Scritto da Alfredo Morganti
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Pandora Rivista pubblicò, nel 2015, una bella intervista a Massimo Cacciari. Fra i tanti temi di teoria politica toccati con particolare riferimento agli anni Settanta/Ottanta dello scorso secolo, il filosofo veneziano fa espressamente cenno al rapporto teoria-prassi. Un rovello attorno al quale il pensiero si è spesso esercitato, che rappresenta un vero e proprio punto di caduta per ogni azione politica che voglia muoversi con chiara consapevolezza dei fini – e per ogni teoria che voglia davvero irrobustire la prassi e dotarla di strumenti efficaci. Cacciari denuncia la moderna rottura di una dialettica concreta tra i due termini, da cui un impoverimento della prassi, da una parte, e una sorta di solitudine della teoria, dall’altra, spinta a muoversi in un ambito meramente speculativo. Un impasse che lascia trasparire una difficoltà di fondo, in parte legata proprio alla forma seccamente binaria, riduttiva, di cui ci si serve. Una forma che non prevede alcun “terzo incomodo”, tanto meno quello che, in questi decenni, ha assunto invece un peso e una rilevanza sempre maggiori: la tecnica.
L’antica tripartizione aristotelica, allora, nell’economia del discorso toccato da Massimo Cacciari, torna qui senz’altro utile, mantenendo inalterato nei millenni il proprio impatto interpretativo. Secondo questo paradigma, teoria è conoscenza, contemplazione, speculazione (Cacciari alla fine dell’intervista accenna proprio alla posizione “speculativa” di Mario Tronti). Teoria è ciò che procura piaceri meravigliosi in sé per stabilità e purezza, direbbe lo Stagirita, ma che è priva di effettualità (non opera sul quotidiano, non morde la realtà, non è lavoro, non si affanna attorno alle cose che mutano, punta diritta a quelle che non cambiano mai). La prassi, l’agire, invece, è il movimento, l’azione, ciò che ha un fine in sé e non fuori di sé – si mischia alle cose che mutano (come le opinioni) e non contempla la possibilità di essere un mezzo produttivo di alcunché gli sia esterno, ulteriore, fuori dai suoi confini. Il fine dell’agire si esaurisce nell’agire stesso. C’è, infine, la tecnica, per la quale invece l’essere mezzo è tutto e l’atto del produrre ne sintetizza a pieno il significato. La tecnica ha un fine fuori di sé, nell’oggetto prodotto; essa è pura esternalità, pura proiezione centrifuga, totale inappartenenza. Presa in se stessa, infatti, è solo mezzo che si autoesalta fuori di ogni orientamento specifico o di ogni fine. La tecnica è totalmente avalutativa, è un fatto privo di senso che si ciba di altri fatti, che propone soluzioni, anzi la soluzione, quella davvero efficace, perché scientifica, perché fondata sull’episteme. La tecnica è una produzione priva di una finalità, mera causa efficiente di cose, oggetti, esternalità, tutti prodotti in virtù di un sapere. Ma la tecnica è anche una forma di vita, mica un’astrazione, e quindi anche un’ideologia, dunque un fatto umano, un modo per governare la complessità del mondo riversando potere sui “migliori” e sui potenti, per i quali la democrazia è solo caos delle opinioni.
Più che pensare in termini binari o dialettici, si tratta allora di considerare tutti assieme i tre corni del problema, cogliendone l’interazione specifica. Quel che balza agli occhi, oggi, è la crisi inarrestabile della politica – Cacciari la definisce riduttivamente come “perdita di centralità” – che ha spalancato immense praterie agli altri due elementi del paradigma, la teoria e la tecnica. Si potrebbe leggere questa fenomenologia anche in termini opposti, naturalmente, immaginando l’espansione della tecnica a tutto danno della politica, col risultato di lasciare la teoria ancor più al suo destino speculativo e alla sua astrattezza gergale. L’uno vale l’altro, perché quel che conta è l’effetto sfoggiato dinanzi ai nostri occhi: una crisi dell’agire politico ormai al suo acme. “Crisi della politica”, quindi, andrebbe tradotto proprio con “crisi dell’agire politico”, enfatizzando la scomparsa (anche in termini di memoria, in taluni casi) di un’azione politica a tutto tondo. Heidegger usò l’espressione “oblio dell’essere”, che poi specificò essere persino un oblio dell’oblio. Si potrebbe allora dire: oblio dell’agire, e finanche oblio di questo oblio, visto che oggi si tende a spacciare per politica, al più, un confronto tutto interno alle classi dirigenti, e tutto teso alla ricerca di sempre nuovi equilibri elitari.
“Oblio dell’agire politico” vuol dire che viene a mancare quel dinamismo, quel movimento che ha un fine in sé stesso, e che non si esaurisce in teorizzazioni speculative contrassegnate dalla loro estrema perifericità rispetto alla scorza del reale. L’agire politico è il reciproco confronto, lo scontro regolato di opinioni, l’interesse, tipico degli uomini liberi e dei cittadini, verso la cosa pubblica e la vita assieme, che comporta lotte anche aspre, che scatena un dibattito e scuote l’opinione pubblica, che mobilita coscienze, che esalta i nostri convincimenti e ci porta infine a deliberare e fare delle scelte sulla base di calcoli ma anche di ideali, valori, fini, interessi, in vista di quello che giudichiamo bene comune. L’agire politico è il movimento dei cittadini verso una scelta consapevole, collettiva, è l’organizzazione delle opinioni in gruppi, associazioni, rappresentanze che trova nelle istituzioni una sede deliberativa ulteriore e che quindi esprime una sovranità a partire da una serrata dialettica e da un confronto anche durissimo ma aperto. Tutto meno che l’applicazione determinante di un paradigma scientifico, anzi: con l’agire politico siamo, all’opposto, nel campo delle opinioni mutevoli e infondate. Un libero gioco democratico che garantisce una deliberazione orientata da fini e interessi, e una mediazione nel proliferare dei molti convincimenti. Oggi tutto questo appare scomparso o, meglio, dimenticato. L’agire politico si è sostanzialmente dissolto, oppure ha assunto forme impalpabili, indiscernibili, minute. Non è scomparsa la “centralità della politica”, per essere più precisi, ma ne è scomparso il senso, o meglio non c’è più una vera e propria azione politica nei termini anzidetti. Tutto è Palazzo, tutto è costretto in quelle mura metaforiche – senza nulla togliere, per questo, al “senso” della politica di Palazzo, anzi. E poi tutto è tecnica, tutto è “fare”. Oggi si ragiona in base ai semplici “fatti”, il cui senso, il cui indirizzo od orientamento non è posto nemmeno in discussione.
Ma se questo è vero, appare normale che l’anima profonda della teoria, ossia la speculazione, prenda corpo in modo consistente. Il filosofo-teorico oggi è destinato a contemplare, a bearsi di questa contemplazione, perché è venuta a mancargli la base “pratica”. È venuto a mancare quel movimento concreto che porta a dibattere e a deliberare assieme in forme organizzate e partecipate (le forme della democrazia). Si tratta di un mancamento che, tra l’altro, ingenera gradi sempre più elevati di ineffettualità della teoria stessa. Come se il lume chiarificatore del pensiero fosse seduto su una macchina in panne, perché priva di ingranaggi “pratici” essenziali. La crisi etica va letta anche così, non solo come questione morale (malamente intesa, peraltro, secondo la locuzione: “i politici sono ladri”), ma come (e più profondamente) crisi di un pensiero pratico, di una capacità di pensare l’azione nel suo svolgersi – incapacità di calibrare il pensiero sulla doxa, sulle cose mutevoli, sul movimento delle opinioni, per decidere infine con saggezza, direbbe Aristotele, attorno alla polis e alla nostra vita in comune. Incapacità di porre la concreta condotta umana al centro della riflessione. Si è piuttosto rafforzato un platonismo di fondo, l’idea che le idee non debbano mai confondersi con le ombre quotidiane, mantenendo sempre le giuste distanze da esse – e che il piacere effettivo provenga da un empireo dei concetti piuttosto che dalla possibilità di cambiare davvero le ‘cose’ di questo mondo nella loro disposizione, nella loro struttura e, dunque, nel loro senso, ben oltre la mera fattualità. È questo platonismo che spinge nella direzione di un’aristocrazia dei teorici, piuttosto che verso una democrazia delle donne e degli uomini comuni: l’aristocrazia dei migliori, quella di chi studia le cose ultime, affronta le idee nella loro massima luminosità, non teme incautamente di restarne abbagliato, anzi.
La tecnica è, oggi, la rivale più accanita dell’agire politico (di quel che ne resta). Posta a confronto con la politica, ne dà un’immagine caotica, litigiosa. Legge il dibattito pubblico anche aspro come un “difetto” della democrazia, non come la sua linfa – come una perdita di tempo e come una vana rincorsa che non garantisce la soluzione dei problemi. Che invece solo l’episteme aristocratica dei migliori è in grado di assicurare. Economia, comunicazione, gestione dell’opinione pubblica, relazioni pubbliche in luogo dell’agire politico vero e proprio: questi sono gli elementi della nuova fase, che progressivamente, nel corso di questi decenni, ha preso marcatamente il sopravvento. La tecnica è “fare”, non è “chiacchiera”, produce soluzioni efficaci senza che vi sia la necessità di interpellare le opinioni del popolo, a cui si concede un’ampia libertà nel tempo libero, accanto, tuttavia, a condizioni lavorative sempre più dure, in special modo per i settori più “fragili” di società e di mondo. La tecnica concentra tutto sui mezzi, dei fini poco le importa. O meglio, li sottace. È mezzo che diventa fine in se stesso. È un fatto che rifiuta sensi ulteriori. È una cultura, una forma di vita che si esalta contro i limiti della politica, ne rappresenta il contraltare, tende a surrogarla e ne occupa lo spazio dismesso. L’agire, la forma di vita politica per eccellenza, esce, invece, paralizzato da questo scontro. Non che tra agire e tecnica non vi siano rapporti, altro che. Ma si trattava, un tempo, di rapporti ribaltati: il deliberato politico convocava la tecnica legislativa, economica, comunicativa per mettere a punto i mezzi necessari a cambiare lo stato di cose sulla base dell’orientamento espresso dai cittadini nelle forme riconosciute dalla Costituzione. Era il tecnico a dare una giusta forma ai provvedimenti deliberativi, rispecchiando nel modo dovuto e più efficace gli esiti dell’agire politico. Nello stesso tempo, il teorico, grazie alla vitalità espressa dall’agire politico, poteva entrare effettualmente nella dimensione del pensiero pratico, contribuiva al governo della cosa pubblica invece che cadere di getto nella speculazione, limitandosi in tal modo alla mera contemplazione dell’essere, per quanto piacevole ciò possa apparire, per quanto ciò possa rendere “felice”.
Nell’intervista, Cacciari, dopo aver giustamente colto la fine del nesso tra teoria e pratica come cifra dell’epoca presente, indica una soluzione al problema nella “rifondazione” della filosofia, affinché questa possa tornare ad avere un’influenza pratica. Egli insiste sulla necessità di potenziare proprio il carattere autonomo, speculativo della filosofia, per rigettare con decisione la possibilità che sia la politica a dettare una regola al pensiero, a ingabbiarne il lavoro teorico: “inseguire oggi una relazione con la dimensione politica è fatica sprecata – dice – rischia di involgarire la tensione del discorso filosofico”. Cacciari opta allora per una sorta di svolta speculativa, di una filosofia “disincantata sulla sua possibilità di efficacia pratica e sanamente speculativa”. Proprio così: dice “involgarire” e “sanamente”. Vi è, ovviamente, la possibilità che le cose siano all’opposto – e che le mosse da compiere siano altre. Da una parte, lavorare alla “rifondazione” della politica, a partire dal suo agire, rafforzando le forme della democrazia, la partecipazione organizzata, il dibattito pubblico, la capacità deliberativa e la saggezza di governanti e governati. Questo contribuirebbe a restringere lo spazio della tecnica, della forma di vita tecnica, che da fatto elitario si sta fatalmente tramutando in una convinzione sempre più diffusa ed egemone nel popolo.
Il ritorno dell’agire, quale effetto di un confronto aspro e vittorioso contro l’ideologia della tecnica, ridarebbe anche spazio al pensiero, lo porrebbe di nuovo innanzi alla condotta umana, alle forme di vita pratica in azione, lo curverebbe dalla speculazione alla dialettica necessaria a ripristinare una relazione con le cose della vita, a partire da quelle pubbliche, in vista della ricerca collettiva di un bene comune. Non che non serva una “rifondazione” della filosofia, altro che. Ma questa dovrebbe essere principalmente rifondazione pratica, che la collochi a più diretto contatto con la vita e la condotta umana, che la renda più aderente alle cose stesse. Non solo glosse a quel che accade, per quanto intellettualmente brillanti, non solo una constatazione disincantata dei fatti, ma una viva partecipazione agli eventi per coglierne il senso e la direzione. Vorrebbe dire attingere a un fondo morale, per riacquistare la forza e la capacità di modificare la struttura delle cose in vista di una vita migliore.