985 il dibattito interno alle sinistre italiane ma che appaiono di un’attualità sconcertante.
«Se, dunque, il modello di Sraffa (assunzione di una configurazione produttiva includente il sovrappiù; determinazione dei prezzi relativi e della distribuzione del prodotto netto a partire dalla quota del salario sul prodotto netto oppure del saggio del profitto, in base alla norma fondamentale del mercato capitalistico) non implica niente circa l’origine, il modo di formazione del sovrappiù, rimane – dopo Sraffa – appunto la questione dell’origine: la questione, cioè , del perché un sistema economico non è in “puro stato reintegrativo” ma contiene un’eccedenza rispetto a tale stato […] la rilevanza dell’opera di Sraffa non sta affatto, contro l’opinione di Sraffa stesso, nella ripresa di un filone determinato della storia dell’economia [l’approccio classico-marxiano], ma sta nel fatto che, dopo di lui, ciascuna delle alternative che questa storia ha presentato dev’essere riformulata, quella classica non meno di quella neoclassica, rimanendo entrambe, dopo la riformulazione, come opzioni possibili»[1].
È noto che per Napoleoni ciò che rimarrebbe della spiegazione neoclassica dell’origine del sovrappiù, al termine dell’operazione critica condotta da Sraffa, che sancisce l’inaccettabilità della teoria neoclassica della distribuzione della ricchezza sulla base del contributo marginale dei fattori produttivi, sarebbe l’astensione al consumo come atto preliminare per l’attività produttiva. La questione dell’astinenza è intesa qui non in senso psicologico ma ontologico, come costitutiva della natura umana e sociale dell’economia.
«Il capitalista come figura del capitale ha tra le sue funzioni quella di togliere dalla società una parte del prodotto sotto la forma sociale del profitto perché esso non sia consumato. Che poi esistano condizioni determinate in cui la società risparmi troppo, è verissimo, che questa possa essere la condizione generale di un’epoca, è anche vero, ma ciò non toglie nulla al fatto di principio che l’accumulazione della ricchezza su se stessa ha bisogno di una divaricazione tra produzione corrente e consumo corrente»[2].
Così come è noto che secondo Napoleoni – a differenza di Sraffa, degli sraffiani e dei marxisti – Produzione di merci a mezzo di merci, proprio nel momento in cui viene risolto il problema della determinazione dei prezzi relativi a partire dai presupposti classici, conduce a non poter definire più il saggio di sfruttamento in termini di valore-lavoro: il sistema dei prezzi di Sraffa può essere interpretato come un sistema di prezzi necessario alla riproduzione del sistema economico nel tempo, ma per determinarlo non occorre riferirsi a quantità di lavoro. Pertanto cosa resta dello sfruttamento, cioè della spiegazione marxiana dell’origine del sovrappiù? Resta l’alienazione:
«C’è una cosa che Sraffa prende dai classici, ma qui bisognerebbe però dire prende da Marx, ed è il concetto della produzione come processo circolare […]; il concetto della produzione come processo circolare significa che il capitale è la totalità che fuori dal capitale non c’è niente. Che il capitale, non è uno dei due, essendo l’altra cosa il lavoro o quello che vi piace di più, il capitale è tutto […]: in realtà la produttività del capitale e l’alienazione del lavoro non sono che due facce di una stessa medaglia»[3].
Le implicazioni teoretiche, filosofiche e politiche di questo discorso sono enormi. Ma quali conseguenze possono esserci sul piano della politica economica da questa rilettura di Produzione di merci?
Per rispondere a questa domanda occorre contestualizzare il discorso. Può essere interessante considerare le parole di Augusto Graziani, che così si espresse in occasione del convegno di Firenze del 23-26 agosto 1985, a 25 anni dalla pubblicazione del libro di Sraffa:
«L’idea che il modello di Produzione di merci possa essere considerata la prima pietra di un nuovo edifico teorico è in certa misura un’idea tutta italiana. Fra gli studiosi britannici, e specie fra coloro che conobbero Sraffa nella quiete dei collegi di Cambridge, l’immagine rimasta nella memoria è quella del pensatore silente, incline più ad interrogare che a trasmettere, pronto alla critica più che alla proposta, e comunque alieno dal comunicare il suo pensiero più intimo. Per chi vede Sraffa in questa luce, servirsi dei suoi lavori per costruire una nuova teoria economica e sociale, sarebbe come estorcere una dichiarazione a chi per costume di vita aveva scelto il riserbo. […] Ma in Italia il clima è stato molto diverso fin dall’origine. Quando, nel 1960, il libretto fatale comparve, il paese si trovava per la prima volta nel pieno di un risveglio politico e sindacale delle sinistre. Ai leaders che guidavano l’offensiva, le cento pagine di Sraffa apparvero come un messaggio della Provvidenza. Per la prima volta, un testo accademico e togato mostrava l’erroneità della teoria marginalista dei salari, scopriva i trucchi infondati dei ragionamenti padronali, faceva crollare come un castello di carte l’argomento delle incompatibilità, e apriva la strada a un’avanzata salariale senza rimorsi. Parve evidente, a chi di Sraffa conosceva le battaglie giovanili, l’amicizia con Gramsci, l’opposizione al fascismo, la scelta dell’esilio, che dietro le equazioni si celasse una convinzione politica, e che la demolizione della teoria neoclassica fosse animata da passione sociale. Era dunque fatale che Produzione di merci trovasse posto non soltanto negli scaffali accademici, ma anche sui tavoli dei sindacalisti e nelle cartelle dei parlamentari. Era altrettanto inevitabile che il lavoro di Sraffa venisse recuperato per un’operazione teorica di vasto raggio»[4].
Ciò che Graziani non dice esplicitamente in quella sede è che fu proprio Claudio Napoleoni fra i primi a sostenere una posizione «conflittualista» come indicazione di politica economica e a stabilire i collegamenti fra questa e la posizione di Sraffa[5], che in alcune frange del sindacato e del movimento operaio diverrà nota con il motto “coniugare Sraffa a Mirafiori!”. In un celebre articolo in cui commenta la relazione del governatore della Banca d’Italia Guido Carli nel 1963, Napoleoni scriveva infatti:
«Dal punto di vista strettamente formale non esistono ragioni particolari per assumere il salario come variabile indipendente, e ne esiste, semmai qualcuna per assegnare questo ufficio al saggio del profitto; comunque, se ci si riferisce allo schema teorico, si può ammettere che tra queste due grandezze abbia luogo una quasi completa interscambiabilità per ciò che riguarda l’assunzione di variabile indipendente. Ma quando si passa dallo schema teorico al mercato reale, ci sono almeno due ragioni per le quali tale interscambiabilità viene meno. In primo luogo […] mentre è possibile trovare, nel complessivo sistema sociale, elementi a cui riferirsi per determinare il salario (si pensi, per esempio, al cosiddetto “livello storico di sussistenza”), altrettanto non è possibile fare per quanto concerne il saggio del profitto […] ora, poiché questo riferimento esterno è possibile per il salario ma non per il saggio di profitto, ne viene che, nella realtà, si deve pensare che sia il salario a funzionare come indipendente rispetto al saggio di profitto e non viceversa. In secondo luogo, lo schema teorico, per il fatto stesso di presentare il saggio del profitto come grandezza avente il medesimo valore in tutte le attività produttive, deve supporre, qualora venga riferito a un mercato, condizioni di perfetta concorrenza. Quando si passa dallo schema al mercato reale, occorre tener conto del fatto che […] il saggio di profitto […] si presenta come specificato in innumerevoli determinazioni, a seconda del potere di mercato dal quale si trovano dominate le singole attività produttive»[6].
Molti anni dopo, proprio in occasione di un storico incontro tenutosi in Bocconi, il 22 gennaio 1988, Napoleoni rivolgerà a se stesso una critica molto dura a tal proposito, proprio sulla base del Discorso sull’economia politica. Infatti se è vero che la quota dei salari sul prodotto sociale teoricamente può variare fra 0 e 1, e che dunque la distribuzione del sovrappiù fra le classi dipende in maniera essenziale dai rapporti di forza che esse sanno esercitare, non si può comunque negare che esista un vincolo distributivo al processo di accumulazione del capitale. Su questo punto può essere utile riferirsi a Keynes, il quale già nel 1930 – quindi dopo aver già visto le bozze della prima parte del libro di Sraffa che l’economista italiano gli mostrò sul finire degli anni Venti – fa una critica ante litteram delle politiche sindacali improntate su un’eccessiva avanzata salariale, ponendo al centro delle sue considerazioni la rilevanza del movimento dei capitali e della politica monetaria, pur rifiutando nettamente la «vecchia teoria» che crede nell’esistenza di un livello naturale dei salari, e che pretende che il salario reale sia la variabile principale su cui agire per perseguire l’equilibrio di piena occupazione[7].
La riflessione di Napoleoni segue una strada diversa da quella del Keynes degli “alti salari”. Nel Discorso Napoleoni si pone il compito di utilizzare la struttura analitica presentata in Produzione di merci a mezzo di merci «per pervenire alla rappresentazione di un processo distributivo che abbia qualcosa a che fare con la realtà, e che non sia basato sulle astrazioni su cui spesso la teoria della distribuzione è stata basata»[8].
Il punto rilevante è che queste «astrazioni» implicano un altro compito: prima infatti di stabilire le regole relative alla distribuzione della ricchezza prodotta da un sistema economico vitale occorre chiedersi come misurare questa ricchezza. O più precisamente in cosa consista questa ricchezza, cioè quale sia l’origine di questo sovrappiù. In tal senso diviene inevitabile un discorso sull’economia politica, cioè un ripensamento profondo delle categorie fondamentali di questa scienza: cosa è il sovrappiù? Certamente si potrà dire che esso è il prodotto netto espresso in termini fisici una volta detratto dal prodotto complessivo la parte che deve essere impiegata per ripristinare le condizioni di partenza del processo produttivo, ma cosa significa essere produttivi? Quali sono le conseguenze di un processo produttivo? Cosa significa davvero ripristinare le condizioni di partenza del processo produttivo? E cosa è la produzione?
Il Discorso dà un suggerimento in tal senso proponendo uno schema logico che integrando astinenza ed alienazione pone le basi per riflettere sugli obiettivi di politica economica in un modo che è al contempo originale ma necessario. Si potrebbe dire che il “produrre” diviene oggetto della politica economica: in Produzione di merci esistono tre successive determinazioni del sistema economico. La prima si riferisce a un’economia di sussistenza, senza sovrappiù (S1), la seconda determinazione si riferisce a un’economia con sovrappiù, in cui il lavoro ancora appare soltanto attraverso i mezzi di sussistenza inclusi nell’insieme dei mezzi di produzione (S2); la terza determinazione è un’economia di sovrappiù nella quale il lavoro appare in modo esplicito (S3). Gli atti innovativi effettuati dall’imprenditore – ricorrendo al differimento del consumo nel tempo nel senso prima indicato su cui incide, schumpeterianamente, l’erogazione del credito bancario – determinano, nei termini degli schemi di Sraffa, il passaggio da una configurazione produttiva ad un’altra. Seguendo un’indicazione di Sraffa, il salario viene concepito come la somma di due quantità: salario di sussistenza + partecipazione al prodotto netto. L’introduzione di innovazioni nel sistema (S1, interpretabile come lo stato reintegrativo in cui vi sono profitti nulli) fa sorgere un sovrappiù e di conseguenza vi sarà una formazione di profitti secondo un meccanismo assai simile alle quasi rendite. Terminato il processo innovativo verrà a stabilirsi un saggio generale del profitto e la distribuzione potrà rappresentarsi come in S2: il salario è a livello storico di sussistenza; il sovrappiù si risolve interamente in profitti, distribuiti tra le varie attività secondo il saggio generale. Una volta che il credito che ha finanziato il processo innovativo – e cioè una modalità dell’astinenza – e che le innovazioni siano stabilmente incorporate nella configurazione produttiva – la base del profitto viene a cessare. Si determina un nuovo livello storico di sussistenza, fino all’annullamento del profitto a vantaggio dei salari. Se questo non avviene si assiste al dominio di un capitalismo rentier, politicamente ingiustificabile ma del tutto compatibile con l’attuale situazione di ineguaglianze. Ma potremmo anche aggiungere che, in determinate circostanze, il processo innovativo fa sì che il livello di alienazione dei soggetti che partecipano al processo produttivo divenga sempre più pervasivo. Napoleoni lo dice nei seguenti termini:
«È bene che si formino i profitti, e che le imprese godano di buona salute; ma a condizione che ciò avvenga all’interno di una finalizzazione del processo economico verso gli obiettivi dello sviluppo qualitativo: così come è sempre possibile immaginare un qualche schema di controllo della distribuzione del reddito nazionale, se una chiara politica garantisce la soddisfazione dei bisogni fondamentali che sono diventati ormai radicalmente diversi da quelli che erano soddisfatti dai cosiddetti consumi individuali di massa, e che hanno a un estremo la qualità del lavoro e all’alto estremo la qualità della vita»[9].
Insomma, per concludere, Napoleoni appare molto lontano non solo da una visione della politica economica che usi la deflazione salariale come strumento principale di aggiustamento per sostenere la crescita economica, ma anche da una visione della politica economica che crede che i problemi del mondo del lavoro siano risolvibili solo attraverso un sostegno maggiore ai salari per riproporre un modello di capitalismo trainato dai consumi. Il problema della distribuzione dei redditi non è affrontabile senza prima chiarire cosa sia il sovrappiù che viene a crearsi in un sistema economico. E questo chiarimento comporta una presa d’atto scomoda, ma necessaria (con cui il Discorso sull’economia politica si conclude): neanche il keynesismo, pur perseguendo la piena occupazione, si è dimostrato in grado di andare oltre il piano dell’efficienza per cominciare ad affrontare i problemi che definiscono il piano dell’alienazione, «né la piena occupazione né le previdenze del welfare state (anche se preso nelle sue forme migliori) sono in grado di compensare i soggetti del fatto che essi come soggetti produttori, sono totalmente assimilati a ciò che producono, e cioè sono essi stessi prodotti»[10].
Un tema tanto più rilevante oggi perché ciò che Napoleoni chiamava “assimilazione dei soggetti a ciò che essi producono” ha assunto forme via via più concrete: i salari simbolici, le forme di remunerazione e di partecipazione alla ricchezza prodotta che sfuggono alle tradizionali logiche regolatorie, la confusione crescente fra tempi di produzione adeguatamente certificati e tempi di produzione non riconosciuti che colonizzano in modo soffocante i tempi di riproduzione, la diffusione di innovazioni tecnologiche incorporate in beni e servizi che contribuiscono ad assimilare le soggettività a dati personali la cui elaborazione e valorizzazione tende a ridurre la democrazia nei processi decisionali.
Sarebbe davvero auspicabile che i temi di politica economica che fanno capolino dalle pagine del Discorso, a partire da un invito a ripensare le categorie fondamentali dell’economico, possano stimolare oggi un lavoro politico paziente e attento: la finalizzazione del progresso tecnico come occasione per ricollocare il lavoro produttivo all’interno della società; la ridefinizione del rapporto fra tempo di produzione e tempo di riproduzione; la cura della natura non ridotta a questione ambientale, ma come ridefinizione del rapporto fra esseri umani, i luoghi che essi abitano e i documenti del passato. Un lavoro che dovrebbe collocarsi fuori dalla prospettiva della produzione-appropriazione-dominazioni che purtroppo continua ad intravedersi all’orizzonte del discorso economico contemporaneo e che ci fa perdere di vista l’essenziale.
[1] Cfr. C. Napoleoni, Discorso sull’economia politica, Orthotes, 2019, p. 81.
[2] Cfr. “Dibattito tra Giorgio Lunghini e Claudio Napoleoni sul Discorso sull’economia politica”, in Le grandi correnti della cultura mondiale degli ultimi 20 anni. Prima rassegna 1986-97, Centro Stampa Comunale, 1988, p. 140.
[3] Cfr. “Dibattito tra Giorgio Lunghini e Claudio Napoleoni sul Discorso sull’economia politica”, in Le grandi correnti della cultura mondiale degli ultimi 20 anni. Prima rassegna 1986-97, Centro Stampa Comunale, 1988, p. 140.
[4] Cfr. A. Graziani, Sraffa 25 anni dopo: il convegno di Firenze, in Economia Politica a.II, n.3, dicembre 1985.
[5] Cfr. A Graziani, La teoria della distribuzione del reddito, in G. Lunghini (a cura di), Scelte politiche e teorie economiche in Italia 1945-1978, Einaudi, Torino, 1981; si veda in particolare la nota 36 a p. 335.
[6] Cfr. C. Napoleoni, Salari e politica sindacale nella Relazione Carli, in «La rivista trimestrale», 1963, n. 5-6, pp. 169-170.
[7] Cfr. J.M. Keynes, Il problema degli alti salari (1930), in J.M. Keynes, La fine del laizzez-faire e altri scritti economico-politici, a cura di G. Lunghini, Bollati Boringhieri, Torino 1991. «[La vecchia teoria della distribuzione] deriva da due gruppi di assunzioni: il primo si rifà alla costatazione che l’offerta di un dato fattore della produzione risponde in modo assai sensibile alla retribuzione che gli si offre; il secondo si basa sulla possibilità di sostituire i fattori della produzione a seconda delle retribuzioni offerte loro […]. La nuova teoria sferra un attacco alla rigidità della soluzione offerta sulla base di queste assunzioni. Essa non mette in discussione che tali considerazioni fissano dei limiti nei quali l’effettiva soluzione deve collocarsi, ma essa afferma che questi limiti sono alquanto ampi e che al loro interno la situazione viene determinata in primo luogo da influenze storiche, esercitate gradualmente dalle forze sociali e politiche contemporanee. […] Ritengo che le migliori teorie del futuro, capaci di essere messe in pratica, saranno imparentate con questi attacchi. […] Il mio attuale proposito è, piuttosto, quello di fare alcune precisazioni che sono, a mio giudizio di grande importanza pratica quando si presenta il problema di applicare queste idee nel concreto mondo di oggi. […] Infatti il Partito degli Alti Salari dimentica che noi apparteniamo a un sistema internazionale e non a un sistema chiuso; ed inoltre ad un sistema nel quale noi abbiamo deliberatamente introdotto un grado assai elevato di mobilità internazionale dei flussi finanziari. […] Si supponga che il Partito degli Alti Salari raggiunga i suoi obiettivi in un paese, l’Inghilterra, ma non [in un] altro, la Germania. Ne segue che il capitalista riceverà una più piccola proporzione di prodotto qui che in Germania. […] Di conseguenza preferirà investire all’estero. Può essere che la proporzione che egli ottiene nei due paesi sia, in un certo senso, arbitraria ed il risultato di influenze storiche e sociali. Ma se si ha una estrema mobilità nei flussi finanziari internazionali, le risorse capitali tenderanno ad indirizzarsi verso quei paesi dove le remunerazioni relative sono maggiori. Se il valore della nostra moneta non è fissato internazionalmente, lo sforzo di prestare più moneta all’estero dovrebbe far variare il cambio a nostro sfavore e, rialzando i prezzi in Inghilterra, dovrebbe portare i salari reali ai più bassi livelli che esistevano prima. Ma sotto il gold standard le conseguenze sono molto più complicate. Se gli uomini d’affari inglesi trovano che utilizzare i loro fondi per iniziative d’affari in Inghilterra è relativamente non profittevole e cercano, perciò, di incrementare la percentuale dei loro impieghi all’estero, il primo effetto sarà una tendenza dell’oro a defluire fuori dal nostro paese, del tasso bancario a rialzarsi e da qui ne deriverà una ancor maggiore difficoltà per iniziative commerciali in Inghilterra. […] il risultato potrebbe essere che i salari reali in Inghilterra vengano fatti nuovamente discendere al vecchio livello di equilibrio. Il tasso bancario, relativamente alla situazione economica interna, è essenzialmente un mezzo per assicurare che vi sia una disoccupazione sufficiente a esercitare un’effettiva pressione sui salari, in modo che questi cadano ad un livello che sia in equilibrio con le condizioni esterne».
[8] Cfr. Intervento di Claudio Napoleoni, in «Piero Sraffa e l’economia politica degli anni ‘80», Atti del convegno organizzato dall’Istituto di Economia politica il 22 gennaio 1988, Bocconi Comunicazione, Milano, 1988, p.35.
[9] Cfr. C. Napoleoni, Intervento, in J. Jacobelli (a cura di), Come vorrei il 1987, Atti del Forum economico di Saint Vincent, supplemento ai libri del mondo, 1987, n. 1-2, pp. 91-93.
[10] Cfr. C. Napoleoni, Discorso sull’economia politica, Orthotes, 2019, p. 180.